Prendo spunto da un post dello Scorfano e dalla discussione seguitane su Friendfeed in cui si è citato questo articolo per raccontare in due(1) righe altrettanti casi di malasanità di cui sono informato di prima mano, e che dovrebbero farci capire come le associazioni di consumatori (penso in particolare a Codacons e Adusbef, ma certo non sono le sole imputate), nel loro inseguire il mito della class action nei confronti dell'istituzione di turno, rendano un cattivo servizio anzitutto a quei comuni cittadini che teoricamente vorrebbero tutelare.
Qualche tempo fa, in vacanza, strinsi amicizia con il primario di chirurgia toracica di un ospedale del Nord Italia. Costui mi raccontò un episodio drammatico riguardante il precedente primario della stessa specialità, nel frattempo pensionatosi, suo maestro e amico.
Accade che il protagonista della nostra storia una sera cadde è battè violentemente il petto contro un oggetto di una certa dimensione, tipo una cassa. Ai familiari immediatamente le condizioni apparvero gravissime, e telefonarono subito al mio amico mentre portavano in ospedale il paziente. L'amico, viste le condizioni, decise di operare subito, senza fare neppure un esame tra quelli previsti dai protocolli, e salvò il paziente che (mi scuso per la banalizzazione, ma la faccio spiccia per quel che ho capito) nel colpo si era "rotto" un pezzetto del cuore o forse dell'aorta, che quindi perdeva.
Quello che mi colpì fu il fatto che, come mi assicurava l'interlocutore, con un qualsiasi altro paziente non si sarebbe mai arrischiato a fare una cosa simile: la probabilità che morisse sotto i ferri era elevata, e proprio per questo lui (e secondo lui qualunque suo collega) non si sarebbe mai sognato di rispettare men che alla lettera i protocolli, in quanto ciò avrebbe sicuramente avuto disastrose conseguenze penali e soprattutto civili.
Qualunque altro paziente, insomma, sarebbe morto con assoluta certezza: non perché fosse il suo destino, bensì solo per effetto dell'americanizzazione del nostro sistema sanitario e giudiziario.
Un altro caso, meno drammatico: qualche tempo fa, sempre di sera, una mia parente, portatrice di un catetere venoso centrale (in pratica una specie di tubicino che permette di somministrare delle medicine direttamente nel circolo sanguigno) trovò che il tubicino in questione si era staccato. Chiese il mio aiuto e io telefonai in ospedale, dove lo specialista di reperibilità mi disse che era necessario accertare se il catetere si fosse solo sfilato o si fosse proprio rotto, dato che in qual caso sarebbe stato necessario rimuovere al più presto possibile il pezzo di plastica rimasto internamente.
Andai quindi a vedere questo catetere sfilato, e pur non avendone mai visto prima uno capii immediatamente che era perfettamente integro (si tratta di un oggetto che finisce con una punta smussata, del tutto incompatibile con qualunque ipotesi di rottura).
Ritelefonai al medico reperibile, descrivendo il pezzo e affermando la mia certezza della sua interità, ma nuovamente questi mi disse che la paziente doveva andare immediatamente in ospedale a fare una lastra: atteggiamento comprensibile dato che eravamo al telefono e io non sono un medico.
Andammo quindi al pronto soccorso dell'ospedale che aveva in cura la mia congiunta, pur nella certezza che fosse una cazzata, ricevendo un codice verde e un tempo d'attesa di oltre due ore. Dopo un'ora e mezza tornammo all'accettazione, scoprendo che il tempo d'attesa nel frattempo era ancora aumentato, e quindi chiedemmo all'infermiera, certo più competente di me, di dare un'occhiata al catetere: costei prima nicchiò, poi -dopo aver precisato una cinquantina di volte che il suo sarebbe stato un parere del tutto personale, irrituale e privo di qualunque ufficialità o implicazione- lo guardò e si mise a ridere, dicendo che ovviamente il pezzo era intero ma lei comunque non lo stava affermando. Ci usò anche la cortesia di farlo vedere anche al medico internista di turno, che fu della medesima opinione ma non ce l'avrebbe detto direttamente.
A quel punto (quasi a mezzanotte) avrebbero dovuto dirci di andare a casa, no? E invece no: il medico di turno non si assunse la responsabilità di dirci «andatevene, che abbiamo cose più importanti da fare», e telefonò allo specialista reperibile. Questi, pur essendosi sentito dire dal medico di turno di un pronto soccorso del proprio ospedale che quel cazzo di catetere era tutto d'un pezzo, disse che non gli importava e che pretendeva comunque la lastra.
Questo dialogo ci fu riferito, con un fare ammiccante che chiaramente significava «non siate scemi, toglietevi dalle palle», ma senza che nessuno osasse dirlo chiaramente.
C'è forse una probabilità su mille che un catetere si rompa internamente, e una su mille che il medico di turno al pronto soccorso sia così ubriaco da non saper distinguere un catetere rotto da uno intero, e una su mille che l'eventuale pezzetto rimasto nel corpo possa entrare in circolo causando danni: ma per coprirsi il culo da quel miliardesimo di probabilità, si occupano posti in pronto soccorso, si fanno lastre inutili, si fa girare una gran quantità di carte che in fondo sono solo fumo.
E qual che è più drammatico è che se io fossi l'avvocato dello specialista reperibile, o del medico di turno, ripeterei loro come un mantra che *devono* far fare tutti gli esami possibili e immaginabili e anche qualcuno di più; e che comunque la lastra deve essere pretesa in ogni caso, non foss'altro perché così, quaunque cosa succeda, la responsabilità e le relative rogne se la prende il radiologo, il quale probabilmente a sua volta avrà qualche mezzo per rifilarla addosso a qualcun altro ancora.
(1) licenza poetica
Medicina difensiva, difensiva al punto che, sorridendo a denti stretti, a noi medici vien da dire che, prima o poi (e spero mai), i giornalisti (per come descrivono la sanità) o la gente (per come è ghiotta di notizie sulla mala sanità e indifferente ai discorsi sulla buona sanità), saranno curati direttamente dagli avvocati. Il cerchio della chiacchiera potrebbe chiudersi in questo modo surreale.
RispondiEliminaLa realtà delle cose è che un ambito tanto importante è da sempre fuori controllo, ovvero né misurato né venduto per quel che è: in albergo si va guidati dalle stelle, no? Perché mai, allora, in ospedale non si dovrebbe andare guidati nello stesso modo, e non, come spesso avviene, dalla sola buona sorte. Che, a volte, buona non è proprio. Qui non si tratta di dibattere, di percepire, di parlare, si tratta solo di misurare. Gli indicatori ci sono, ma nessuno li rende pubblici, questo è il fatto. Ed ecco perché le cause di risarcimento sono per lo più rivolte agli ortopedici (del ditino storto si accorgono tutti) e non, per esempio, ai cardiologi (cui appartengo), perché “d’infarto si può morire, no?”.
E no che non è vero: d’infarto si muore, sì, ma le percentuali sono precise, note a tutti gli addetti ai lavori, e del tutto sconosciute agli utenti, che non possono così distinguere l’ospedale che, per il tipo di infarto a, offre una mortalità dello 0.5%, da quello che ha una mortalità dieci volte (10) superiore, e così per il tipo b e per il tipo c etcetera etcetera. Vale per l’infarto così come per mille altre patologie complesse, chirurgiche e non. Vale soprattutto per l’appropriatezza della procedura erogata: l’intervento andava veramente fatto? E se sì, i presupposti per un risultato efficace c’erano tutti?
Se ciò si realizzasse, l’ospedale stesso, controllato e descritto per ciò che è in grado realmente di fornire, renderebbe più facile il lavoro dei propri operatori. E questi ultimi, sarebbero più sereni a svolgere il proprio lavoro (difficile), sapendo di essere ‘misurati’ o ‘classificati’ da controllori seri, competenti, e non dalle solite… dicerie degli untori.