lunedì 26 aprile 2010

Il compagno Fini

Già da tempo Gianfranco Fini è visto con un certo favore da gran parte dell'elettorato di centrosinistra. Tra gli elementi che hanno fatto breccia nel cuore di molti che un tempo lo consideravano semplicemente un fascista, possiamo ricordare: il suo senso dello Stato che si distingue dialetticamente dalla concezione berlusconiana dell'esercizio del potere come fonte di arricchimento o comunque di utilità personale; l'attenzione ai problemi dell'integrazione e della cittadinanza, con le proposte di consentire il voto amministrativo agli immigrati e semplificare il processo di naturalizzazione; il giusto rilievo dato al principio di laicità, ben espresso nel caso di Eluana Englaro e nella discussione delle proposte sul testamento biologico; le aperture in tema di omosessualità e riconoscimento delle coppie di fatto. E potremmo proseguire.
Dopo lo showdown di giovedì scorso alla Direzione Nazionale del PdL l'entusiasmo per questo politico, già delfino di Almirante, ha raggiunto vertici insospettabili fino a poche settimane fa: al punto che taluni, non troppo provocatoriamente, vedrebbero meglio lui al posto di Bersani quale leader del Partito Democratico o perlomeno ne preconizzano un ruolo di sponda.

In effetti non si tratta di una cosa nuova: ai tempi in cui si faceva politica nei licei, e magari ogni tanto ce le si dava di santa ragione, capitava spessissimo che su molte tematiche (chessò: il ruolo dell'Italia nella NATO, la lotta alla corruzione, la moralizzazione della vita pubblica, il supporto a movimenti autonomistici come in EIRE e in Palestina) le posizioni dei rossi e dei fasci fossero tra loro perfettamente sovrapponibili.
Tale comunanza di obiettivi tattici ingenerava una notevole confusione nel quattordicenne dell'epoca, che maturava la convinzione che quelli del Fronte della Gioventù fossero dei naturali alleati contro i ciellini e i repubblicani, e si chiedeva perché mai non ci si potesse mettere insieme per menare costoro, anziché menarsi tra uguali.
Interveniva allora la lezioncina che spiegava quali siano i valori della Destra e quali i valori della Sinistra, evidenziando che malgrado la comunanza di obiettivi tattici, le ideee stesse di società dei due fronti siano tra loro antitetiche; e come per avere una comprensione delle differenze occorra guardare ai grandi sistemi e non solo alla battaglia del giorno dopo.
Si imparava così che la dialettica tra Destra e Sinistra può declinarsi in una congerie di dicotomie: Doveri/Diritti; Egualitarismo/Liberismo; Individualismo/Collettivismo; Responsabilità individuale/Protezione sociale; Gerarchia/Libertà; Nazionalismo/Internazionalismo; Patriottismo/Multiculturalismo; Corporativismo/Conflitto tra classi (e mi scuserete se butto lì un po' di roba, troppo di fretta).
Orbene, di tutti questi valori non ve ne è uno solo che Gianfranco Fini abbia mostrato di aver abbandonato o anche solo messo in secondo piano.
Gianfranco Fini è, solidamente, un uomo di destra: uno che pensa che prima venga lo Stato e poi gli individui, che la Patria sia il primo bene; che lo Stato debba regolare ma non correggere i vizi del mercato; che la stratificazione sociale sia funzionale allo sviluppo e che i correttivi debbano intervenire solo nella misura in cui servano a limitare le tensioni sociali; che le Regole vadano seguite in quanto Regole.
Il problema sta a Sinistra: sta nel fatto che è la Sinistra italiana che in questi ultimi tre lustri ha perso la propria natura, trasformandosi in una mera associazione elettorale contro Berlusconi. Del resto il concetto stesso di Sinistra è sparito: si parla di Centrosinistra e non per caso, se pensiamo che gli unici governi riconducibili a quest'area sono stati diretti da un uomo che viene da una tradizione del tutto diversa: e difatti le istanze di sinistra, quali potrebbero essere l'appiattimento della curva di Lorenz o il rafforzamento della tutela dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro, non hanno avuto alcuno spazio.
Non parliamo poi di Veltroni, che per portare in Parlamento gli industriali del Nord-Est è riuscito persino a (re)inventarsi il Patto tra Produttori: vale a dire il principio fondamentale alla base della Carta del Lavoro. Carta del Lavoro che a sua volta non è del 1997 e non è figlia di Marco Biagi: è di Giuseppe Bottai, è del 1927 ed è stata uno dei documenti fondamentali dello Stato fascista.
Insomma: il problema identitario non pertiene a Gianfranco Fini, bensì alla sinistra. E finché la Sinistra si preoccuperà di Berlusconi, della metodologia terapeutica delle sue disfunzioni erettili e dello stato di purezza nel quale riceve il Corpo di Cristo; ebbene fino ad allora quella Sinistra non sarà mai in grado di capire perché Gianfranco Fini sia un avversario e non un potenziale alleato.
Fortuna che Fini lo capisce bene, almeno lui.

3 commenti:

  1. In altre parole l'incitare Fini nasconde ancora una volta la debolezza ideologica del centrosinistra che ha fagocitato tutto ciò che non è berlusconiano.

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  2. Sottoscrivo tutto e segnalo l'intervento di Vendola a Che tempo che fa del 25 aprile. In realtà ho visto solo gli ultimi minuti dell'intervento, ma sufficienti per chiarire la questione Fini a sinistra. (che, gira e rigira, è quanto hai scritto.)

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  3. Me lo sono perso, ma vedo di ritrovarlo in rete.

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