Proseguendo a parlare ancora un po' di referendum (avevamo affrontato l'argomento qui e qui) parliamo ora dei motivi un po' più sostanziali per i quali l'istituto referendario è ormai bollito.
Conviene anzitutto andarsi a leggere la voce su wikipedia che, almeno alla data odierna (vale a dire in questa versione) risulta molto completa e dettagliata. Forse un po' troppo dettagliata, ma stiamo parlando di cose di una certa importanza per la vita democratica, per cui il cittadino interessato all'argomento dovrebe fare lo sforzo di leggersela.
E' noto che l'istituto referendario non fu mai particolarmente amato dal legislatore, che si guardò bene dal dare attuazione al dettato costituzionale finché non vi fu costretto nel 1970, in occasione della promulgazione della legge sul divorzio. Fu infatti Fanfani che, cercando una mediazione tra la parte più conservatrice e bigotta della DC da una parte, e i partiti di ispirazione laica dall'altre, ideò l'accoppiamento tra referendum e divorzio, lasciando quindi che il parlamento approvasse la legge sul divorzio solo per sottoporla immediatamente dopo a referendum (cfr. ad es. L'Italia repubblicana e la crisi degli anni settanta, rinvenibile anche via Google Books).
Pur nella frettolosa formulazione della legge 352/1970, istitutiva del referendum, si coglie l'intento del legislatore di ridurre quanto più possibile la portata dell'istituto, attraverso la definizione di tempistiche e modalità di raccolta delle firme bizantine, tali da scoraggiarne l'uso. Basti pensare che il meccanismo è tale che la raccolta delle firme, tenendo conto anche delle ferie agostane in cui ovviamente tale attività risulta difficile, deve iniziare necessariamente entro maggio, per arrivare al voto tra l'aprile e il giugno successivi. Un anno quindi, ma non un anno qualsiasi. Tenendo conto del fatto che le elezioni avvengono quasi sempre in primavera, in pratica vi sono due anni (quello prima della data di scioglimento delle camere e quello di svolgimento delle elezioni) in cui non è possibile depositare quesiti.
Ma il legislatore del 1970 non è l'unico responsabile del fatto che il referendum in Italia sia quel che è: già il costituente aveva messo dei ben precisi e stringenti limiti all'istituto: anzitutto la natura meramente abrogativa del referendum, e solo in secondo luogo l'esclusione di determinate tipologie di leggi. In effetti a ben vedere le leggi di amnistia e indulto non sono sottoponibili a referendum, dato che il favor rei comporta, detto in termini semplici, l'impossibilità di andare a rimettere in galera chi è già uscito in forza di un provvedimento di clemenza. Quanto ai trattati internazionali, si tratta di un'applicazione del principio pacta sunt servanda per il quale non ci si può tirar indietro dagli impegni presi.
La protezione dal referendum per le leggi tributarie tradisce -almeno a mio vedere- il retropensiero che il corpo elettorale non abbia la capacità di discernere il bene della nazione, e pertanto che in caso di referendum su una legge tributaria vincerebbe a mani basse il partito del "non mettere le mani in tasca agli italiani". Ma forse è solo un mio pensiero malizioso.
Conta molto di più il fatto che il referendum possa avere natura meramente abrogativa, impedendo quindi di sottoporre alla volontà popolare progetti di legge compiuti: anche su questo particolare aspetto vi sono delle spiegazioni, che risiedono nell'esistenza dell'istituto della proposta di legge di iniziativa popolare.
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Mentre stavo scrivendo queste notarelle, ho sentito il bisogno di documentarmi e sono andato a vedermi gli atti della Costituente e in particolare della II sottocommissione, dove il tema del referendum è stato trattato nel corso di tre-quattro sedute. Mi prendo il tempo per leggerli e quindi per ora interrompo qui la disamina, pubblicando comunque il post anche se rimane un po' sospeso nel vuoto.
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