Certezze che affondano

Uno pensa di avere quella minima infarinatura per scrivere una-frase-una in inglese, usando il pronome personale adeguato, e poi scopre che le navi sono di genere femminile.

martedì 4 settembre 2012

A.M.

I lettori che furono abituali potranno bene immaginare che la morte di Alessandro Marzi mi abbia colpito. Lo ha fatto però in un modo particolare, che da ieri cerco di esprimere senza riuscirci, tanto che volevo buttarlo via questo post, dopo una serie di tentativi mentali che non erano arrivati da nessuna parte. Alla fine ho deciso di scrivere di getto senza pensarci troppo, ché pensar troppo è male.
Di Alessandro lessi quando cominciò a stare male davvero, quando cioé aveva perso la speranza di farcela e si preparava a morire. Non entrai mai in relazione con lui: dapprima, perché ciò sarebbe stato di cattivo presagio per M., che a differenza sua era convinta di poter campare a lungo, e dopo perché sarebbe stato di cattivo presagio per lui, che certo non aveva bisogno di esempi di esiti nefasti ulteriori rispetto a quelli che già vedeva negli ospedali che frequentava.
Non conoscendolo, non posso certo dire i suoi pensieri, ma posso raccontare ciò che io mi sono figurato. Da qui in poi, quindi, saranno solo considerazioni personali: probabilmente tutte sbagliate, ma che spero non offenderanno nessuno (se poi ciò dovesse accadere, pronto a cancellare tutto).
Cominciamo a dire che c'erano due Alessandro: uno è quello dell'intervista di Biccio: uno forte, tosto, che parla con la malattia a tu per tu e sembra ignorare la morte, o perlomeno sfidarla a scacchi; l'altro è quello dei post clinici, da cui emerge tutta la disperazione per essere impotente di fronte al cancro. Scriveva di come stava giorno per giorno, di tutti i peggioramenti della sua malattia, tutti i piccoli fallimenti quotidiani che lo portavano passo dopo passo verso la tomba.
Poi c'erano i commenti che lo invitavano a star su, a resistere, a farsi forza. Ecco: quei commenti io non riuscivo proprio a reggerli, perché mi figuravo (ribadisco: sto scrivendo sulla base della mia, di esperienza: non immagino lontanamente di sapere cosa passasse nella sua, di testa) che più che forza non potessero dargli altro che rabbia e sconforto.
Quando si sta per morire, questa è la mia convinzione -che certo sarà sbagliata- non contano le parole del prossimo, bensì le azioni. Tanto contano le piccole cose di ogni giorno, quali il trovare la colazione pronta al risveglio, comperare una nuova pianta, iniziare a vedere una serie TV, trovare un uovo di merlo in un vaso sul balcone; tanto poco di contro contano le parole. Anche perché le parole, alla fin fine, son sempre quelle: possono variare un poco, ma al terzo giro di giostra non si può far altro che ripetersi.
Naturalmente questo vale per le parole spese sulla malattia: per quelle spese sulle passioni (la Vespa, le chitarre...) è tutto un altro discorso, e immagino che quelle, di parole, gli siano state di grande conforto.

La morte è una cosa difficile da affrontare; e la propria morte, quando non si è passata la soglia della vecchiaia (e forse anche dopo) lo è oltre misura. Spero di cuore che il modo trovato da Alessandro per gestirsela lo abbia aiutato, tanto quanto il modo -opposto- che M. aveva trovato per conto suo, e che arrivato al dunque abbia avuto la stessa serenità nel passare di là.