Gran can can, tanto per cambiare, sul nuovo redditometro, che secondo alcuni quotidiani sarebbe uno strumento degno dell'Unione Sovietica staliniana.
In linea di principio non è del tutto sbagliato il principio che fa vedere con forte sospetto tutto ciò in cui lo Stato introduce un'inversione dell'onere della prova: dimostrare di NON aver fatto una certa cosa è assai più difficile che dimostrare di averla fatta; e se nei reati classici c'è sempre la possibilità di fornire un alibi (ma non è che uno possa andare tutte le sere al circolo del polo per poter in un futuro dimostrare di non aver ammazzato il proprio vicino di pianerottolo), ben diverso è il caso in cui si richiede al contribuenbte di dimostrare di NON aver speso 600 euri al mese per comperare pane e latte. A nulla servirebbe conservare tutti gli scontrini, pagare tutto con il bancomat, conservare il quotidiano anziché gettarlo nella differenziata: non potrai mai riuscire a dimostrare che NON hai comperato dei biscotti con una banconota da cinque euri; che NON sei andato a prendere l'aperitivo al bar e che NON hai fatto benzina al self-service.
Questo in linea di principio.
In pratica, però, le cose stanno un po' diversamente. Se io (che certo non guadagno molto ma rispetto alla media ho uno stipendio tutt'altro che disprezzabile) faccio fatica ad arrivare alla fine del mese, e guido una carretta così vecchia che mio figlio si vergogna di salirci sopra, come faranno allora tutti quelli che conducono macchinoni nuovi di trinca, vanno in vacanza nei villaggi turistici e godono di seconde case al mare e ai monti? Ci dev'essere qualcosa che non funziona: e il nuovo redditometro è uno strumento certo brutale, ma consono allo stato d'emergenza del nostro sistema fiscale. Del resto, non tutti sanno che Robespierre era ferocemente CONTRARIO alla pena di morte, salvo che quando essa fosse indispensabile per la salvezza dello Stato.
Ho quindi voluto provare a fare anche il il redditest, giusto per vedere quanto fossi "coerente".
Ne è risultato che io, che -mi ripeto qualora non si fosse capito bene- arrivo alla fine del mese stirato, resterei coerente anche qualora, oltre alle spese che già sostengo, mi permettessi di mantenere:
- una seconda casa da 1.200 euri/mese;
- un abbonamento alla pay-tv da 100 euri/mese;
- un cavallo;
- un abbonamento al circolo del tennis da 100 euri/mese.
Quando ho provato a mandare Nichita all'università (con una retta da 5.000 euri, mica scherzi), solo allora sono diventato non congruo.
L'esperimento dal punto di vista scientifico non sarà 'sto granché, ma direi proprio che non si tratti di uno strumento studiato per vessare il povero cittadino.
mercoledì 9 gennaio 2013
lunedì 17 dicembre 2012
Vous ne mangeriez pas ici des cédrats confits
Il post di qualche giorno fa ha suscitato una piccola serie di commenti tra qualche amico e conoscente della rete che si è preso la briga di leggerlo.
Io ho commentato molto di sfuggita, dato che le sensibilità personali sono, per l'appunto, personali, e che non mi sento ancora rivestito dello spirito del missionario né, tanto meno, del domenicano che cerca di far convertire l'eretico prima di abbruciarlo.
E' però forse opportuno spendere una parola per chiarire un piccolo equivoco nel quale, complice la mia esposizione non del tutto perspicua, sembra siano caduti alcuni lettori.
Taluno, infatti, ha ritenuto soprattutto l'ultima parte della mia esposizione; e così facendo si è convinto che la mia conversione (o presa di coscienza, o come la si voglia chiamare) sia stata dettata dal fatto che abbracciando (o comportandomi come se avessi abbracciato) un certo credo avrei avuto la possibilità di migliorare me stesso e il modo con cui mi relaziono al mondo. E costoro si chiedono, logicamente, perché mai io abbia dovuto cercare ristoro nei conforti di una religione e non abbia saputo trovare in me stesso la forza d'animo necessaria a migliorarmi o, in subordine, se non avrei potuto scegliere una qualsiasi delle altre religioni che circolano per il globo.
Ecco: si tratta di una visione sbagliata, frutto, come dicevo, anche della mia fatica nello scrivere quelle righe e nel dare contezza del mio percorso.
In realtà non è che io abbia sentito un richiamo etico e mi sia rivolto a una religione per rafforzare questo sentimento, quasi che il Paradiso fosse la lepre da far correre dinanzi alla mia morale: è proprio il contrario.
Io, a un certo punto della mia vita, ho deciso che non ero più soddisfatto dei libri che ti spiegano come e qualmente per fare un occhio bastino un po' di cellule e alcuni miliardi di mutazioni casuali; e ho avvertito pure che, quand'anche ciò fosse vero, non riuscivo più a sopportare di essere il frutto di quei miliardi di mutazioni casuali, dato che ciò avrebbe fatto della mia vita (perlomeno di quel che ormai ne resta) qualcosa di faticoso e opprimente.
Ho sentito che non volevo più vedere me stesso come un oggetto con un suo ciclo di vita, e ho pensato che cambiare un femore, ad esempio, sia qualcosa di diverso dal cambiare le pastiglie dei freni della Twingo: non solo qualitativamente bensì proprio sostanzialmente.
Ne è dipeso un mio avvicinamento al Cristianesimo: avvicinamento che immaginavo mi sarebbe costato caro; ma si trattava di un prezzo che volevo provare a pagare pur di smettere di sbirciarmi il contachilometri interiore.
Poi -non prima- ho scoperto che quell'avvicinamento non solo non mi è costato caro, ma ci ho anche guadagnato: per cui adesso mi sento meglio (che era lo scopo principale della conversione) e credo si essere migliore (il che non era lo scopo, ma è stata una gradita sorpresa).
Io ho commentato molto di sfuggita, dato che le sensibilità personali sono, per l'appunto, personali, e che non mi sento ancora rivestito dello spirito del missionario né, tanto meno, del domenicano che cerca di far convertire l'eretico prima di abbruciarlo.
E' però forse opportuno spendere una parola per chiarire un piccolo equivoco nel quale, complice la mia esposizione non del tutto perspicua, sembra siano caduti alcuni lettori.
Taluno, infatti, ha ritenuto soprattutto l'ultima parte della mia esposizione; e così facendo si è convinto che la mia conversione (o presa di coscienza, o come la si voglia chiamare) sia stata dettata dal fatto che abbracciando (o comportandomi come se avessi abbracciato) un certo credo avrei avuto la possibilità di migliorare me stesso e il modo con cui mi relaziono al mondo. E costoro si chiedono, logicamente, perché mai io abbia dovuto cercare ristoro nei conforti di una religione e non abbia saputo trovare in me stesso la forza d'animo necessaria a migliorarmi o, in subordine, se non avrei potuto scegliere una qualsiasi delle altre religioni che circolano per il globo.
Ecco: si tratta di una visione sbagliata, frutto, come dicevo, anche della mia fatica nello scrivere quelle righe e nel dare contezza del mio percorso.
In realtà non è che io abbia sentito un richiamo etico e mi sia rivolto a una religione per rafforzare questo sentimento, quasi che il Paradiso fosse la lepre da far correre dinanzi alla mia morale: è proprio il contrario.
Io, a un certo punto della mia vita, ho deciso che non ero più soddisfatto dei libri che ti spiegano come e qualmente per fare un occhio bastino un po' di cellule e alcuni miliardi di mutazioni casuali; e ho avvertito pure che, quand'anche ciò fosse vero, non riuscivo più a sopportare di essere il frutto di quei miliardi di mutazioni casuali, dato che ciò avrebbe fatto della mia vita (perlomeno di quel che ormai ne resta) qualcosa di faticoso e opprimente.
Ho sentito che non volevo più vedere me stesso come un oggetto con un suo ciclo di vita, e ho pensato che cambiare un femore, ad esempio, sia qualcosa di diverso dal cambiare le pastiglie dei freni della Twingo: non solo qualitativamente bensì proprio sostanzialmente.
Ne è dipeso un mio avvicinamento al Cristianesimo: avvicinamento che immaginavo mi sarebbe costato caro; ma si trattava di un prezzo che volevo provare a pagare pur di smettere di sbirciarmi il contachilometri interiore.
Poi -non prima- ho scoperto che quell'avvicinamento non solo non mi è costato caro, ma ci ho anche guadagnato: per cui adesso mi sento meglio (che era lo scopo principale della conversione) e credo si essere migliore (il che non era lo scopo, ma è stata una gradita sorpresa).
giovedì 13 dicembre 2012
C'est la faute à Pascal
L'altro giorno, mentre il Paese Reale si struggeva sul tema il foglio di dimissioni dal pronto soccorso in arresto cardiaco è o non è giustificazione sufficiente per poter votare al secondo turno delle primarie?, il sottoscritto bel bello prendeva la bicicletta, se ne andava alla chiesa di via Caboto e, ivi giunto, si confessava, assisteva alla messa feriale e si comunicava.
La cosa è nota a pochi; e quei pochi sono solo taluni amici del socialino sul quale ho annunciato l'evento. Non l'ho ancora detto a nessun altro, e del resto temo che se ne informassi mia madre senza un'adeguata preparazione mi troverei ben presto in un pronto soccorso, con lei in arresto cardiaco; per cui mi faccio le ossa qui, sapendo che la massima reazione del lettore sarà un'alzata di sopracciglio.
Ma, anzitutto, perché raccontare di questo passo? Non certo per voglia di stupire o per peccato d'orgoglio: semplicemente perché scriverne è in un certo modo già rispondere alla prima supplica del Padre Nostro, quella che invocando la santificazione del nome di Dio impegna gli uomini a testimoniare le proprie inclinazioni e le proprie opere in tal senso. Se il racconto di ciò che ho passato potrà essere d'interesse e magari d'aiuto per coloro che si trovassero ad affrontare un percorso simile a quello che ho passato io, allora il tempo speso per scrivere queste righe sarà servito a qualcosa.
aggiornamento in corso d'opera questo post non è stato scritto tutto in una volta. Nel frattempo c'è anche stata la sciocca polemica sulla comunione di Ilona Staller; magari il post potrebbe essere utile anche a chi si è scandalizzato di ciò.
E allora raccontiamoci: e iniziamo da un annetto fa, quando eravamo in quella stessa chiesa io e un po' di coloro che leggeranno questo post, davanti a una cassa di legno.
Proprio pochi minuti prima avevo decliato al parroco la mia più totale agnosticità ed egli, sornione (o sarcastico?!?) aveva risposto «se voi non credete va bene: vorrà dire che saremo noi che crediamo a pregare per lei».
Poi, mentre ero lì sull'ambone a leggere quegli appunti che mi ero preparato, effettivamente ho sentito qualcosa: ho avvertito, in qualche modo, che non tutto poteva finire lì, o quantomeno che se tutto fosse finito lì, allora quel tutto non avrebbe avuto molto senso.
Sono cose che si provano, quando si viene colpiti da un lutto, una malattia o qualcosa di grave: ci si rivolge a Dio, anche se non si crede; e scommetto che perfino il buon Odifreddi, se dovesse trovarsi a 3000 metri d'altezza, fuor d'aereoplano e senza paracadute, forse forse un pensiero in tal senso lo formulerebbe. Ma sono cose che passano: i lutti si elaborano, i matematici si sfracellano al suolo, e tutto ritorna pian piano come prima.
Per me invece non era tornato tutto come prima. Mi ripeto: io sono sempre stato agnostico, mai ateo, e quindi il dubbio in fondo in fondo me lo ponevo, ma più come problema di indecidibilità, non di effettiva realtà di un Dio: esistenza suffragata al più da pochi frammenti di libri vecchi di secoli, e da una serie di pratiche superstiziose. Da quel giorno, invece, ho cominciato a pormelo più seriamente, il problema, e soprattutto ho iniziato a considerare quanto orgoglio ci fosse nel pretendere di aver ragione, nel non credere, considerato che la stragrande maggioranza dell'umanità in qualche essere supremo ci crede, a prescindere dal nome che gli attribuisce.
Il fatto vero è che quando uno arriva alla mia età, comincia a convincersi che -pur se non sempre- spesso se uno solo dice verde e cento altri dicono rosso, il problema non è che i cento sono cretini, bensì che l'uno è daltonico.
E' davvero possibile, mi chiedevo, che l'intero mondo vada a inseguire idoli frutto della fantasia e dell'oppio dei popoli, e che solo uno sparuto gruppo di Illuminati conosca la verità rivelata, vale a dire che non c'è nessuna Rivelazione?
La cosa avrebbe potuto andare avanti per un po' e morire lì, senonché una sera sono andato a bussare a casa di quel prete, gli ho parlato dei miei dubbi, sperando che lui mi tirasse fuori un picciol discorso all'esito del quale avrei potuto avere una risposta chiara e definitiva.
Il drudo invece si limitò ad ascoltarmi, assentire, scambiare due chiacchiere e suggerirmi di leggere il Vangelo di Marco («è piccolino, può bastare anche una mezza giornata...») invitandomi a tornare quando l'avessi fatto.
Mi sono letto quello di Marco, e anche gli altri tre; poi gli Atti, poi un po' di roba sparpagliata.
Nel frattempo mi era successa un'altra cosa poco gradevole: una di quelle che può cambiarti la vita. Sapevo che per uscirne con le ossa intere avrei potuto contare solo su me stesso, e ho fatto tutto ciò che potevo; nel frattempo -non foss'altro per non lasciar nulla d'intentato, e dato che oramai ero già nella giusta disposizione d'animo- me ne sono anche andato a Messa.
Vi risparmio le varie fasi della presa di coscienza; sta di fatto che a un certo punto, a pericolo forse non definitivamente scampato ma certo reso più distante, mi sono reso conto che in effetti il Dio cristiano non è una slot machine alla quale chiedere miracoli o grazie: Cristo parla della vita eterna e del Regno dei Cieli, e di questo mondo si occupa solo per spiegare come arrivare a quell'altro.
Ma, contemporaneamente a questa presa di coscienza (coscienza, mi ripeto, della perfetta inutilità dell'andare in Chiesa a pregare per scampare da un pericolo terreno incombente), cominciava a macerare dentro un po' di quel messaggio cristiano che non parla solo del divieto di andare a letto con chi ci pare, ma di tante altre cose ben più incisive nella vita di una persona.
Dà un futuro, o perlomeno la speranza di un futuro, e con esso un senso a ciò che facciamo nel presente. E impone una serie di regole che, se lette con attenzione, magari provando a lasciare per un attimo da parte il sesto comandamento, non sono altro che manifestazioni di buon senso.
Non uccidere, non rubare, non mentire: sono precetti universali; e lo sono anche quando si riferiscono ad argomenti controversi come l'aborto, che per quanto permesso dalla legge civile (e io credo fermamente che debba rimanere permesso dalla legge civile), resta pur sempre un atto che drammatico anzitutto per la donna che lo subisce.
E così anche per comandamenti meno chiaramente logici: santificare le feste non vuol dire andare passivamente alla Messa, bensì trovare il tempo per ricrearsi dalle fatiche quotidiane e per pensare a qualcosa di più elevato rispetto alla quotidianità che ci assilla; rispettare i genitori nella nostra società odierna dovrebbe essere posto quale primo articolo del Codice civile, non foss'altro per ricambiare tutto ciò che ci ha fatti quelli che siamo da adulti.
Ma, soprattutto, quei comandamenti sono fatti per fare stare meglio chi li segue, indipendentemente dal fatto che si creda o meno in un premio finale.
Nella mia vita sono sempre stato un po' leggero. In un recente periodo vivevo con una ex-moglie, avevo una fidanzata, coltivavo un'amante e non mi facevo mancare qualche occasionale scappatella. Ciò era fonte di un certo stress, come potrete bene immaginare: e non solo fisico, ma soprattutto dal lato del senso di colpa che provavo verso le persone che mi volevano bene e del cui amore mi sentivo indegno.
Poi un giorno, mentre continuavo ad arrovellarmi, a casa di quella famosa amante (che nel frattempo ha disdetto l'abbonamento a Sky, e quindi niente più Megastrutture), mi capita in mano Pascal.
Tutti conoscono la scommessa di Pascal come precorritrice della teoria dei giochi: tanto infinito è il premio finale, che qualunque cosa si debba mettere come posta, ne vale la pena anche se le probabilità di vittoria fossero minime. Un ragionamento che, in fede mia, non credo abbia mai convinto nessuno.
Ma non basta la lettura à la Odifreddi, per comprendere Pascal. Perché dopo il brano famoso, quello che recita
Anzitutto, che non siamo nella situazione di un giocatore di sala corse: noi non possiamo decidere di non scommettere: per il fatto stesso di essere vivi, e quindi destinati a morire, una scelta la dobbiamo fare su come affrontare questa certezza. Possiamo scegliere di credere in un futuro, o che tutto finisca lì; ma non possiamo permetterci di passare la mano: la fiche o sul nero o sul rosso dobbiamo comunque puntarla.
Ma, ed è il punto qualificante, Pascal aggiunge (umilmente, quasi un post scriptum) in coda al frammento della scommessa:
Ed è proprio questo il punto. Chi crede (o chi, non riuscendo a credere veramente, perlomeno si comporta come se credesse), vive meglio questa vita.
In questo anno, tentando di seguire i precetti dettati dall'oppio dei popoli, sono stato più attento a mio figlio; sono stato più impegnato sul lavoro; ho evitato di infilarmi nell'ennesimo triangolo o pentagono che avrebbe fatto soffrire un paio di brave ragazze che avevano avuto già modo di soffrire abbastanza in passato, e che non avevano certo bisogno di incontrare l'ennesimo prenditore in giro.
La sera vado a letto e mi sento meglio dopo aver detto le mie preghierine: non tanto per il fatto di averle dette, ma perché so che quell'atto è la conclusione di un giorno in cui sono stato migliore di quanto sarei stato un paio d'anni fa. E al contempo mi cruccio di non fare abbastanza di quello che potrei: dovrei impegnarmi ancora di più per Nichita; dovrei fare quella telefonata ad A., per sapere se quella certa cosa sta andando verso il bene; ma non ho coraggio di farlo temendo che la risposta possa essere il contrario; dovrei preoccuparmi di più della salute di mia madre, che rischia di diventare cieca, ma non riesco ancora a dimostrarle quanto la cosa mi tocchi. Ma mentre prima non mi ponevo il problema, né verso Nichita né verso A. né verso mia madre, oggi ogni giorno cerco di fare un passettino in più per migliorarmi.
Insomma: la scommessa in un certo modo l'ho già vinta, e ancora l'estrazione non c'è stata.
(1) Avete due cose da perdere: la verità e il bene, e due cose da mettere in gioco: la vostra ragione e la vostra volontà [cioè] la vosttra conoscenza e la vostra felicità; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la miseria. La vostra ragione non è toccata scegliendo l'una o l'altra possibilità, perché bisogna necessariamente operare una scelta. E questo punto è risolto. Ma la vostra felicità? Pesiamo il guadagno da una parte e dall'altra, e scommettiamo che Dio sia: se vincete, vincete tutto; se perdete, non perdete niente. Scommettete dunque che sia, senza esitazione.
(2) Orbene, che male può venirvi prendendo questo partito? Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, benefacente, amico sincero e vero... In verità non sarete in mezzo ai piaceri tribolati, alla gloria e alle delizie mondane, ma non avrete forse altri piaceri?
Vi dico che ci guadagnerete, in questa vita, e che a ogni passo che farete in questo cammino vedrete tanta certezza di guadagno e tanta nullità in ciò che mettete in gioco, che alla fine capirete di aver scommesso per una vittoria certa e infinita senza mettere in gioco nulla.
La cosa è nota a pochi; e quei pochi sono solo taluni amici del socialino sul quale ho annunciato l'evento. Non l'ho ancora detto a nessun altro, e del resto temo che se ne informassi mia madre senza un'adeguata preparazione mi troverei ben presto in un pronto soccorso, con lei in arresto cardiaco; per cui mi faccio le ossa qui, sapendo che la massima reazione del lettore sarà un'alzata di sopracciglio.
Ma, anzitutto, perché raccontare di questo passo? Non certo per voglia di stupire o per peccato d'orgoglio: semplicemente perché scriverne è in un certo modo già rispondere alla prima supplica del Padre Nostro, quella che invocando la santificazione del nome di Dio impegna gli uomini a testimoniare le proprie inclinazioni e le proprie opere in tal senso. Se il racconto di ciò che ho passato potrà essere d'interesse e magari d'aiuto per coloro che si trovassero ad affrontare un percorso simile a quello che ho passato io, allora il tempo speso per scrivere queste righe sarà servito a qualcosa.
aggiornamento in corso d'opera questo post non è stato scritto tutto in una volta. Nel frattempo c'è anche stata la sciocca polemica sulla comunione di Ilona Staller; magari il post potrebbe essere utile anche a chi si è scandalizzato di ciò.
E allora raccontiamoci: e iniziamo da un annetto fa, quando eravamo in quella stessa chiesa io e un po' di coloro che leggeranno questo post, davanti a una cassa di legno.
Proprio pochi minuti prima avevo decliato al parroco la mia più totale agnosticità ed egli, sornione (o sarcastico?!?) aveva risposto «se voi non credete va bene: vorrà dire che saremo noi che crediamo a pregare per lei».
Poi, mentre ero lì sull'ambone a leggere quegli appunti che mi ero preparato, effettivamente ho sentito qualcosa: ho avvertito, in qualche modo, che non tutto poteva finire lì, o quantomeno che se tutto fosse finito lì, allora quel tutto non avrebbe avuto molto senso.
Sono cose che si provano, quando si viene colpiti da un lutto, una malattia o qualcosa di grave: ci si rivolge a Dio, anche se non si crede; e scommetto che perfino il buon Odifreddi, se dovesse trovarsi a 3000 metri d'altezza, fuor d'aereoplano e senza paracadute, forse forse un pensiero in tal senso lo formulerebbe. Ma sono cose che passano: i lutti si elaborano, i matematici si sfracellano al suolo, e tutto ritorna pian piano come prima.
Per me invece non era tornato tutto come prima. Mi ripeto: io sono sempre stato agnostico, mai ateo, e quindi il dubbio in fondo in fondo me lo ponevo, ma più come problema di indecidibilità, non di effettiva realtà di un Dio: esistenza suffragata al più da pochi frammenti di libri vecchi di secoli, e da una serie di pratiche superstiziose. Da quel giorno, invece, ho cominciato a pormelo più seriamente, il problema, e soprattutto ho iniziato a considerare quanto orgoglio ci fosse nel pretendere di aver ragione, nel non credere, considerato che la stragrande maggioranza dell'umanità in qualche essere supremo ci crede, a prescindere dal nome che gli attribuisce.
Il fatto vero è che quando uno arriva alla mia età, comincia a convincersi che -pur se non sempre- spesso se uno solo dice verde e cento altri dicono rosso, il problema non è che i cento sono cretini, bensì che l'uno è daltonico.
E' davvero possibile, mi chiedevo, che l'intero mondo vada a inseguire idoli frutto della fantasia e dell'oppio dei popoli, e che solo uno sparuto gruppo di Illuminati conosca la verità rivelata, vale a dire che non c'è nessuna Rivelazione?
La cosa avrebbe potuto andare avanti per un po' e morire lì, senonché una sera sono andato a bussare a casa di quel prete, gli ho parlato dei miei dubbi, sperando che lui mi tirasse fuori un picciol discorso all'esito del quale avrei potuto avere una risposta chiara e definitiva.
Il drudo invece si limitò ad ascoltarmi, assentire, scambiare due chiacchiere e suggerirmi di leggere il Vangelo di Marco («è piccolino, può bastare anche una mezza giornata...») invitandomi a tornare quando l'avessi fatto.
Mi sono letto quello di Marco, e anche gli altri tre; poi gli Atti, poi un po' di roba sparpagliata.
Nel frattempo mi era successa un'altra cosa poco gradevole: una di quelle che può cambiarti la vita. Sapevo che per uscirne con le ossa intere avrei potuto contare solo su me stesso, e ho fatto tutto ciò che potevo; nel frattempo -non foss'altro per non lasciar nulla d'intentato, e dato che oramai ero già nella giusta disposizione d'animo- me ne sono anche andato a Messa.
Vi risparmio le varie fasi della presa di coscienza; sta di fatto che a un certo punto, a pericolo forse non definitivamente scampato ma certo reso più distante, mi sono reso conto che in effetti il Dio cristiano non è una slot machine alla quale chiedere miracoli o grazie: Cristo parla della vita eterna e del Regno dei Cieli, e di questo mondo si occupa solo per spiegare come arrivare a quell'altro.
Ma, contemporaneamente a questa presa di coscienza (coscienza, mi ripeto, della perfetta inutilità dell'andare in Chiesa a pregare per scampare da un pericolo terreno incombente), cominciava a macerare dentro un po' di quel messaggio cristiano che non parla solo del divieto di andare a letto con chi ci pare, ma di tante altre cose ben più incisive nella vita di una persona.
Dà un futuro, o perlomeno la speranza di un futuro, e con esso un senso a ciò che facciamo nel presente. E impone una serie di regole che, se lette con attenzione, magari provando a lasciare per un attimo da parte il sesto comandamento, non sono altro che manifestazioni di buon senso.
Non uccidere, non rubare, non mentire: sono precetti universali; e lo sono anche quando si riferiscono ad argomenti controversi come l'aborto, che per quanto permesso dalla legge civile (e io credo fermamente che debba rimanere permesso dalla legge civile), resta pur sempre un atto che drammatico anzitutto per la donna che lo subisce.
E così anche per comandamenti meno chiaramente logici: santificare le feste non vuol dire andare passivamente alla Messa, bensì trovare il tempo per ricrearsi dalle fatiche quotidiane e per pensare a qualcosa di più elevato rispetto alla quotidianità che ci assilla; rispettare i genitori nella nostra società odierna dovrebbe essere posto quale primo articolo del Codice civile, non foss'altro per ricambiare tutto ciò che ci ha fatti quelli che siamo da adulti.
Ma, soprattutto, quei comandamenti sono fatti per fare stare meglio chi li segue, indipendentemente dal fatto che si creda o meno in un premio finale.
Nella mia vita sono sempre stato un po' leggero. In un recente periodo vivevo con una ex-moglie, avevo una fidanzata, coltivavo un'amante e non mi facevo mancare qualche occasionale scappatella. Ciò era fonte di un certo stress, come potrete bene immaginare: e non solo fisico, ma soprattutto dal lato del senso di colpa che provavo verso le persone che mi volevano bene e del cui amore mi sentivo indegno.
Poi un giorno, mentre continuavo ad arrovellarmi, a casa di quella famosa amante (che nel frattempo ha disdetto l'abbonamento a Sky, e quindi niente più Megastrutture), mi capita in mano Pascal.
Tutti conoscono la scommessa di Pascal come precorritrice della teoria dei giochi: tanto infinito è il premio finale, che qualunque cosa si debba mettere come posta, ne vale la pena anche se le probabilità di vittoria fossero minime. Un ragionamento che, in fede mia, non credo abbia mai convinto nessuno.
Ma non basta la lettura à la Odifreddi, per comprendere Pascal. Perché dopo il brano famoso, quello che recita
«Vous avez deux choses à perdre : le vrai et le bien, et deux choses à engager : votre raison et votre volonté, votre connaissance et votre béatitude ; et votre nature a deux choses à fuir : l'erreur et la misère. Votre raison n'est pas plus blessée, en choisissant l'un que l'autre, puisqu'il faut nécessairement choisir. Voilà un point vidé. Mais votre béatitude ? Pesons le gain et la perte, en prenant croix que Dieu est. Estimons ces deux cas : si vous gagnez, vous gagnez tout ; si vous perdez, vous ne perdez rien. Gagez donc qu'il est, sans hésiter. »(1), Pascal aggiunge qualcosa.
Anzitutto, che non siamo nella situazione di un giocatore di sala corse: noi non possiamo decidere di non scommettere: per il fatto stesso di essere vivi, e quindi destinati a morire, una scelta la dobbiamo fare su come affrontare questa certezza. Possiamo scegliere di credere in un futuro, o che tutto finisca lì; ma non possiamo permetterci di passare la mano: la fiche o sul nero o sul rosso dobbiamo comunque puntarla.
Ma, ed è il punto qualificante, Pascal aggiunge (umilmente, quasi un post scriptum) in coda al frammento della scommessa:
«Or quel mal vous arrivera‑t‑il en prenant ce parti ? Vous serez fidèle, honnête, humble, reconnaissant, bienfaisant, ami sincère, veritable... A la vérité vous ne serez point dans les plaisirs empestés, dans la gloire, dans les délices, mais n’en aurez‑vous point d’autres ?
Je vous dis que vous y gagnerez en cette vie, et qu’à chaque pas que vous ferez dans ce chemin, vous verrez, tant de certitude de gain, et tant de néant de ce que vous hasardez, que vous connaîtrez à la fin que vous avez parié pour une chose certaine, infinie, pour laquelle vous n’avez rien donné.»(2)
Ed è proprio questo il punto. Chi crede (o chi, non riuscendo a credere veramente, perlomeno si comporta come se credesse), vive meglio questa vita.
In questo anno, tentando di seguire i precetti dettati dall'oppio dei popoli, sono stato più attento a mio figlio; sono stato più impegnato sul lavoro; ho evitato di infilarmi nell'ennesimo triangolo o pentagono che avrebbe fatto soffrire un paio di brave ragazze che avevano avuto già modo di soffrire abbastanza in passato, e che non avevano certo bisogno di incontrare l'ennesimo prenditore in giro.
La sera vado a letto e mi sento meglio dopo aver detto le mie preghierine: non tanto per il fatto di averle dette, ma perché so che quell'atto è la conclusione di un giorno in cui sono stato migliore di quanto sarei stato un paio d'anni fa. E al contempo mi cruccio di non fare abbastanza di quello che potrei: dovrei impegnarmi ancora di più per Nichita; dovrei fare quella telefonata ad A., per sapere se quella certa cosa sta andando verso il bene; ma non ho coraggio di farlo temendo che la risposta possa essere il contrario; dovrei preoccuparmi di più della salute di mia madre, che rischia di diventare cieca, ma non riesco ancora a dimostrarle quanto la cosa mi tocchi. Ma mentre prima non mi ponevo il problema, né verso Nichita né verso A. né verso mia madre, oggi ogni giorno cerco di fare un passettino in più per migliorarmi.
Insomma: la scommessa in un certo modo l'ho già vinta, e ancora l'estrazione non c'è stata.
(1) Avete due cose da perdere: la verità e il bene, e due cose da mettere in gioco: la vostra ragione e la vostra volontà [cioè] la vosttra conoscenza e la vostra felicità; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la miseria. La vostra ragione non è toccata scegliendo l'una o l'altra possibilità, perché bisogna necessariamente operare una scelta. E questo punto è risolto. Ma la vostra felicità? Pesiamo il guadagno da una parte e dall'altra, e scommettiamo che Dio sia: se vincete, vincete tutto; se perdete, non perdete niente. Scommettete dunque che sia, senza esitazione.
(2) Orbene, che male può venirvi prendendo questo partito? Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, benefacente, amico sincero e vero... In verità non sarete in mezzo ai piaceri tribolati, alla gloria e alle delizie mondane, ma non avrete forse altri piaceri?
Vi dico che ci guadagnerete, in questa vita, e che a ogni passo che farete in questo cammino vedrete tanta certezza di guadagno e tanta nullità in ciò che mettete in gioco, che alla fine capirete di aver scommesso per una vittoria certa e infinita senza mettere in gioco nulla.
Nessuno è più modesto di me
Vedo con dispiacere che c'è tanta gente che disquisisce sulla frase con cui il noto comico genovese ha rotto i ponti con alcuni suoi seguaci, e che si compiace per la clamorosa caduta di stile con la quale il reuccio ((tm), anche se altrui) è divenuto improvvisamente nudo.
Con dispiacere, dicevo, perché la mia già scarsa fiducia nella sinderesi media dei miei concittadini subisce di giorno in giorno sempre maggiori erosioni, tanto che medito di divenire ben presto stilita (del resto mi sono già convertito, quindi il più è fatto)
Orbene: una frase come "chi pensa che non sono democratico se ne va fuori dalle palle" è, evidentemente, una frase costruita a tavolino, esattamente come quella che dà il titolo a questo post.
Non sono cose che escano dalla bocca per errore. Non uscirebbe neppure a uno studentello di seconda liceo che parli per la prima volta davanti a un'assemblea d'istituto; figuriamoci se può scappare a un tipo con quarant'anni di esperienza su palchi e palcoscenici, e che si è legato a doppio filo a un copywriter di esperienza altrettanto quarantennale.
Chi gode di questa cosiddetta gaffe, chi pensa che sia la prima di una serie di cazzate che ridurranno il movimento dei pirla a percentuali da prefisso telefonico, dovrebbe invece interrogarsi su come stiano veramente le cose.
Per una (rara) volta non sono d'accordo con Uriel: anche se condivido le linee di fondo della sua analisi sulla base grillina, credo che il comportamento del capobastone non sia il tentativo di ricompattare una truppa di fedelissimi per garantire la purezza ideologica del branco, bensì qualcosa di un po' più furbo.
Grillo e Casaleggio non sono dei coglioni: son gente scafata che ha costruito del nulla un mezzo impero mediatico e comunicativo; i loro comportamenti devono quindi essere razionali.
Ora, immaginate di essere quei due che si trovano per una riunione di lavoro con la mazzetta dei giornali e si accorgono che con tutto il casino che hanno fatto stanno guadagnando una marea di consensi.
- Ma ti rendi conto? siamo al 20%
- Eh, che ti avevo detto?
- Sì, ma non potevo credere che ce ne fossero davvero così tanti!
- Di cretini? in Italia?!? Svegliaaaaa!!!
- Belin, e adesso che facciamo?
- Certo non possiamo pensare di esercitare il potere con un branco di ritardati mentali da manuale psichiatrico...
- Eh!
- Oltretutto questi sono talmente rappresentativi della società italiana che come arrivano a toccare una poltrona si arraffano subito qualcosa...
- Belin!
- Tempo un anno e finiscono tutti in galera, e noi due pure, se non linciati.
- Appunto.
- Senza contare il lato economico...
- ?
- Finché stiamo a urlare dal blog riusciamo a vendere cazzate, organizzare spettacoli, muovere cose e diventare ancor più ricchi di quanto già non siamo. Nel momento in cui dovessimo arrivare al potere... non son più i tempi di una volta. Non solo il peculato è più difficile, ma soprattutto bisogna farlo con attenzione. Con il branco di dementi che ci troviamo, per il 90% rubano loro direttamente, e a noi non viene in tasca niente; il restante 10% sono troppo scemi o troppo onesti per farlo, e a noi non arriva niente lo stesso.
- E allora che minchia facciamo?
- Devi fare il pirla.
- Più di così?!?
- Sì, devi fare una grande cazzata, che ci faccia perdere un bel po' di consenso. Ricompattiamo i coglioni puri e allontaniamo quelli arrivati solo perché sentono odore di grana; allo stesso tempo possiamo continuare tranquilli a fare l'opposizione urlante e vendere il merchandising, senza alcuna altra responsablità che verificare i conti in banca.
- Eh, ma con tutte le cazzate che ho già sparato... e aumentano sempre. Che cosa possiamo inventarci stavolta?
- Pensiamoci un attimo... ci servirebbe qualcosa cha appaia idiota anche a un bambino di terza elementare... aspetta... forse ho una mezza idea...
Con dispiacere, dicevo, perché la mia già scarsa fiducia nella sinderesi media dei miei concittadini subisce di giorno in giorno sempre maggiori erosioni, tanto che medito di divenire ben presto stilita (del resto mi sono già convertito, quindi il più è fatto)
Orbene: una frase come "chi pensa che non sono democratico se ne va fuori dalle palle" è, evidentemente, una frase costruita a tavolino, esattamente come quella che dà il titolo a questo post.
Non sono cose che escano dalla bocca per errore. Non uscirebbe neppure a uno studentello di seconda liceo che parli per la prima volta davanti a un'assemblea d'istituto; figuriamoci se può scappare a un tipo con quarant'anni di esperienza su palchi e palcoscenici, e che si è legato a doppio filo a un copywriter di esperienza altrettanto quarantennale.
Chi gode di questa cosiddetta gaffe, chi pensa che sia la prima di una serie di cazzate che ridurranno il movimento dei pirla a percentuali da prefisso telefonico, dovrebbe invece interrogarsi su come stiano veramente le cose.
Per una (rara) volta non sono d'accordo con Uriel: anche se condivido le linee di fondo della sua analisi sulla base grillina, credo che il comportamento del capobastone non sia il tentativo di ricompattare una truppa di fedelissimi per garantire la purezza ideologica del branco, bensì qualcosa di un po' più furbo.
Grillo e Casaleggio non sono dei coglioni: son gente scafata che ha costruito del nulla un mezzo impero mediatico e comunicativo; i loro comportamenti devono quindi essere razionali.
Ora, immaginate di essere quei due che si trovano per una riunione di lavoro con la mazzetta dei giornali e si accorgono che con tutto il casino che hanno fatto stanno guadagnando una marea di consensi.
- Ma ti rendi conto? siamo al 20%
- Eh, che ti avevo detto?
- Sì, ma non potevo credere che ce ne fossero davvero così tanti!
- Di cretini? in Italia?!? Svegliaaaaa!!!
- Belin, e adesso che facciamo?
- Certo non possiamo pensare di esercitare il potere con un branco di ritardati mentali da manuale psichiatrico...
- Eh!
- Oltretutto questi sono talmente rappresentativi della società italiana che come arrivano a toccare una poltrona si arraffano subito qualcosa...
- Belin!
- Tempo un anno e finiscono tutti in galera, e noi due pure, se non linciati.
- Appunto.
- Senza contare il lato economico...
- ?
- Finché stiamo a urlare dal blog riusciamo a vendere cazzate, organizzare spettacoli, muovere cose e diventare ancor più ricchi di quanto già non siamo. Nel momento in cui dovessimo arrivare al potere... non son più i tempi di una volta. Non solo il peculato è più difficile, ma soprattutto bisogna farlo con attenzione. Con il branco di dementi che ci troviamo, per il 90% rubano loro direttamente, e a noi non viene in tasca niente; il restante 10% sono troppo scemi o troppo onesti per farlo, e a noi non arriva niente lo stesso.
- E allora che minchia facciamo?
- Devi fare il pirla.
- Più di così?!?
- Sì, devi fare una grande cazzata, che ci faccia perdere un bel po' di consenso. Ricompattiamo i coglioni puri e allontaniamo quelli arrivati solo perché sentono odore di grana; allo stesso tempo possiamo continuare tranquilli a fare l'opposizione urlante e vendere il merchandising, senza alcuna altra responsablità che verificare i conti in banca.
- Eh, ma con tutte le cazzate che ho già sparato... e aumentano sempre. Che cosa possiamo inventarci stavolta?
- Pensiamoci un attimo... ci servirebbe qualcosa cha appaia idiota anche a un bambino di terza elementare... aspetta... forse ho una mezza idea...
sabato 27 ottobre 2012
Pi = 3
In questi giorni ho letto molti interventi che mettevano in ridicolo la sentenza che ha condannato i componenti della Commissione Grandi Rischi: interventi scritti da persone di scienza, in senso stretto o lato, i quali discettavano su un tema squisitamente giuridico.
Spesso, quando si vuole mettere in ridicolo il mondo delle scienze umane, si cita l'esempio di quello Stato unito (non ricordo quale), il cui Parlamento decretò per legge essere il Pi greco uguale a tre: una evidente sciocchezza di fronte alla quale lo scienziato si sente pervaso da sdegno verso coloro che considera appartenere a una razza e a una cultura inferiori.
Questo sdegno, questa superbia, sono le medesime che spingono gli uomini di scienza ad addentrarsi in campi che non sono loro propri, credendo che i loro modelli di interpretazione della realtà valgano universalmente.
E il bello è che la logica dello scienziato è esattamente la stessa logica del giurista, solo che lo scienziato non lo sa perché diversi sono gli argomenti ai quali gli operatori logici si applicano: e questo alla scienziato sfugge.
E valga il vero: la prima regola, quando si studia un fenomeno, è che bisogna poterlo misurare; e per poterlo misurare bisogna che il fenomeno si sia già manifestato.
Commentare un fenomeno che ancora non esiste (e tale è una sentenza non ancora scritta) è una sciocchezza. Certo, abbiamo già il dispositivo, ma questo è solo una manifestazione anticipata di un fenomeno (la motivazione), non il fenomeno stesso. E' un po' come se un fisico del suono volesse di studiare lo spettro armonico di un tuono, ma per far prima pretendesse di utilizzare solo i dati ricavati dallo spettro elettromagnetico del lampo: in effetti dal lampo sappiamo che di lì a poco arriverà il rombo del tuono, ma finché il suono non avrà compiuto il suo viaggio, non avremo nulla da misurare.
Sfugge alla logica dello scienziato che debba necessariamente esistere un lasso di tempo tra il momento della decisione del giudice (il dispositivo della sentenza) e la stesura per iscritto del ragionamento logico che lo ha sotteso (la motivazione): e ciò perché nell'ambito scientifico prima si scrive (o si dovrebbe scrivere) il ragionamento logico, e poi si danno gli annunci; ma questo metodo, in un procedimento penale, sarebbe inumano, perché lascerebbe tutte le parti processuali in un'incertezza che sconfinerebbe con la tortura. Rammentate quegli ultimi due-tre giorni di scuola, quando gli scrutini erano già stati fatti ma i quadri ancora non erano usciti? Ecco, immaginate un imputato che dovesse passare un paio di mesi ad attendere di conoscere il suo destino già deciso, e capirete cosa intendo.
Se questo discorso è valido per qualunque sentenza, lo è ancor di più nel caso specifico, dato il tipo di reato contestato.
Commentare il dispositivo di una sentenza che ha condannato la Franzoni (per riprendere il caso di cui si parla nel colonnino lì a destra) è relativamente facile: la condanna vuol dire che il giudice ha ritenuto che lei avesse ammazzato il figlio, punto. Poi servono le motivazioni per capire perché le prove a discarico siano state ritenute inconcludenti; ma una qualche certezza ce l'abbiamo.
Ma l'omicidio è un reato commissivo e doloso: si tratta cioè di una fattispecie in cui qualcuno ha fatto volutamente qualcosa.
La Commissione grandi rischi è stata imputata di un reato omissivo e colposo, vale a dire di non aver fatto qualcosa che era suo dovere fare, e di non averlo fatto non volutamente, bensì per negligenza, imprudenza o imperizia.
Per la Franzoni, era chiaro che qualcuno aveva volontariamente spaccato la testa del piccolo: si trattava solo di decidere se fosse stata la madre o qualcun altro.
Per la CGR, si trattava di capire:
- cosa avrebbe dovuto fare;
- cosa avrebbe potuto fare;
- cosa in effetti abbia fatto e che avrebbe dovuto evitare di fare;
- cosa in effetti non abbia fatto, e che avrebbe potuto fare;
- se avrebbe dovuto fare ciò che non aveva fatto pur avendolo potuto;
- se tutto ciò, dipenda da un errore scusabile, o se invece sia da ricondurre a imprudenza, negligenza o imperizia (sciatteria, sbadataggine, menefreghismo);
- se l'omissione (il non aver fatto ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare) abbia o meno una relazione di causa-effetto con l'evento (la morte di una o più persone).
Vedete bene che le cose si sono complicate, e molto. E la memoria del PM (grazie a .mau. per il link) queste cose le affronta, con ragionamenti che seguiono una logica formale precisa e puntuale, tanto che potrebbe essere riscritta in simboli. Ma la memoria del PM, ancora, non è la sentenza.
Spesso, quando si vuole mettere in ridicolo il mondo delle scienze umane, si cita l'esempio di quello Stato unito (non ricordo quale), il cui Parlamento decretò per legge essere il Pi greco uguale a tre: una evidente sciocchezza di fronte alla quale lo scienziato si sente pervaso da sdegno verso coloro che considera appartenere a una razza e a una cultura inferiori.
Questo sdegno, questa superbia, sono le medesime che spingono gli uomini di scienza ad addentrarsi in campi che non sono loro propri, credendo che i loro modelli di interpretazione della realtà valgano universalmente.
E il bello è che la logica dello scienziato è esattamente la stessa logica del giurista, solo che lo scienziato non lo sa perché diversi sono gli argomenti ai quali gli operatori logici si applicano: e questo alla scienziato sfugge.
E valga il vero: la prima regola, quando si studia un fenomeno, è che bisogna poterlo misurare; e per poterlo misurare bisogna che il fenomeno si sia già manifestato.
Commentare un fenomeno che ancora non esiste (e tale è una sentenza non ancora scritta) è una sciocchezza. Certo, abbiamo già il dispositivo, ma questo è solo una manifestazione anticipata di un fenomeno (la motivazione), non il fenomeno stesso. E' un po' come se un fisico del suono volesse di studiare lo spettro armonico di un tuono, ma per far prima pretendesse di utilizzare solo i dati ricavati dallo spettro elettromagnetico del lampo: in effetti dal lampo sappiamo che di lì a poco arriverà il rombo del tuono, ma finché il suono non avrà compiuto il suo viaggio, non avremo nulla da misurare.
Sfugge alla logica dello scienziato che debba necessariamente esistere un lasso di tempo tra il momento della decisione del giudice (il dispositivo della sentenza) e la stesura per iscritto del ragionamento logico che lo ha sotteso (la motivazione): e ciò perché nell'ambito scientifico prima si scrive (o si dovrebbe scrivere) il ragionamento logico, e poi si danno gli annunci; ma questo metodo, in un procedimento penale, sarebbe inumano, perché lascerebbe tutte le parti processuali in un'incertezza che sconfinerebbe con la tortura. Rammentate quegli ultimi due-tre giorni di scuola, quando gli scrutini erano già stati fatti ma i quadri ancora non erano usciti? Ecco, immaginate un imputato che dovesse passare un paio di mesi ad attendere di conoscere il suo destino già deciso, e capirete cosa intendo.
Se questo discorso è valido per qualunque sentenza, lo è ancor di più nel caso specifico, dato il tipo di reato contestato.
Commentare il dispositivo di una sentenza che ha condannato la Franzoni (per riprendere il caso di cui si parla nel colonnino lì a destra) è relativamente facile: la condanna vuol dire che il giudice ha ritenuto che lei avesse ammazzato il figlio, punto. Poi servono le motivazioni per capire perché le prove a discarico siano state ritenute inconcludenti; ma una qualche certezza ce l'abbiamo.
Ma l'omicidio è un reato commissivo e doloso: si tratta cioè di una fattispecie in cui qualcuno ha fatto volutamente qualcosa.
La Commissione grandi rischi è stata imputata di un reato omissivo e colposo, vale a dire di non aver fatto qualcosa che era suo dovere fare, e di non averlo fatto non volutamente, bensì per negligenza, imprudenza o imperizia.
Per la Franzoni, era chiaro che qualcuno aveva volontariamente spaccato la testa del piccolo: si trattava solo di decidere se fosse stata la madre o qualcun altro.
Per la CGR, si trattava di capire:
- cosa avrebbe dovuto fare;
- cosa avrebbe potuto fare;
- cosa in effetti abbia fatto e che avrebbe dovuto evitare di fare;
- cosa in effetti non abbia fatto, e che avrebbe potuto fare;
- se avrebbe dovuto fare ciò che non aveva fatto pur avendolo potuto;
- se tutto ciò, dipenda da un errore scusabile, o se invece sia da ricondurre a imprudenza, negligenza o imperizia (sciatteria, sbadataggine, menefreghismo);
- se l'omissione (il non aver fatto ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare) abbia o meno una relazione di causa-effetto con l'evento (la morte di una o più persone).
Vedete bene che le cose si sono complicate, e molto. E la memoria del PM (grazie a .mau. per il link) queste cose le affronta, con ragionamenti che seguiono una logica formale precisa e puntuale, tanto che potrebbe essere riscritta in simboli. Ma la memoria del PM, ancora, non è la sentenza.
giovedì 13 settembre 2012
Certezze che affondano
Uno pensa di avere quella minima infarinatura per scrivere una-frase-una in inglese, usando il pronome personale adeguato, e poi scopre che le navi sono di genere femminile.
martedì 4 settembre 2012
A.M.
I lettori che furono abituali potranno bene immaginare che la morte di Alessandro Marzi mi abbia colpito. Lo ha fatto però in un modo particolare, che da ieri cerco di esprimere senza riuscirci, tanto che volevo buttarlo via questo post, dopo una serie di tentativi mentali che non erano arrivati da nessuna parte. Alla fine ho deciso di scrivere di getto senza pensarci troppo, ché pensar troppo è male.
Di Alessandro lessi quando cominciò a stare male davvero, quando cioé aveva perso la speranza di farcela e si preparava a morire. Non entrai mai in relazione con lui: dapprima, perché ciò sarebbe stato di cattivo presagio per M., che a differenza sua era convinta di poter campare a lungo, e dopo perché sarebbe stato di cattivo presagio per lui, che certo non aveva bisogno di esempi di esiti nefasti ulteriori rispetto a quelli che già vedeva negli ospedali che frequentava.
Non conoscendolo, non posso certo dire i suoi pensieri, ma posso raccontare ciò che io mi sono figurato. Da qui in poi, quindi, saranno solo considerazioni personali: probabilmente tutte sbagliate, ma che spero non offenderanno nessuno (se poi ciò dovesse accadere, pronto a cancellare tutto).
Cominciamo a dire che c'erano due Alessandro: uno è quello dell'intervista di Biccio: uno forte, tosto, che parla con la malattia a tu per tu e sembra ignorare la morte, o perlomeno sfidarla a scacchi; l'altro è quello dei post clinici, da cui emerge tutta la disperazione per essere impotente di fronte al cancro. Scriveva di come stava giorno per giorno, di tutti i peggioramenti della sua malattia, tutti i piccoli fallimenti quotidiani che lo portavano passo dopo passo verso la tomba.
Poi c'erano i commenti che lo invitavano a star su, a resistere, a farsi forza. Ecco: quei commenti io non riuscivo proprio a reggerli, perché mi figuravo (ribadisco: sto scrivendo sulla base della mia, di esperienza: non immagino lontanamente di sapere cosa passasse nella sua, di testa) che più che forza non potessero dargli altro che rabbia e sconforto.
Quando si sta per morire, questa è la mia convinzione -che certo sarà sbagliata- non contano le parole del prossimo, bensì le azioni. Tanto contano le piccole cose di ogni giorno, quali il trovare la colazione pronta al risveglio, comperare una nuova pianta, iniziare a vedere una serie TV, trovare un uovo di merlo in un vaso sul balcone; tanto poco di contro contano le parole. Anche perché le parole, alla fin fine, son sempre quelle: possono variare un poco, ma al terzo giro di giostra non si può far altro che ripetersi.
Naturalmente questo vale per le parole spese sulla malattia: per quelle spese sulle passioni (la Vespa, le chitarre...) è tutto un altro discorso, e immagino che quelle, di parole, gli siano state di grande conforto.
La morte è una cosa difficile da affrontare; e la propria morte, quando non si è passata la soglia della vecchiaia (e forse anche dopo) lo è oltre misura. Spero di cuore che il modo trovato da Alessandro per gestirsela lo abbia aiutato, tanto quanto il modo -opposto- che M. aveva trovato per conto suo, e che arrivato al dunque abbia avuto la stessa serenità nel passare di là.
Di Alessandro lessi quando cominciò a stare male davvero, quando cioé aveva perso la speranza di farcela e si preparava a morire. Non entrai mai in relazione con lui: dapprima, perché ciò sarebbe stato di cattivo presagio per M., che a differenza sua era convinta di poter campare a lungo, e dopo perché sarebbe stato di cattivo presagio per lui, che certo non aveva bisogno di esempi di esiti nefasti ulteriori rispetto a quelli che già vedeva negli ospedali che frequentava.
Non conoscendolo, non posso certo dire i suoi pensieri, ma posso raccontare ciò che io mi sono figurato. Da qui in poi, quindi, saranno solo considerazioni personali: probabilmente tutte sbagliate, ma che spero non offenderanno nessuno (se poi ciò dovesse accadere, pronto a cancellare tutto).
Cominciamo a dire che c'erano due Alessandro: uno è quello dell'intervista di Biccio: uno forte, tosto, che parla con la malattia a tu per tu e sembra ignorare la morte, o perlomeno sfidarla a scacchi; l'altro è quello dei post clinici, da cui emerge tutta la disperazione per essere impotente di fronte al cancro. Scriveva di come stava giorno per giorno, di tutti i peggioramenti della sua malattia, tutti i piccoli fallimenti quotidiani che lo portavano passo dopo passo verso la tomba.
Poi c'erano i commenti che lo invitavano a star su, a resistere, a farsi forza. Ecco: quei commenti io non riuscivo proprio a reggerli, perché mi figuravo (ribadisco: sto scrivendo sulla base della mia, di esperienza: non immagino lontanamente di sapere cosa passasse nella sua, di testa) che più che forza non potessero dargli altro che rabbia e sconforto.
Quando si sta per morire, questa è la mia convinzione -che certo sarà sbagliata- non contano le parole del prossimo, bensì le azioni. Tanto contano le piccole cose di ogni giorno, quali il trovare la colazione pronta al risveglio, comperare una nuova pianta, iniziare a vedere una serie TV, trovare un uovo di merlo in un vaso sul balcone; tanto poco di contro contano le parole. Anche perché le parole, alla fin fine, son sempre quelle: possono variare un poco, ma al terzo giro di giostra non si può far altro che ripetersi.
Naturalmente questo vale per le parole spese sulla malattia: per quelle spese sulle passioni (la Vespa, le chitarre...) è tutto un altro discorso, e immagino che quelle, di parole, gli siano state di grande conforto.
La morte è una cosa difficile da affrontare; e la propria morte, quando non si è passata la soglia della vecchiaia (e forse anche dopo) lo è oltre misura. Spero di cuore che il modo trovato da Alessandro per gestirsela lo abbia aiutato, tanto quanto il modo -opposto- che M. aveva trovato per conto suo, e che arrivato al dunque abbia avuto la stessa serenità nel passare di là.
giovedì 30 agosto 2012
Strano carattere /2
Dato che mi costava assai poco, e tenuto conto del fatto che oggi pomeriggio devo far tedesco con il pupo a casa, dove ho una tastiera italiana standard, ho fatto un layoyt con i dead keys anche per quel tipo di modello.
L'assegnazione dei tasti resta la medesima illustrata nel precedente post, salvo che per la tilde (il relativo tasto è già occupato dalla parentesi quadra), che pertanto slitta sul trattino (-).
Il file, per chi lo vuole, sta qui.
L'assegnazione dei tasti resta la medesima illustrata nel precedente post, salvo che per la tilde (il relativo tasto è già occupato dalla parentesi quadra), che pertanto slitta sul trattino (-).
Il file, per chi lo vuole, sta qui.
mercoledì 29 agosto 2012
Strano carattere
Di solito io scrivo in italiano, e talvolta in inglese: tutti compiti che possono essere egregiamente svolti da una tastiera italiana. Certo, il Vero Nerd dovrebbe usare una US-international e farsi tutti gli accenti a mano, ma dato che io non sono un Vero Nerd non me ne preoccupo troppo.
Talvolta però mi capita di dover passare al francese, o anche di compitare qualche frase smozzicata in tedesco o spagnolo: e qui cominciano i dolori, perché scrivere même, Señor o Ürdingerstraße non è mica tanto facile, per uno che ha passato la quarantina e non riesce a ricordare a memoria tutti i codici ASCII.
Ho provato a passare, alla bisogna, al layout US-international, ma le mie esigenze non sono così frequenti da permettermi di memorizzare efficacemente la posizione di tutti i tasti modificatori (che vorrebbe essere una traduzione di dead keys, sperando che Licia non mi faccia un cazziatone), e quindi ogni volta che avvio una corrispondenza con qualcuno di quei paesi devo ricominciare a riapprendere daccapo.
Alla fine quindi mi sono adattato la mia tastiera (che di base è una IT-142, quella con la @ sulla Q) aggiungendo delle funzioni secondo un certo mio buon senso che vado a illustrare:
* accento acuto - AltGr-apostrofo;
* accento grave - AltGr-ù (va a sostituire il carattere ` della IT-142);
* dieresi/Umlaut - AltGr-2 (al maiuscolo corrisponde a ", che ricorda la dieresi)
* accento circonflesso - AltGr-ì (al maiuscolo corrisponde a ^)
* tilde - Shift-AltGr-~
* ¿ - Shift-AltGr-?
* ß - AltGr-s
* caporali - AltGr-maggiore e AltGr-minore;
* ® - AltGr-r
* © - AltGr-c
Dato che oramai la fatica l'ho fatta, e magari la cosa può servire a qualcun altro, ho pensato di condividere il programma di installazione, che potete trovare qui.
Se fossi un avvocato ben pagato qui dovrei mettere una decina di paginate per dire tutta una serie di cose astruse scopiazzate e mal tradotte dall'inglese, ma dato che sono quel che sono mi limito a dire che io questa cosa l'ho fatta per me, ve la offro a gratis senza alcuna garanzia e se doveste avere dei problemi poi non venitemi a rompere i marroni.
Talvolta però mi capita di dover passare al francese, o anche di compitare qualche frase smozzicata in tedesco o spagnolo: e qui cominciano i dolori, perché scrivere même, Señor o Ürdingerstraße non è mica tanto facile, per uno che ha passato la quarantina e non riesce a ricordare a memoria tutti i codici ASCII.
Ho provato a passare, alla bisogna, al layout US-international, ma le mie esigenze non sono così frequenti da permettermi di memorizzare efficacemente la posizione di tutti i tasti modificatori (che vorrebbe essere una traduzione di dead keys, sperando che Licia non mi faccia un cazziatone), e quindi ogni volta che avvio una corrispondenza con qualcuno di quei paesi devo ricominciare a riapprendere daccapo.
Alla fine quindi mi sono adattato la mia tastiera (che di base è una IT-142, quella con la @ sulla Q) aggiungendo delle funzioni secondo un certo mio buon senso che vado a illustrare:
* accento acuto - AltGr-apostrofo;
* accento grave - AltGr-ù (va a sostituire il carattere ` della IT-142);
* dieresi/Umlaut - AltGr-2 (al maiuscolo corrisponde a ", che ricorda la dieresi)
* accento circonflesso - AltGr-ì (al maiuscolo corrisponde a ^)
* tilde - Shift-AltGr-~
* ¿ - Shift-AltGr-?
* ß - AltGr-s
* caporali - AltGr-maggiore e AltGr-minore;
* ® - AltGr-r
* © - AltGr-c
Dato che oramai la fatica l'ho fatta, e magari la cosa può servire a qualcun altro, ho pensato di condividere il programma di installazione, che potete trovare qui.
Se fossi un avvocato ben pagato qui dovrei mettere una decina di paginate per dire tutta una serie di cose astruse scopiazzate e mal tradotte dall'inglese, ma dato che sono quel che sono mi limito a dire che io questa cosa l'ho fatta per me, ve la offro a gratis senza alcuna garanzia e se doveste avere dei problemi poi non venitemi a rompere i marroni.
mercoledì 1 agosto 2012
Didattica
Ognuno ci ha le sue piccole manie, e certo non è che io sia da meno: e quindi mi leggo sempre con attenzione Uriel, ché spesso sono d'accordo e quando non sono d'accordo comunque ho degli spunti per riflettere.
Ma dopo aver letto il post* di oggi ho pensato che magari non lo proporrei al posto di Monti come Presidente del Consiglio, però come rettore di un'università economica ci starebbe bene.
* N.B. meglio non aprire il link da un socialcoso
Ma dopo aver letto il post* di oggi ho pensato che magari non lo proporrei al posto di Monti come Presidente del Consiglio, però come rettore di un'università economica ci starebbe bene.
* N.B. meglio non aprire il link da un socialcoso
mercoledì 25 luglio 2012
La fantasia al potere
Oggi il fatto quotidiano, meglio conosciuto come la bocca della verità, si inventa di sana pianta che nel Parco olimpico «sarà ammesso solo un sandwich a persona perché lo sponsor (MacDonald’s) non vuole».
lunedì 23 luglio 2012
Capitan Fracassa
Chi avesse ancora qualche dubbio sul fatto che la 27esima ora non è il luogo di ricreazione delle più svitate pennivendole milanesi, bensì un esperimento mentale paragonabile al carcere di Stanford, può leggere questo bel pezzo in cui Camilla Baresani si pone, tra altre, una domanda fondamentale:
Come mai a Jean Paul Sartre è dedicato uno spazio tre volte superiore a quello di Simone de Beauvoir?
mercoledì 18 luglio 2012
La moglie pregna e la botte ubriaca

«Il recente impianto normativo - ha detto Grilli - pur determinando rilevanti economie di spesa e dunque una corrispondente riduzione del fabbisogno sanitario, mantiene inalterato il livello, sia qualitativo che quantitativo, dei servizi sanitari erogati ai cittadini»
martedì 17 luglio 2012
Corrività
Marta Serafini (una giornalista che non solo scrive sulla 27esima ora, ma pure si vanta di essere corresponsabile di ciò che si dice alle Invasioni Barbariche) oggi scrive un pezzo lunghetto per stigmatizzare l'abitudine che i giocatori di videogiochi hanno di insultare pesantemente le femminucce in gara.
Chiunque abbia mai provato un videogioco, o anche solo abbia visto un gruppo di adolescenti farlo, sa benissimo che si tratta di un'esperienza del tutto avulsa dalla realtà: si commettono un tale numero di omicidi che avrebbero fatto venire una crisi di coscienza a Mengele; si usano trucchi bastardi e sotterfugi sleali; si tradiscono i compagni e gli amici; ci si tirano dietro insulti che farebbero impallidire un camallo ubriaco al quale una puttana abbia appena rubato il portafoglio.
Il glaucoma psicotico che colpisce la redazione di questo blog, cui siamo oramai affezionati come a un nipotino un po' ritardato, e che proprio per questo ci è caro, di questo fenomeno complesso e variegato riesce solo a vedere l'insulto che i maschi tirano alle femmine, bollandolo come sessista e dimostrando così di non aver neppure bene l'idea del significato del termine. Indignarsi per il genere del soggetto in questa citazione
E' come se queste brave signore che si guadagnano un immeritato pane digitando in via Solferino fossero dei geometri che, chiamati a eseguire i rilievi geodetici per tracciare il percorso di un'autostrada, siano dotati solo di un microscopio a effetto tunnel, e cerchino di arrangiarsi a misurare i chilometri con uno strumento per il quale persino i millimetri sono una grandezza incommensurabile.
Chiunque abbia mai provato un videogioco, o anche solo abbia visto un gruppo di adolescenti farlo, sa benissimo che si tratta di un'esperienza del tutto avulsa dalla realtà: si commettono un tale numero di omicidi che avrebbero fatto venire una crisi di coscienza a Mengele; si usano trucchi bastardi e sotterfugi sleali; si tradiscono i compagni e gli amici; ci si tirano dietro insulti che farebbero impallidire un camallo ubriaco al quale una puttana abbia appena rubato il portafoglio.
Il glaucoma psicotico che colpisce la redazione di questo blog, cui siamo oramai affezionati come a un nipotino un po' ritardato, e che proprio per questo ci è caro, di questo fenomeno complesso e variegato riesce solo a vedere l'insulto che i maschi tirano alle femmine, bollandolo come sessista e dimostrando così di non aver neppure bene l'idea del significato del termine. Indignarsi per il genere del soggetto in questa citazione
“Sei una cicciona, metti le tue grasse chiappe sul divano e inizia a giocare”, è un altro dei complimenti ricevuti da Kate, 17 anni, giocatrice di Call of Duty 3.dimostra ignoranza o malafede, dato che chiunque sa che le medesime frasi vengono pronunciate, assai più spesso, declinate al maschile.
E' come se queste brave signore che si guadagnano un immeritato pane digitando in via Solferino fossero dei geometri che, chiamati a eseguire i rilievi geodetici per tracciare il percorso di un'autostrada, siano dotati solo di un microscopio a effetto tunnel, e cerchino di arrangiarsi a misurare i chilometri con uno strumento per il quale persino i millimetri sono una grandezza incommensurabile.
lunedì 16 luglio 2012
Che non è mica acqua
Se c'è una cosa che proprio ammiro, di Lorella Zanardo, non è certo il documentario da lei prodotto, bensì la capacità di perdere con stile.
giovedì 12 luglio 2012
Genova per noi
Io nel mio lavoro di gente ricca ne incontro tanta. E quando intendo ricca, intendo ricca vera, quelli che il logaritmo dell'estratto conto sta a mezza strada tra l'otto e il nove.
Di genovesi invece ne incontro pochi, perché non è una piazza sulla quale il mio datore di lavoro lavori granché.
Però ultimamente ne sto incontrando un po' di più, e devo ammettere che la classe, la nonchalance, l'indifferenza -ma rispettosa- che hanno i genovesi ricchi nei confronti della propria ricchezza, ancora non l'avevo mai riscontrata da nessun altra parte.
Di genovesi invece ne incontro pochi, perché non è una piazza sulla quale il mio datore di lavoro lavori granché.
Però ultimamente ne sto incontrando un po' di più, e devo ammettere che la classe, la nonchalance, l'indifferenza -ma rispettosa- che hanno i genovesi ricchi nei confronti della propria ricchezza, ancora non l'avevo mai riscontrata da nessun altra parte.
#salvaiciclisti
Prima di chiudere definitivamente* questo blog ormai polveroso e ragnateloso, credo di potermi permettere di togliermi qualche sassolino.
Come qualcuno sa, io la bicicletta la uso abbastanza. Questa nuova, per esempio, da Natale a oggi ha fatto 2800 chilometri, tutti in città: per andare al lavoro, fare la spesa, passare da una delle varie case in cui dormo a un'altra, etc.
Dovrei quindi essere favorevole alle iniziative che tutelano la mia incolumità, e grato al sindaco Pisapia che nei pannelli luminosi sparsi per le vie chiosa i suoi consigli di buon senso con lo slogan salvaiciclisti. E invece no.
Uno dei motivi è che questo movimento, come tanti consimili (a partire da quelle anime belle di Critical Mass, che ogni giovedì mi fanno venir voglia di comperare un autoarticolato da sparar loro contro a 100 all'ora) ha sempre lo stesso fastidioso rumore di fondo: quello di coloro che, ritenendo di essere nel Giusto automaticamente sbattono nella Cayenna dell'Ingiusto tutti coloro che la pensano diversamente da loro.
Siam sempre lì: il Ciclista Militante crede che il suo apporto alla qualità della vita urbana gli conferisca il diritto di fregarsene delle regole; e così la sera occupa le strade in massa bloccando la circolazione, nascondendosi dietro all'anonimato del numero, mentre di giorno (quando rischierebbe la pelle, se facesse le stronzate serali) crede comunque legittimo passare col rosso, andare in velocità sui marciapiedi, girare a luci spente la sera, e via discorrendo.
In questo delirio messianico persino il buon senso va all'ammasso, e il Ciclista Militante ritiene che sia suo pieno diritto mettersi al fianco di un autotreno di 27 tonnellate, in prossimità di una curva, senza riflettere per un secondo sul fatto che dalla cabina di guida non si ha la stessa visuale che ha il ciclista, e che anche il più scrupoloso dei camionisti può avere un momento di stanchezza o di distrazione. Certo, non è che guidare un camion ti dia il permesso di ammazzare la gente, e difatti il camionista risponderà per omicidio colposo; ma se il Ciclista militante avesse il cervello nella scatola cranica anziché nel culo si renderebbe conto che aiutare il camionista a non ammazzarlo è una strategia più razionale che rischiare di crepare per l'affermazione di un principio.
Questa jattanza emerge con palmare evidenza fin dal manifesto della benemerita associazione di cicloamatori, con quel verbo "dovere" declinato all'indicativo che se possibile riesce a rendere ancor più antipatici gli estensori delle proposte.
Che poi non è che i ciclisti abbiano sempre ragione per il fatto che vanno in bici: quando io sono stato tirato sotto da una moto, e sono finito all'ospedale con un polso e una costola rotti, avevo fatto una cazzata. Certo il motociclista, se fosse stato scrupolosamente attento avrebbe potuto evitarmi, ma la cazzata l'ho fatta io, e gli ho pure pagato la riparazione della moto, come era giusto che fosse. Se -anche per un attimo- sei cretino o sbadato, rischi del tuo, e non è che il non inquinare la città ti dia l'immortalità, né la ragione. Il torto ce l'ha chi ha torto, non chi inquina di più.
Ciò detto, quella stringa #salvaiciclisti potrebbe essere semplicemente l'ennesima cialtronata nata su Twitter, e io potrei serenamente continuare a fregarmene; ma no, c'è qualcosa di più.
Il fatto è che lo slogan SALVAICICLISTI è, detto semplice semplice che lo possa capire anche un Ciclista Militante, oltre che inutile, dannoso.
Il perché è presto detto: da quando è nato questo ennesimo allarme, che forse sta per superare in popolarità il femminicidio, coloro che magari avrebbero voluto avvicinarsi all'uso della bicicletta, complice la bella stagione e il rincaro della benzina, non ci pensano neppure.
Il messaggio che veicola lo slogan SALVAICICLISTI -come tutte le campagne connesse- è che usare la bici in città è un rischio mortale. Il Ciclista Militante pensa che questo serva a salvargli la vita, ma la dura realtà è che quel 99% di popolazione che non fa parte della setta ogni volta che vede quel neologismo si convince che il ciclista, militante o generico, sia un pazzo scapestrato che si diverte a giocare con la propria pelle, alla stregua di un trapezista che si esibisce senza rete.
La conclusione è ovvia: col cazzo, che mi metto a girare in bici in città: continuo a usare la macchina, l'autobus o quel che uso di solito.
E quindi: più traffico, inquinamento e rischi. Sia per i Ciclisti Militanti sia per quelli che hanno l'unico desiderio di andare al lavoro, fare la spesa, passare da una casa all'altra, per il semplice fatto che hanno bisogno di lavorare, nutrirsi e dormire, senza che la soddisfazione di queste elementari esigenze debba diventare un fatto politico.
* da prendere in senso figurato, ché di definitivo c'è solo la Signora con la falce
Come qualcuno sa, io la bicicletta la uso abbastanza. Questa nuova, per esempio, da Natale a oggi ha fatto 2800 chilometri, tutti in città: per andare al lavoro, fare la spesa, passare da una delle varie case in cui dormo a un'altra, etc.
Dovrei quindi essere favorevole alle iniziative che tutelano la mia incolumità, e grato al sindaco Pisapia che nei pannelli luminosi sparsi per le vie chiosa i suoi consigli di buon senso con lo slogan salvaiciclisti. E invece no.
Uno dei motivi è che questo movimento, come tanti consimili (a partire da quelle anime belle di Critical Mass, che ogni giovedì mi fanno venir voglia di comperare un autoarticolato da sparar loro contro a 100 all'ora) ha sempre lo stesso fastidioso rumore di fondo: quello di coloro che, ritenendo di essere nel Giusto automaticamente sbattono nella Cayenna dell'Ingiusto tutti coloro che la pensano diversamente da loro.
Siam sempre lì: il Ciclista Militante crede che il suo apporto alla qualità della vita urbana gli conferisca il diritto di fregarsene delle regole; e così la sera occupa le strade in massa bloccando la circolazione, nascondendosi dietro all'anonimato del numero, mentre di giorno (quando rischierebbe la pelle, se facesse le stronzate serali) crede comunque legittimo passare col rosso, andare in velocità sui marciapiedi, girare a luci spente la sera, e via discorrendo.
In questo delirio messianico persino il buon senso va all'ammasso, e il Ciclista Militante ritiene che sia suo pieno diritto mettersi al fianco di un autotreno di 27 tonnellate, in prossimità di una curva, senza riflettere per un secondo sul fatto che dalla cabina di guida non si ha la stessa visuale che ha il ciclista, e che anche il più scrupoloso dei camionisti può avere un momento di stanchezza o di distrazione. Certo, non è che guidare un camion ti dia il permesso di ammazzare la gente, e difatti il camionista risponderà per omicidio colposo; ma se il Ciclista militante avesse il cervello nella scatola cranica anziché nel culo si renderebbe conto che aiutare il camionista a non ammazzarlo è una strategia più razionale che rischiare di crepare per l'affermazione di un principio.
Questa jattanza emerge con palmare evidenza fin dal manifesto della benemerita associazione di cicloamatori, con quel verbo "dovere" declinato all'indicativo che se possibile riesce a rendere ancor più antipatici gli estensori delle proposte.
Che poi non è che i ciclisti abbiano sempre ragione per il fatto che vanno in bici: quando io sono stato tirato sotto da una moto, e sono finito all'ospedale con un polso e una costola rotti, avevo fatto una cazzata. Certo il motociclista, se fosse stato scrupolosamente attento avrebbe potuto evitarmi, ma la cazzata l'ho fatta io, e gli ho pure pagato la riparazione della moto, come era giusto che fosse. Se -anche per un attimo- sei cretino o sbadato, rischi del tuo, e non è che il non inquinare la città ti dia l'immortalità, né la ragione. Il torto ce l'ha chi ha torto, non chi inquina di più.
Ciò detto, quella stringa #salvaiciclisti potrebbe essere semplicemente l'ennesima cialtronata nata su Twitter, e io potrei serenamente continuare a fregarmene; ma no, c'è qualcosa di più.
Il fatto è che lo slogan SALVAICICLISTI è, detto semplice semplice che lo possa capire anche un Ciclista Militante, oltre che inutile, dannoso.
Il perché è presto detto: da quando è nato questo ennesimo allarme, che forse sta per superare in popolarità il femminicidio, coloro che magari avrebbero voluto avvicinarsi all'uso della bicicletta, complice la bella stagione e il rincaro della benzina, non ci pensano neppure.
Il messaggio che veicola lo slogan SALVAICICLISTI -come tutte le campagne connesse- è che usare la bici in città è un rischio mortale. Il Ciclista Militante pensa che questo serva a salvargli la vita, ma la dura realtà è che quel 99% di popolazione che non fa parte della setta ogni volta che vede quel neologismo si convince che il ciclista, militante o generico, sia un pazzo scapestrato che si diverte a giocare con la propria pelle, alla stregua di un trapezista che si esibisce senza rete.
La conclusione è ovvia: col cazzo, che mi metto a girare in bici in città: continuo a usare la macchina, l'autobus o quel che uso di solito.
E quindi: più traffico, inquinamento e rischi. Sia per i Ciclisti Militanti sia per quelli che hanno l'unico desiderio di andare al lavoro, fare la spesa, passare da una casa all'altra, per il semplice fatto che hanno bisogno di lavorare, nutrirsi e dormire, senza che la soddisfazione di queste elementari esigenze debba diventare un fatto politico.
* da prendere in senso figurato, ché di definitivo c'è solo la Signora con la falce
Lennox è vivo e lotta insieme a noi
Enzo di Frenna -l'uomo il cui volto dischiude le porte del Sacrario della frenologia- ha preso a cuore la causa del cane Lennox, che dopo essere stato accalappiato a Belfast è stato soppresso in quanto la sua razza è illegale nell'Irlanda del Nord.
La questione viene ripresa da Repubblica, il foglio che da quando non c'è più Berlusconi si è talmente squalificato da non poterci neppure incartare il pesce*, con un articolo che pure cito, a dimostrazione dell'ubiquitarietà della cialtroneria dei giornalisti, della rete e soprattutto dei giornalisti che frequentano la rete.
Dunque, abbiamo un cane.
Secondo il Di Frenna, il cane somiglia a un Pit Bull. Secondo la Città di Belfast, che lo ha catturato, il cane è un Pit Bull.
"Lennox era innocuo, non aveva mai morso né aggredito nessuno", dice la Rete. "l'esperto del Consiglio ha descritto il cane come uno dei più imprevedibili e pericolosi cani mai incontrato", dice il Comune di Belfast.
"La Municipalità di Belfast si è coperta di vergogna e sarà da questo momento additata al disprezzo internazionale per avere assassinato una creatura innocente e indifesa, e per aver condannato con lui la bambina disabile che tanto lo amava e che con lui aveva instaurato una relazione speciale", dice l'Ente Nazionale per la Protezione Animali italiano, la cui presidenta con quel disabile tocca anche le corde dell'umana pietà**. Purtroppo -anzi per fortuna, a ben pensarci- non abbiamo la voce della mamma della bambina che il Pit Bull avrebbe potuto ammazzare se, come la squinternata animalista aveva chiesto, fosse stato portato in Italia e adottato da una tenera famigliuola.
Ora, di una cosa sono ragionevolmente certo: che né il Di Frenna né la presidenta dell'ENPA hanno visto il cane, mentre il perito della Municipalità di Belfast sì.
E quindi, se Belfast dice che quello è un Pit Bull, mentre Repubblica dice che il Di Frenna dice che l'ENPA dice che non lo è, ho il forte sospetto che risalendo alla fonte si scopra che tale affermazione provenga dalla padroncina disabile, che conoscerà pur bene il proprio cagnolino affettuoso, ma non è certo una veterinaria e comunque è, come dire, un testimone un po' troppo interessato e quindi poco fededegno rispetto all'esperto.
Ammettiamo quindi che quello sia effettivamente un Pit Bull, e chiediamoci cosa avrebbe dovuto pare una pubblica istituzione di uno Stato nel quale i Pit Bull sono, giustamente, *** banditi.
Secondo il Di Frenna e compagnia cantante, probabilmente il Sindaco di Belfast o chi per lui avrebbe dovuto dire qualcosa del tipo: «Sì, è vero, abbiamo una legge, ma vale solo per i padroni di cani che non sono su Facebook, per cui ora prendiamo il povero Lennox, che sta tanto simpatico a quei giustizialisti iperlegalitari (ma solo nell'ambito del diritto italiano) del Fatto Quotidiano e lo liberiamo con tante scuse. Anzi è l'occasione per imparare dagli italiani che le leggi non sono mica uguali per tutti».
Fortuna che a Belfast il Di Frenna e la Presidenta non andranno mai più. Fortuna per Belfast, naturalmente.
* immagino che De Benedetti stia seriamente pensando di vendere a qualche industriale francese: solo così riesco a spiegarmi la penosissima marchetta di ieri.
** a proposito, sono andato a vedere Hunger e mi sono sciolto alla voce della Thatcher: si vede proprio che sto invecchiando male.
*** secondo la tradizione del giornalismo anglosassone, in questo post le opinioni vendono evidenziate in viola per separarle dai fatti.
La questione viene ripresa da Repubblica, il foglio che da quando non c'è più Berlusconi si è talmente squalificato da non poterci neppure incartare il pesce*, con un articolo che pure cito, a dimostrazione dell'ubiquitarietà della cialtroneria dei giornalisti, della rete e soprattutto dei giornalisti che frequentano la rete.
Dunque, abbiamo un cane.
Secondo il Di Frenna, il cane somiglia a un Pit Bull. Secondo la Città di Belfast, che lo ha catturato, il cane è un Pit Bull.
"Lennox era innocuo, non aveva mai morso né aggredito nessuno", dice la Rete. "l'esperto del Consiglio ha descritto il cane come uno dei più imprevedibili e pericolosi cani mai incontrato", dice il Comune di Belfast.
"La Municipalità di Belfast si è coperta di vergogna e sarà da questo momento additata al disprezzo internazionale per avere assassinato una creatura innocente e indifesa, e per aver condannato con lui la bambina disabile che tanto lo amava e che con lui aveva instaurato una relazione speciale", dice l'Ente Nazionale per la Protezione Animali italiano, la cui presidenta con quel disabile tocca anche le corde dell'umana pietà**. Purtroppo -anzi per fortuna, a ben pensarci- non abbiamo la voce della mamma della bambina che il Pit Bull avrebbe potuto ammazzare se, come la squinternata animalista aveva chiesto, fosse stato portato in Italia e adottato da una tenera famigliuola.
Ora, di una cosa sono ragionevolmente certo: che né il Di Frenna né la presidenta dell'ENPA hanno visto il cane, mentre il perito della Municipalità di Belfast sì.
E quindi, se Belfast dice che quello è un Pit Bull, mentre Repubblica dice che il Di Frenna dice che l'ENPA dice che non lo è, ho il forte sospetto che risalendo alla fonte si scopra che tale affermazione provenga dalla padroncina disabile, che conoscerà pur bene il proprio cagnolino affettuoso, ma non è certo una veterinaria e comunque è, come dire, un testimone un po' troppo interessato e quindi poco fededegno rispetto all'esperto.
Ammettiamo quindi che quello sia effettivamente un Pit Bull, e chiediamoci cosa avrebbe dovuto pare una pubblica istituzione di uno Stato nel quale i Pit Bull sono, giustamente, *** banditi.
Secondo il Di Frenna e compagnia cantante, probabilmente il Sindaco di Belfast o chi per lui avrebbe dovuto dire qualcosa del tipo: «Sì, è vero, abbiamo una legge, ma vale solo per i padroni di cani che non sono su Facebook, per cui ora prendiamo il povero Lennox, che sta tanto simpatico a quei giustizialisti iperlegalitari (ma solo nell'ambito del diritto italiano) del Fatto Quotidiano e lo liberiamo con tante scuse. Anzi è l'occasione per imparare dagli italiani che le leggi non sono mica uguali per tutti».
Fortuna che a Belfast il Di Frenna e la Presidenta non andranno mai più. Fortuna per Belfast, naturalmente.
* immagino che De Benedetti stia seriamente pensando di vendere a qualche industriale francese: solo così riesco a spiegarmi la penosissima marchetta di ieri.
** a proposito, sono andato a vedere Hunger e mi sono sciolto alla voce della Thatcher: si vede proprio che sto invecchiando male.
*** secondo la tradizione del giornalismo anglosassone, in questo post le opinioni vendono evidenziate in viola per separarle dai fatti.
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