Voi tre lettori assidui lo sapete, che io oramai ci ho una vera affezione per i blog del Fatto Quotidiano. E non c'è da stupirsi, se considerate che da giovane avevo una mia passionaccia per Zola, con quelle crude descrizioni di marginalità, e più grandicello mi sono appassionato di storia della follia.
E' quindi per me rassicurante la colonna di sinistra del Fatto, quella dove tanti blogger scrivono le loro osservazioni sul mondo: perché so che dentro ci troverò sempre qualche pezzo che mi rassicuri sul fatto (per l'appunto!) che questo mondo sia stato costruito storto dal suo supremo architetto, sia questo il caso, la natura o un vecchio col barbone.
Raramente pero si trova un'infilzata come quella odierna: un profluvio di insinuazioni tendenziose, fallacie logiche e parole in libertà lisergica dopo aver letto le quali Massimo Mazzucco si spoglia del retaggio di fotografo in cerca di fama e diviene un epistemologo di rilevante spessore.
Scaldiamoci con il sig. Antonio Capitano, funzionario comunale. Un pezzo magistrale, che vorrebbe essere furbetto e perfin ci riesce, dal titolo "Recupero Concordia: Operazione Discordia". Il lettore vorrebbe attendersi qualche piccante polemica sul costo dell'operazione, sulla ricerca di responsabilità, su retroscena di divisioni all'interno della Protezione civile. Invece no: il blogger parte dalla Concordia, la abbandona nelle sue acque e sviluppa un pipponcino, privo di senso logico ma con il pregio della brevità, la cui sintesi è che «Per raddrizzare l’Italia servono i veri Italiani».
Passiamo ora a Nicola d'Angelo, giurista esperto in diritto delle comunicazioni. Egli sviluppa, con citazioni normative, una sua tesi per spiegare al lettore del Fatto (che supponiamo già di per sé ostile a Berlusconi, e quindi ben disposto verso la tesi dell'estensore) che Berlusconi medesimo non può videomessaggiare gli Italiani. La sinossi è carina e suggestiva: peccato però che la legge dica che Berlusconi non può obbligare le televisioni a trasmettere i propri videomessaggi, mentre ha tutto il diritto di inviarli e aspettare che, bontà loro, le stesse decidano se trasmetterli o meno. E, dato che non siamo in campagna elettorale, il fatto che di una parte di quelle televisioni egli sia il mero proprietario, sempre secondo la legge, non conta. Bel tentativo, comunque.
Arriviamo a Veronica Tomassini, una che ha di sé delle idee tanto chiare da aprire la propria presentazione con le parole "Non sono veramente siciliana", e alla voce lavoro dire di essere «una scrittrice (forse)». La nostra (forse) scrittrice ci parla di un'altra (più o meno) scrittrice, Christiane F. (quella dello Zoo di Berlino). Qui la sedicente (o se-dicente, come amano scrivere quelli del Fatto Quotidiano, i quali ben consapevoli che il loro pubblico si trova a disagio nell'affrontare parole composte fanno di tutto per predigerire il lessico) scrittrice dimostra un livello culturale pienamente compatibile con il lettore di riferimento. Anzitutto, si stupisce che Christiane sia ancora viva, quando sarebbe bastata un'occhiata a Wikipedia per accertarsene. Poi, piazza la sua "divisa da eroinomane" in Alexanderplatz, rendendo noto al volgo e all'inclita una suprema ignoranza della geografia berlinese degli anni '80 (non stiamo parlando, si badi, della riorganizzazione urbanistica dei Docks di Londra: stiamo parlando di un muro della cui esistenza sono edotti anche i ragazzi di terza media). Infine spara una valanga di parole in libertà su Bowie, siringhe nel collo e poetica dello sballo, attraverso le quali capiamo che la blogger, probabilmente pur'essa psichedelica dentro, ha difficoltà nel discernere la realtà fattuale dalla fantasia filmica. Cialtroneria per cialtroneria, tanto vale che faccia un po' di namedropping e preghi la Tomassini di rivolgersi per il futuro al sottoscritto, che con Christiane ha consumato molti anni di sbronze in una malfrequentata isoletta delle Cicladi.
Ci sarebbe stato bene ora Flores d'Arcais, assente ingiustificato. In sua vece abbiamo Furio Colombo, altrettanto bollito, che dopo esser caduto due settimane fa nel trappolone tesogli dall'amato presidente Obama non è riuscito a riprendere il lume della ragione. Scrive, il noto giornalista -che credevamo non già morto ma perlomeno pensionato, a dimostrazione che anche qui si prendono svarioni- un pezzo che io ho letto più d'una volta, cercando di capirne il senso. Stavo per arrendermi alla mia ignoranza, quando finalmente mi è arrivata l'illuminazione: il senso non c'è, e il pezzo ha unicamente una funzione fàtica: dimostrare al lettore che Furio Colombo è ancora vivo. La Tomassini ringrazia.
lunedì 16 settembre 2013
martedì 10 settembre 2013
Relativismi etici
«Macche' organo giurisdizionale. Siamo senatori eletti. Siamo un organo politico e non giurisdizionale» Felice Casson, 9/9/2013
«Il senatore CASSON (PD) evidenzia le differenze, rispetto al giudizio pronunciato dalla Giunta nella scorsa legislatura; ciò giustifica un approfondimento che, nell'esercizio della funzione giurisdizionale, compete alla Giunta e non può essere compresso per una questione di schieramenti politici.» Felice Casson, 1/7/2009
«Non è la giunta che può sollevare dubbi da porre davanti alla Consulta. Noi fungiamo da pre-istruttoria, sarà l'aula a decidere. E il Pdl può appellarsi alla Corte costituzionale solo davanti a un'autorità giurisdizionale». Giuseppe Cucca, capogruppo PD nella Giunta per le immunità, 9/9/2013
«Se le "vie normali di accesso" alla Corte richiedono l’esistenza di un giudice remittente, in via incidentale rispetto ad un giudizio, la Giunta o l’Assemblea del Senato, in sede di verifica dei poteri, non può che svolgere questa funzione, pena il diniego di ogni possibilità di portare la doglianza dinanzi al Giudice delle leggi.» Vidmer Mercatali, relatore PD nella Giunta per le immunità, 1/7/2009
«Il senatore CASSON (PD) evidenzia le differenze, rispetto al giudizio pronunciato dalla Giunta nella scorsa legislatura; ciò giustifica un approfondimento che, nell'esercizio della funzione giurisdizionale, compete alla Giunta e non può essere compresso per una questione di schieramenti politici.» Felice Casson, 1/7/2009
«Non è la giunta che può sollevare dubbi da porre davanti alla Consulta. Noi fungiamo da pre-istruttoria, sarà l'aula a decidere. E il Pdl può appellarsi alla Corte costituzionale solo davanti a un'autorità giurisdizionale». Giuseppe Cucca, capogruppo PD nella Giunta per le immunità, 9/9/2013
«Se le "vie normali di accesso" alla Corte richiedono l’esistenza di un giudice remittente, in via incidentale rispetto ad un giudizio, la Giunta o l’Assemblea del Senato, in sede di verifica dei poteri, non può che svolgere questa funzione, pena il diniego di ogni possibilità di portare la doglianza dinanzi al Giudice delle leggi.» Vidmer Mercatali, relatore PD nella Giunta per le immunità, 1/7/2009
giovedì 5 settembre 2013
Non ci si può non dire Civatiani
Da vent’anni il sistema politico italiano è in attesa della “rivoluzione”. Da Mani Pulite doveva nascere la Seconda Repubblica, mondata dei vizi della Prima e più simile alle sue “colleghe” europee e occidentali, e sappiamo tutti com’è andata a finire.
Per due decenni la storia del nostro paese si è avvitata attorno alla figura di un uomo solo, ai suoi interessi e al suo destino. Con lui o contro di lui: il copione, per due decenni, non è mai cambiato. E mentre gli “altri” cambiavano leader mantenendo però gli stessi politburo, le stesse correnti, le stesse rivalità antiche, i compagni di strada di Silvio Berlusconi non si ponevano nemmeno il problema del “cambiamento”.
E adesso che la vicenda giudiziaria del Cavaliere arriva al capolinea, adesso che in un paese normale, in un partito normale, arriverebbe al capolinea anche quella politica, il Popolo della libertà (o meglio, la nuova Forza Italia) si trasforma nel fortino per l’ultima resistenza della famiglia Berlusconi.
Svaniranno forse le residue illusioni di chi pensava che fosse possibile rinnovare il centrodestra, “quel” centrodestra da dentro; di chi auspicava per tutti i riformatori e per tutti i cosiddetti moderati un approdo comune che non fosse tra le spire della Pitonessa Santanchè; di chi immaginava infine una transizione morbida post-berlusconiana, le primarie o almeno un congresso che incoronassero un erede non deciso nel salotto di Arcore. Non è accaduto finora, figurarsi se accadrà mentre nella testa di Silvio risuonano i tamburi di guerra.
Per questo, non stupisce che chi ancora serba qualche speranza nella possibilità di costruire un progetto politico innovativo e rinnovatore, un progetto che superi di conflitto ideologico (comunisti contro fascisti, antiberlusconiani contro berlusconiani) per entrare finalmente in quella dei contenuti, guardi oggi con interesse alla marcia del “filosofo” nel campo democratico.
Pippo Civati è il punto di riferimento obbligato per chi spera di archiviare al più presto una Seconda Repubblica nata male e finita ancor peggio, inaugurando una nuova stagione. Lo è a prescindere dal “dna” politico di ciascuno, proprio perché ogni “rupture” richiede l’abbandono delle vecchie appartenenze. Lo è per chi crede in una sinistra meno autoreferenziale e meno ingessata, naturalmente. Ma lo è anche per chi negli ultimi anni ha ritenuto – con alterne fortune, come è il caso di chi ha creduto nell’esperienza finiana, poi naufragata per i troppi errori oltre che per la troppa forza del Caimano – che fosse possibile costruire un nuovo progetto politico al di là dei vecchi schieramenti, declinando un’altra idea dell’Italia, alternativa alla visione padronale arcoriana, ai rigurgiti nostalgici di una destra ridotta a caricatura di se stessa, alle escandescenze xenofobe e anti-italiane della Lega, ma anche alle tendenze conservatrici della sinistra più tradizionale.
Non è stato possibile. E, tranne miracoli, purtroppo non lo sarà ancora per un po’ di tempo. Ecco perché, fino a quando Silvio Berlusconi “non mollerà” la presa dalla politica italiana, non ci si può non dire ciwatiani. Ad oggi è l’unico riformismo possibile.
Capita spesso di leggere minchiate. Sul Fatto Quotidiano, in ossequio al nome della testata, capita quotidianamente. Su questa, non so neppur io perché, mi sono soffermato a lungo, sono andato a rileggermela cinque o dieci volte, cercando di carpirne un senso, quale che fosse.
Perché è scritta discretamente, il linguaggio è sciolto, addirittura -salvo in un caso- si chiama Berlusconi con nome e cognome, anziché con appellativi dispregiativi o con l'iniziale (tutte cose che fanno riderissimi i lettori del Fatto i quali -del resto se non fosse così non leggerebbero il Fatto- non si rendono conto che in quel modo rendono ancor più eroica la sua figura).
Il problema è un altro: il problema è che tutta quell'accozzaglia di parole non dice nulla di nulla: afferma apoditticamente senza una spiegazione, una motivazione, anche un semplice indizio.
E allora ho fatto una prova: ho sostituito al nome dell'amato un altro nome, a caso. Il discorso fila identicissimo a sé stesso: a dimostrazione che non è un discorso, bensì un jingle pubblicitario.
Per due decenni la storia del nostro paese si è avvitata attorno alla figura di un uomo solo, ai suoi interessi e al suo destino. Con lui o contro di lui: il copione, per due decenni, non è mai cambiato. E mentre gli “altri” cambiavano leader mantenendo però gli stessi politburo, le stesse correnti, le stesse rivalità antiche, i compagni di strada di Silvio Berlusconi non si ponevano nemmeno il problema del “cambiamento”.
E adesso che la vicenda giudiziaria del Cavaliere arriva al capolinea, adesso che in un paese normale, in un partito normale, arriverebbe al capolinea anche quella politica, il Popolo della libertà (o meglio, la nuova Forza Italia) si trasforma nel fortino per l’ultima resistenza della famiglia Berlusconi.
Svaniranno forse le residue illusioni di chi pensava che fosse possibile rinnovare il centrodestra, “quel” centrodestra da dentro; di chi auspicava per tutti i riformatori e per tutti i cosiddetti moderati un approdo comune che non fosse tra le spire della Pitonessa Santanchè; di chi immaginava infine una transizione morbida post-berlusconiana, le primarie o almeno un congresso che incoronassero un erede non deciso nel salotto di Arcore. Non è accaduto finora, figurarsi se accadrà mentre nella testa di Silvio risuonano i tamburi di guerra.
Per questo, non stupisce che chi ancora serba qualche speranza nella possibilità di costruire un progetto politico innovativo e rinnovatore, un progetto che superi di conflitto ideologico (comunisti contro fascisti, antiberlusconiani contro berlusconiani) per entrare finalmente in quella dei contenuti, guardi oggi con interesse alla marcia del “filosofo” nel campo democratico.
Pippo Civati è il punto di riferimento obbligato per chi spera di archiviare al più presto una Seconda Repubblica nata male e finita ancor peggio, inaugurando una nuova stagione. Lo è a prescindere dal “dna” politico di ciascuno, proprio perché ogni “rupture” richiede l’abbandono delle vecchie appartenenze. Lo è per chi crede in una sinistra meno autoreferenziale e meno ingessata, naturalmente. Ma lo è anche per chi negli ultimi anni ha ritenuto – con alterne fortune, come è il caso di chi ha creduto nell’esperienza finiana, poi naufragata per i troppi errori oltre che per la troppa forza del Caimano – che fosse possibile costruire un nuovo progetto politico al di là dei vecchi schieramenti, declinando un’altra idea dell’Italia, alternativa alla visione padronale arcoriana, ai rigurgiti nostalgici di una destra ridotta a caricatura di se stessa, alle escandescenze xenofobe e anti-italiane della Lega, ma anche alle tendenze conservatrici della sinistra più tradizionale.
Non è stato possibile. E, tranne miracoli, purtroppo non lo sarà ancora per un po’ di tempo. Ecco perché, fino a quando Silvio Berlusconi “non mollerà” la presa dalla politica italiana, non ci si può non dire ciwatiani. Ad oggi è l’unico riformismo possibile.
Capita spesso di leggere minchiate. Sul Fatto Quotidiano, in ossequio al nome della testata, capita quotidianamente. Su questa, non so neppur io perché, mi sono soffermato a lungo, sono andato a rileggermela cinque o dieci volte, cercando di carpirne un senso, quale che fosse.
Perché è scritta discretamente, il linguaggio è sciolto, addirittura -salvo in un caso- si chiama Berlusconi con nome e cognome, anziché con appellativi dispregiativi o con l'iniziale (tutte cose che fanno riderissimi i lettori del Fatto i quali -del resto se non fosse così non leggerebbero il Fatto- non si rendono conto che in quel modo rendono ancor più eroica la sua figura).
Il problema è un altro: il problema è che tutta quell'accozzaglia di parole non dice nulla di nulla: afferma apoditticamente senza una spiegazione, una motivazione, anche un semplice indizio.
E allora ho fatto una prova: ho sostituito al nome dell'amato un altro nome, a caso. Il discorso fila identicissimo a sé stesso: a dimostrazione che non è un discorso, bensì un jingle pubblicitario.