venerdì 15 maggio 2009

Sassolini nella scarpa

C'è un post di Matteo Bordone (che fa seguito ad analogo pezzo del collega Luca Sofri), che ironizza sul fatto che Di Pietro prima abbia raccolto le firme per i referenda elettorali e poi abbia scelto di stare dalla parte del no.
Personalmente credo che chiunque abbia il diritto di ripensare le proprie scelte sbagliate: i fumatori, converrete, possono decidere di smettere di fumare, senza che qualcuno debba o possa accusarli di incongruenza morale; o no?
Non vogliamo scomodare Manzoni, notoriamente fuori moda, e che ci farebbe apparire inguaribilmente conservatori e passatisti: non in linea con la pulsione verso la modernità che informa di sé le nuove leve del centrosinistra; ma possiamo anche portare esempi più attuali se ragioniamo sul fatto che persino i frequentatori abituali di minorenni possono avere un momento di resipiscenza e decidere di tornare a giacersi con piacenti coetanee.

Che poi, tornando in argomento, Di Pietro sui referenda abbia ora scelto "bianco" solo perché Berlusconi ha scelto "nero", è un falso problema. Ciò che bisogna valutare, al momento dell'espressione della sovranità popolare, non è quali siano le motivazioni che muovono i fautori del "bianco" e quelli del "nero": ciò che conta è solo se "bianco" sia o meno più giusto di "nero".
Non succederà mai, ma il giorno in cui Vittorio Feltri e Mario Giordano dovessero presentare un referendum per abolire il finanziamento pubblico alla scuola privata, e Franceschini, D'Alema e Vendola dovessero schierarsi per il "NO"; quel giorno io andrei a votare per il "SI". Anche se ciò costituisse un plebiscito a favore di Feltri e Berlusconi: semplicemente perché credo che sia giusto abolire il finanziamento alla scuola privata, e non mi interessa chi sta da una parte e chi dall'altra.

Mi ha colpito, del post citato, un commento dello stesso autore: alla domanda Tu al referendum cosa voterai? Regali anche le prossime elezioni a Berlusconi?, egli risponde:
Me ne frego di Berlusconi e voto quello che mi sembra giusto. Se vincerà Berlusconi, vorrà dire che avrà avuto più voti. Io faccio il cittadino, non il politico.
In questa risposta è contenuta tutta l'essenza del berlusconismo, che ormai ha permeato di sé la società italiana a qualunque livello. La concezione della democrazia come un consiglio d'amministrazione o un'assemblea condominiale: dove chi ha il 51% comanda e gli altri fanno le belle statuine*.
Ecco, credo sia il caso di dire, pacatamente e serenamente, che la democrazia non è una società commerciale. Che i soci di minoranza (fuor di metafora: coloro che perdono le elezioni) hanno dei diritti che non discendono dalla rappresentanza politica in Parlamento, bensì dal fatto di essere uomini o cittadini; e in quanto cittadini hanno diritto di partecipare ai processi decisionali, tramite i propri rappresentanti.
Mi sono venuti i brividi quando a un certo punto si è parlato, nei mille dibattiti sul maggioritario, del diritto di tribuna da concedere ai partiti minori: un'immagine che mi evoca alla mente Ciccio Ingrassia sull'albero che urla al vento "Voglio una donnaaaaaaa!!!!".
Se il 10, il 20 o il 30% del corpo elettorale è escluso dalla partecipazione alla vita democratica, e può al più contare su uno scranno defilato dal quale lanciare qualche proclama pomposo, come un nonnino un po' suonato al quale si fa fare il brindisi a Natale, allora non siamo più in democrazia: siamo, mi ripeto, in un'assemblea societaria.
Mi piacerebbe chiedere, a questi campioni del bipartitismo, se sanno che nel Senato degli Stati Uniti, faro di luce e democrazia che illumina l'intero globo terracqueo, per far passare una legge è necessario il consenso di 60 senatori. Su 100. Non 50 su 100 o 60 su 120: 60 su 100.
Qui da noi, Segni e Guzzetta propongono una riforma per la quale chi prende il 30% dei voti potrebbe far ciò che vuole. Un bell'esempio di coerenza tra modello e sua trasposizione, non c'è che dire.

Visto che ci siamo, commentiamo anche questo post di Francesco Costa, variazione sul tema della frequentatissima e sempreverde fallacia ad hominem tu quoque: questa volta l'estensore se la piglia con Furio Colombo, che invita a disertare le urne, in quanto il medesimo nel 2005 aveva detto che fare propaganda per l'astensione era antidemocratico (erano i tempi dei famigerati referenda sulla legge 40).
Orbene, se una persona, si chiami Colombo, Piccione o Costa, oggi dice "verde" mentre ieri rebus sic stantibus aveva detto "rosso", è evidente che ha un problema di coerenza. Almeno una volta ha mentito; o perlomeno almeno una volta ha assunto un'opinione sbagliata.
Il fatto è che nessuno, sulla base di queste sole informazioni, può in alcun modo inferire se la posizione sbagliata (o falsa) sia "verde" oppure "rosso" (o anche entrambe, se non siamo di fronte a una scelta che ammette solo due possibilità).
Accusare Furio Colombo di incoerenza non porta un microgrammo di ragione né a coloro che propugnano la legittimità della propaganda astensionista né al loro avversari. Perché se vogliamo giudicare una scelta dalla dirittura morale di chi la propugna (e noi non lo vogliamo, perché è una sciocchezza, ma sviluppiamo comunque il ragionamento), allora sia la posizione astensionista che quella contraria sono state entrambe sostenute da un voltagabbana; e il fatto che tale voltagabbana oggi assuma una certa posizione non vuol dire che tale posizione sia perciostesso più o meno meritevole di quella che egli medesimo aveva assunto ieri.
Poi, per carità, nel dibattito politico ci stanno, queste forzature: è un po' il concetto di dolus bonus per il quale i pubblicitari possono anche dire che un detersivo lava più bianco del bianco: sono slogan, non risultati scientifici.
Ma questo ditino alzato, questo ergersi a censori morali, questo catonizzarsi, che sposta il problema della scelta referendaria dal merito dei quesiti ai meriti dei querenti, ecco: tutto ciò abbruttisce la vita democratica, e rende un cattivo servizio al paese e anche al mero buonsenso.

* Anzi, se vogliamo il referendum è anche peggio, dato che farebbe comandare con meno del 51%

7 commenti:

  1. La citazione del senato americano però è errata: i 3/5 (60%) sono richiesti solo per interrompere il dibattito parlamentare.

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  2. Infatti. Senza una cloture motion è praticamente impossibile far passare una legge controversa in Senato. Tanto che fino a giugno, quando (forse) Al Franken risulterà eletto quale 60° senatore democretico, è praticamente impossibile fare una seria politica di riforme ("once Al Franken finally gets seated it will give the Democrats the magic 60 number. The way is now open to a seriously progressive agenda", per citare Krugman)

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  3. Non è che sia esattamente una novità o non ci troveremmo dove siamo, fai comunque bene a riuscire ancora a stupirti e riportare la discussione al punto. C'è una tendenza in atto da anni che passa dentro e fuori sia della classe politica, che dell'opinione pubblica e che non fa distinzioni di intelligenza, a stare costantemente a lato di dove avvengono le cose, di non riuscire più a leggere la situazione individuando le cause e gli agenti del cambiamento, concentrandosi invece felicemente a fare l'esegesi colta (a volte) del contorno.
    Un a-materialismo, in breve.

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  4. Spesso neanche nelle assemblee societarie serve il 51% per comandare. A volte basta perfino lo 0,51%.

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  5. Aggiungo: non si fa il cittadino. Si è cittadino. magari si può discutere se si è o si fa il politico (ma tenendo per buona la massima aristotelica anche lì tu sei politico e quindi puoi fare politica). Qui mi sembra che si è cittadini bisognosi di essere in sana politica. Non insana. Come sembra essere Berli.

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