No, non è un refuso, il titolo. Era partito come elitismo, ma poi mi è venuto così.
Questa sera ho partecipato all'assemblea condominiale: chi ne ha mai subita una sa come mi posso sentire e mi perdonerà eventuali eccessi.
Sono tornato a casa, ho bevuto una birra, mi sono messo a letto e per puro caso mi sono messo a sentire cosa si diceva al Boccascena Caffè, via diretta blogghettara streamizzata -e in questo momento apprendo che è a cura di Giacomo Cariello, ohibò, che saluto- dove c'erano i giovani piombinesi candidati del Pd: la generazione dei quarantenni che preme, e con ragione dato che il loro segretario è un matusa che di anni ne ha sette in più.
Sta di fatto che sto vedendo gli ultimi minuti di quest'incontro, ed emerge dalla sala Pippo Civati, che dev'essere proprio come il prezzemolo, dato che sta ovunque. E fa un intervento politico, di spessore, sul fatto che Ivan S C A L F A R O T T O e Debora S E R R A C C H I A N I hanno dei nomi lunghi e complessi e sarà un problema quando gli elettori andranno nella Cabina -anzi Gabina, si corregge, e qui mi soccorre questo post- elettorale; e perciò bisogna preparare bene gli elettori, che dovranno scrivere quei popo' di caratteri.
Probabilmente il Civati, che se c'è da dar retta a wikipedia è uno splendido trentatreenne, pensa ancora a quando, nell'Italia appena uscita dal dopoguerra e non ancora investita dal boom economico, i due maggiori partiti si contendevano l'uno il primo e l'altro l'ultimo posto sulla scheda elettorale.
Quando io votai la prima volta, e il Civati imparava a compitare le prime divisioni e i tempi dell'indicativo, già questo posizionamento strategico era visto come il retaggio di un'Italia un po' arcaica e un po' pittoresca che non esisteva più: un omaggio ai vecchi partigiani (che allora ancora erano abbastanza arzilli), e ai figli di quegli operai che avevano dovuto studiare alle scuole di avviamento professionale per andare a lavorare.
Nessuno, nella ricca Milano, credeva davvero che ci fosse chi non sapeva distinguere tra uno scudo crociato e una falce e martello (che oltretutto, essendo simboli, non richiedevano abilità di lettura per essere distinti). Credevamo che in qualche lontano paese del sud, a Eboli dove Cristo si era fermato, lì ci fossero ancora gli analfabeti, e lì ci fosse bisogno di posizionare il simbolo dove anche un figlio del popolo avrebbe potuto individuarlo.
Poi è passato del tempo: abbiamo compiuto venti anni, venticinque; siamo diventati grandi. Leggendo abbiamo appreso che al tempo di Carlo Levi Eboli non era il buco di culo del mondo, ma anzi era l'ultimo avamposto di civiltà, e che i leoni partivano da lì in poi.
Viaggiando, dopo, abbiamo visto che dove dovevano esserci i leoni -e forse c'erano al tempo del Levi- ora ci sono paesi lindi, sani, fieri. Paesi dove si fa la raccolta differenziata con sacchetti dotati di codici a barre che verificano la quantità e qualità del raccolto. Dove c'è un sacco differenziato per la cenere dei camini, che costituisce una risorsa. Dove ci sono circoli culturali omosessuali, mentre noi milanesi pensavamo che i froci li mangiassero a colazione. Dove ci sono culture artistiche, gastronomiche, artigianali e discussioni politiche e sociali che noi ce le sognavamo, nelle nostre periferie.
E abbiamo capito quanto eravamo cretini.
Poi siamo andati a fare il militare; e lì abbiamo trovato un commilitone che non sapeva leggere: tanto che era stato punito, ma era uscito lo stesso. Per forza: non sapeva leggere la tabella delle punizioni! E così si era preso un'altra punizione, di rigore, ma blanda: e noi ci eravamo comunque indignati. Avevamo ritenuto che fosse un sistema marcio, ci eravamo proposti di adire le supreme magistrature per riparare al grave torto subìto dal collega meno fortunato: pensavamo di insegnargli a distinguere le lettere l'una dall'altra nel tempo libero, dopo le manovre, e magari di comperargli pure il sillabario, ammesso che tale testo esistesse ancora e non fosse un retaggio collodiano. Qualche giorno dopo, la sera, l'abbiamo incontrato il commilitone: che commentava a gran voce Tuttosport, in un bar, ripassando più volte su giudizi del giornalista che non condivideva ed esprimendo il suo dissenso in modo colorito.
E abbiamo capito quanto eravamo cretini.
Poi abbiamo iniziato a lavorare, ad avere a che fare con agricoltori veneti e piemontesi che sapevano parlare solo in dialetto stretto ed ai quali non riuscivamo a far capire che avrebbero dovuto pagare la rata, perché non sapevamo come si dicesse "rata" nel loro vernacolo; né "pagare" né "dovere". Pensavamo di essere inadatti al compito, credevamo di dover far intervenire dei mediatori culturali (anche se allora l'espressione non esisteva): magari a spese nostre, dato che la vita ci aveva fatto così fortunati.
Poi si fissava un incontro, in regione, e il rozzo villano di colpo articolava con il funzionario pubblico complesse strrutture logiche e sintattiche per spiegare come l'interlocutore (noi, nella fattispecie) fossimo dei truffatori, malandrini e grassatori: approfittatori di soldi pubblici e pericolosi socialmente; ed ottenuto l'agognato rinvio si allontanava, sulla Maserati biturbo, mentre noi tornavamo a casa, con le pive nel sacco, nella nostra A112, smarmittata.
E abbiamo capito quanto eravamo cretini.
Ecco, Civati: pensaci. Scalfarotto. Serracchiani. Sono grafemi alla portata di tutti, ma proprio di tutti.
Il problema, ti assicuro, non è che ci siano italiani che non sappiano scrivere SCALFAROTTO: il problema, quello vero, è che ci sono dirigenti del centrosinistra che -oggi- credono che ci siano italiani che non sanno scrivere SERRACCHIANI.
Ricambio il saluto. 'Sta cosa delle dirette, non pare ma è proprio stancante...fisicamente intendo :)
RispondiEliminaP.S.: è un po' che ci rifletto: ti andrebbe di collaborare ad una versione video delle tue lezioncine? Se ti va di fare due chiacchiere in proposito, probabilmente sarò a Milano almeno un giorno della prossima settimana.
RispondiEliminaTi ho scritto una mail inferendo il tuo indirizzo, ma non dev'essere giusto.
RispondiEliminame lo mandi?
signur. vedi a fare lo sborone. la giournee sera rude. altroche'.
RispondiEliminaah, ma non devi mica fidarti delle apparenze: è tutto teatrino.
RispondiEliminaMal comune , mezzo gaudio? :-)
RispondiEliminaPur apprezzando la verve polemica del post, mi rimane qualche dubbio. Sono stato spesso, spessissimo, in Calabria e non ho visto quello che racconti tu; anzi, ho visto degradazione e sfacelo ambientale di tutti i tipi. Sto sempre nelle valli bresciane e vedo di ben peggio; cioè, vedo le Maserati biturbo, senza dubbio, ma anche una crassa ignoranza linguistica e ortografica. Per farti un esempio: da quando ho postato il video della Serracchiani, un paio di mesi fa, mi sono arrivati 81 lettori che cercavano il suo nome e cognome; solo 28 però lo hanno digitato giusto; altri 31 hanno scritto "Seracchiani"; altri 12 "Serachiani"; altri 10 "Serrachiani". Quasi i due terzi, insomma (lo so che non è un dato rilevante statisticamente: che quelli che hanno inserito il nome giusto saranno finiti da altra parte; ma è comunque un dato, anche perché la rete la usano comunque gli alfabetizzati). D'altronde la geminazione delle consonanti è la regola ortografica da sempre più difficile per gli abitanti del lombardo-veneto.
RispondiEliminaQuindi, non sarei così ottimista. Anche perché, questo lo sai, sulla cultura e la "furbizia" della gente italica,, io sono assai più pessimista di te.
Concordo appieno sul fatto che far scrivere "seRRaCChiani" a un veneto (o a un italiano di origine rumena) possa essere un'impresa improba.
RispondiEliminaIl post, che non a caso si intitola etilismo (e non si riferiva al civati, bensì allo scrivente) è venuto giù di getto e un po' disorganico: una di quelle cose che si fanno a ruota libera, con le dita che scorrono sulla tastiera senza saper neppur bene in che direzione: del resto ho ammesso di aver bevuto UNA birra, ma non le dimensioni del boccale; e oltretutto era UNA quando la stesura è iniziata, non quando è finita.
Rammento vividamente tuttavia la sensazione di fastidio provata nel parlare del Civati, che mi sembrava l'intellettuale sulla torre d'argento (e tu sai quanto male voglio agli intellettuali, a sangue freddo e caldo).
Oltretutto, il Civati, che sempre stando a Wikipedia è un consigliere regionale lombardo, non puo non sapere che se l'elettore scrive Scalfaroto, Scalfarrotto o Scalfarèto, comunque il voto viene attribuito all'Ivan; e così per Serachiani, Serrachiani e Serrrachiani. Salvo che nella stessa medesima lista vi sia un altro candidato, effettivamente di nome Scalfaroto o Serachiani, che in tal caso si prenderebbe, indebitamente, la preferenza.
(e non è una caso di scuola, come dimostra il travolgente successo di uno sconosciuto Riccardo Albertini alle comunali di Milano, che aveva l'unico indiscutibile vantaggio di essere omonimo del candidato sindaco)
Ecco, l'ignoranza. Io NON lo sapevo. Pensavo che fossero voti nulli. Il discorso cambia quindi un poco, per quanto riguarda i miei esempi. Per quanto riguarda il tuo etilismo, non cambia moltissimo, direi.
RispondiEliminaTi lascio il rimando:
RispondiEliminaart. 64 T.U. 16 maggio 1960 n. 570
1. La validità dei voti contenuti nella scheda deve essere ammessa ogni qualvolta se ne possa desumere la volontà effettiva dell’elettore, salvo il disposto dei commi seguenti.
2. Sono nulli i voti contenuti in schede:
1) che non sono quelle di cui agli allegati [ A) e B) ] o non portano la firma o il bollo richiesti rispettivamente dagli articoli 47 e 48;
2) che presentano scritture o segni tali da far ritenere, in modo inoppugnabile, che l’elettore abbia voluto far riconoscere il proprio voto.
Istruzioni per le operazioni degli Uffici elettorali di sezione
Pare opportuno precisare che, essendo stata soppressa la facoltà di esprimere il voto di preferenza a mezzo di numeri (paragrafo 45 a pagina 42) e
dovendo ora gli elettori esprimere tale voto esclusivamente scrivendo il nome
e cognome o solo il cognome del candidato preferito, occorre dare la più ampia applicazione al principio sancito dall’art. 64 del testo unico 570, in base al quale deve essere ammessa la validità del voto ogni qual volta possa desumersi la volontà effettiva dell’elettore: ciò comporta che debba essere ritenuto valido il voto di preferenza anche se espresso con errori ortografici che non impediscano comunque di individuare il candidato prescelto.