L'altro giorno, mentre il Paese Reale si struggeva sul tema
il foglio di dimissioni dal pronto soccorso in arresto cardiaco è o non è giustificazione sufficiente per poter votare al secondo turno delle primarie?, il sottoscritto bel bello prendeva la bicicletta, se ne andava alla chiesa di via Caboto e, ivi giunto, si confessava, assisteva alla messa feriale e si comunicava.
La cosa è nota a pochi; e quei pochi sono solo taluni amici del socialino sul quale ho annunciato l'evento. Non l'ho ancora detto a nessun altro, e del resto temo che se ne informassi mia madre senza un'adeguata preparazione mi troverei ben presto in un pronto soccorso, con lei in arresto cardiaco; per cui mi faccio le ossa qui, sapendo che la massima reazione del lettore sarà un'alzata di sopracciglio.
Ma, anzitutto, perché raccontare di questo passo? Non certo per voglia di stupire o per peccato d'orgoglio: semplicemente perché scriverne è in un certo modo già rispondere alla prima supplica del
Padre Nostro, quella che invocando la santificazione del nome di Dio impegna gli uomini a testimoniare le proprie inclinazioni e le proprie opere in tal senso. Se il racconto di ciò che ho passato potrà essere d'interesse e magari d'aiuto per coloro che si trovassero ad affrontare un percorso simile a quello che ho passato io, allora il tempo speso per scrivere queste righe sarà servito a qualcosa.
aggiornamento in corso d'opera questo post non è stato scritto tutto in una volta. Nel frattempo c'è anche stata la sciocca polemica sulla comunione di Ilona Staller; magari il post potrebbe essere utile anche a chi si è scandalizzato di ciò.
E allora raccontiamoci: e iniziamo da un annetto fa, quando eravamo in quella stessa chiesa io e un po' di coloro che leggeranno questo post, davanti a una cassa di legno.
Proprio pochi minuti prima avevo decliato al parroco la mia più totale agnosticità ed egli, sornione (o sarcastico?!?) aveva risposto «se voi non credete va bene: vorrà dire che saremo noi che crediamo a pregare per lei».
Poi, mentre ero lì sull'ambone a leggere quegli appunti che mi ero preparato, effettivamente ho sentito qualcosa: ho avvertito, in qualche modo, che non tutto poteva finire lì, o quantomeno che se tutto fosse finito lì, allora quel tutto non avrebbe avuto molto senso.
Sono cose che si provano, quando si viene colpiti da un lutto, una malattia o qualcosa di grave: ci si rivolge a Dio, anche se non si crede; e scommetto che perfino il buon Odifreddi, se dovesse trovarsi a 3000 metri d'altezza, fuor d'aereoplano e senza paracadute, forse forse un pensiero in tal senso lo formulerebbe. Ma sono cose che passano: i lutti si elaborano, i matematici si sfracellano al suolo, e tutto ritorna pian piano come prima.
Per me invece non era tornato tutto come prima. Mi ripeto: io sono sempre stato agnostico, mai ateo, e quindi il dubbio in fondo in fondo me lo ponevo, ma più come problema di indecidibilità, non di effettiva realtà di un Dio: esistenza suffragata al più da pochi frammenti di libri vecchi di secoli, e da una serie di pratiche superstiziose. Da quel giorno, invece, ho cominciato a pormelo più seriamente, il problema, e soprattutto ho iniziato a considerare quanto orgoglio ci fosse nel pretendere di aver ragione, nel non credere, considerato che la stragrande maggioranza dell'umanità in qualche essere supremo ci crede, a prescindere dal nome che gli attribuisce.
Il fatto vero è che quando uno arriva alla mia età, comincia a convincersi che -pur se non sempre- spesso se uno solo dice
verde e cento altri dicono
rosso, il problema non è che i cento sono cretini, bensì che l'uno è daltonico.
E' davvero possibile, mi chiedevo, che l'intero mondo vada a inseguire idoli frutto della fantasia e dell'oppio dei popoli, e che solo uno sparuto gruppo di Illuminati conosca la verità rivelata, vale a dire che non c'è nessuna Rivelazione?
La cosa avrebbe potuto andare avanti per un po' e morire lì, senonché una sera sono andato a bussare a casa di quel prete, gli ho parlato dei miei dubbi, sperando che lui mi tirasse fuori un picciol discorso all'esito del quale avrei potuto avere una risposta chiara e definitiva.
Il drudo invece si limitò ad ascoltarmi, assentire, scambiare due chiacchiere e suggerirmi di leggere il Vangelo di Marco
(«è piccolino, può bastare anche una mezza giornata...») invitandomi a tornare quando l'avessi fatto.
Mi sono letto quello di Marco, e anche gli altri tre; poi gli Atti, poi un po' di roba sparpagliata.
Nel frattempo mi era successa un'altra cosa poco gradevole: una di quelle che può cambiarti la vita. Sapevo che per uscirne con le ossa intere avrei potuto contare solo su me stesso, e ho fatto tutto ciò che potevo; nel frattempo -non foss'altro per non lasciar nulla d'intentato, e dato che oramai ero già nella giusta disposizione d'animo- me ne sono anche andato a Messa.
Vi risparmio le varie fasi della presa di coscienza; sta di fatto che a un certo punto, a pericolo forse non definitivamente scampato ma certo reso più distante, mi sono reso conto che in effetti il Dio cristiano non è una slot machine alla quale chiedere miracoli o grazie: Cristo parla della vita eterna e del Regno dei Cieli, e di questo mondo si occupa solo per spiegare come arrivare a quell'altro.
Ma, contemporaneamente a questa presa di coscienza (coscienza, mi ripeto, della perfetta inutilità dell'andare in Chiesa a pregare per scampare da un pericolo terreno incombente), cominciava a macerare dentro un po' di quel messaggio cristiano che non parla solo del divieto di andare a letto con chi ci pare, ma di tante altre cose ben più incisive nella vita di una persona.
Dà un futuro, o perlomeno la speranza di un futuro, e con esso un senso a ciò che facciamo nel presente. E impone una serie di regole che, se lette con attenzione, magari provando a lasciare per un attimo da parte il sesto comandamento, non sono altro che manifestazioni di buon senso.
Non uccidere, non rubare, non mentire: sono precetti universali; e lo sono anche quando si riferiscono ad argomenti controversi come l'aborto, che per quanto permesso dalla legge civile (e io credo fermamente che debba rimanere permesso dalla legge civile), resta pur sempre un atto che drammatico anzitutto per la donna che lo subisce.
E così anche per comandamenti meno chiaramente logici: santificare le feste non vuol dire andare passivamente alla Messa, bensì trovare il tempo per ricrearsi dalle fatiche quotidiane e per pensare a qualcosa di più elevato rispetto alla quotidianità che ci assilla; rispettare i genitori nella nostra società odierna dovrebbe essere posto quale primo articolo del Codice civile, non foss'altro per ricambiare tutto ciò che ci ha fatti quelli che siamo da adulti.
Ma, soprattutto, quei comandamenti sono fatti per fare stare meglio chi li segue, indipendentemente dal fatto che si creda o meno in un premio finale.
Nella mia vita sono sempre stato un po' leggero. In un recente periodo vivevo con una ex-moglie, avevo una fidanzata, coltivavo un'amante e non mi facevo mancare qualche occasionale scappatella. Ciò era fonte di un certo stress, come potrete bene immaginare: e non solo fisico, ma soprattutto dal lato del senso di colpa che provavo verso le persone che mi volevano bene e del cui amore mi sentivo indegno.
Poi un giorno, mentre continuavo ad arrovellarmi, a casa di quella famosa amante (che nel frattempo ha disdetto l'abbonamento a Sky, e quindi niente più Megastrutture), mi capita in mano Pascal.
Tutti conoscono la scommessa di Pascal come precorritrice della teoria dei giochi: tanto infinito è il premio finale, che qualunque cosa si debba mettere come posta, ne vale la pena anche se le probabilità di vittoria fossero minime. Un ragionamento che, in fede mia, non credo abbia mai convinto nessuno.
Ma non basta la lettura
à la Odifreddi, per comprendere Pascal. Perché dopo il brano famoso, quello che recita
«Vous avez deux choses à perdre : le vrai et le bien, et deux choses à engager : votre raison et votre volonté, votre connaissance et votre béatitude ; et votre nature a deux choses à fuir : l'erreur et la misère. Votre raison n'est pas plus blessée, en choisissant l'un que l'autre, puisqu'il faut nécessairement choisir. Voilà un point vidé. Mais votre béatitude ? Pesons le gain et la perte, en prenant croix que Dieu est. Estimons ces deux cas : si vous gagnez, vous gagnez tout ; si vous perdez, vous ne perdez rien. Gagez donc qu'il est, sans hésiter. »(1)
, Pascal aggiunge qualcosa.
Anzitutto, che non siamo nella situazione di un giocatore di sala corse: noi non possiamo decidere di non scommettere: per il fatto stesso di essere vivi, e quindi destinati a morire, una scelta la dobbiamo fare su come affrontare questa certezza. Possiamo scegliere di credere in un futuro, o che tutto finisca lì; ma non possiamo permetterci di
passare la mano: la fiche o sul nero o sul rosso dobbiamo comunque puntarla.
Ma, ed è il punto qualificante, Pascal aggiunge (umilmente, quasi un
post scriptum) in coda al frammento della scommessa:
«Or quel mal vous arrivera‑t‑il en prenant ce parti ? Vous serez fidèle, honnête, humble, reconnaissant, bienfaisant, ami sincère, veritable... A la vérité vous ne serez point dans les plaisirs empestés, dans la gloire, dans les délices, mais n’en aurez‑vous point d’autres ?
Je vous dis que vous y gagnerez en cette vie, et qu’à chaque pas que vous ferez dans ce chemin, vous verrez, tant de certitude de gain, et tant de néant de ce que vous hasardez, que vous connaîtrez à la fin que vous avez parié pour une chose certaine, infinie, pour laquelle vous n’avez rien donné.»(2)
Ed è proprio questo il punto. Chi crede (o chi, non riuscendo a credere veramente, perlomeno si comporta come se credesse), vive meglio
questa vita.
In questo anno, tentando di seguire i precetti dettati dall'oppio dei popoli, sono stato più attento a mio figlio; sono stato più impegnato sul lavoro; ho evitato di infilarmi nell'ennesimo triangolo o pentagono che avrebbe fatto soffrire un paio di brave ragazze che avevano avuto già modo di soffrire abbastanza in passato, e che non avevano certo bisogno di incontrare l'ennesimo prenditore in giro.
La sera vado a letto e mi sento meglio dopo aver detto le mie preghierine: non tanto per il fatto di averle dette, ma perché so che quell'atto è la conclusione di un giorno in cui sono stato migliore di quanto sarei stato un paio d'anni fa. E al contempo mi cruccio di non fare abbastanza di quello che potrei: dovrei impegnarmi ancora di più per Nichita; dovrei fare quella telefonata ad A., per sapere se quella certa cosa sta andando verso il bene; ma non ho coraggio di farlo temendo che la risposta possa essere il contrario; dovrei preoccuparmi di più della salute di mia madre, che rischia di diventare cieca, ma non riesco ancora a dimostrarle quanto la cosa mi tocchi. Ma mentre prima non mi ponevo il problema, né verso Nichita né verso A. né verso mia madre, oggi ogni giorno cerco di fare un passettino in più per migliorarmi.
Insomma: la scommessa in un certo modo l'ho già vinta, e ancora l'estrazione non c'è stata.
(1) Avete due cose da perdere: la verità e il bene, e due cose da mettere in gioco: la vostra ragione e la vostra volontà [cioè] la vosttra conoscenza e la vostra felicità; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la miseria. La vostra ragione non è toccata scegliendo l'una o l'altra possibilità, perché bisogna necessariamente operare una scelta. E questo punto è risolto. Ma la vostra felicità? Pesiamo il guadagno da una parte e dall'altra, e scommettiamo che Dio sia: se vincete, vincete tutto; se perdete, non perdete niente. Scommettete dunque che sia, senza esitazione.
(2) Orbene, che male può venirvi prendendo questo partito? Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, benefacente, amico sincero e vero... In verità non sarete in mezzo ai piaceri tribolati, alla gloria e alle delizie mondane, ma non avrete forse altri piaceri?
Vi dico che ci guadagnerete, in questa vita, e che a ogni passo che farete in questo cammino vedrete tanta certezza di guadagno e tanta nullità in ciò che mettete in gioco, che alla fine capirete di aver scommesso per una vittoria certa e infinita senza mettere in gioco nulla.