E' oramai da un bel po' di tempo che questo blog* ha intrapreso una sua campagna di moralizzazione per mettere in guardia le genti dal fare dichiarazioni o compiere azioni senza pensare alle conseguenze di ciò che si dice o si fa. Roba del tipo che plaudere alla pubblicazione di intercettazioni sulla vita privata della gente, solo perché quella gente ci sta un po' sul cazzo, potrebbe dimostrarsi una mossa poco astuta se un giorno qualcuno pubblicasse le telefonate nostre o di qualcuno che ci sta simpatico e va a travestiti, per esempio.
Il concetto alla base di questa campagna è che, seppure sia vero che solo gli scemi non cambiano mai idea, la coerenza è comunque un valore di una certa importanza: e chi smentisce oggi quello che diceva ieri dovrebbe dichiararlo apertamente, che sta dicendo il contrario di quanto aveva affermato, perché in caso contrario rischia di apparire nient'altro che un povero cialtrone.
Certo, talvolta la ritrosia e la timidezza impediscono di fare quel minimo di autocritica: in tal caso però bisogna confidare che i propri lettori apprezzino questo atteggiamento -come dire- virginale, e comprendano da soli che l'autore ha cambiato idea, si è pentito, ma non vuole dirlo per non parlare troppo di sé annoiando il suo pubblico e apparendo un inguaribile presuntuoso.
Vittorio Zucconi si trova proprio in questa situazione: oggi ha pubblicato un post nel quale dice peste e corna di Minzolini, il quale ha pubblicato sul proprio TG tante immagini di Gheddafi massacrato. La cosa, dice giustamente Zucconi, è inammissibile, dal momento che il TG1 entra nelle case, all'ora di cena, e lo si può guardare anche quando non lo si vuole espressamente vedere.
Vittorio Zucconi è il direttore di Repubblica.it, esattamente come Minzolini è il direttore del TG1.
Repubblica.it ha pubblicato una caterva di foto e filmati di Gheddafi massacrato, esattamente come ha fatto il TG1. Lo ha fatto anche in home page, che è la pagina dove si va a finire, da casa o dal posto di lavoro, prima ancora di sapere quali saranno le notizie del giorno; perché nella home page di repubblica.it ci vanno tutti, ma proprio tutti, e molti addirittura ce l'hanno come pagine iniziale, quella che viene caricata a prescindere.
Vittorio Zucconi evidentemente ha capito di aver fatto una minchiata, ma dato che è timido non vuole esternare questo suo pentimento. Lo facciamo noi per lui, lieti del fatto che da oggi in poi repubblica.it non avrà più né foto di morti, né titoli sensazionalistici, né colonnini infami, né donne poco vestite.
Grazie, Vittorio: ce ne hai messo un po', di tempo, ma alla fine hai capito.
* che poi sono io, lo so io e lo sapete voi. Ma spersonalizzare fa sembrare il tutto una cosa coi controcoglioni.
sabato 22 ottobre 2011
mercoledì 19 ottobre 2011
Lo Stato di diritto secondo Gilioli
Secondo il nostro tribuno preferito (che oramai ha di gran lunga sorpassato Travaglio nella nostra personale classifica tribunizia), avvalersi della facoltà di non rispondere -che viene riconosciuta a qualunque imputato o indagato per un elementare principio di civiltà giuridica- non è l'esercizio di un diritto, bensì una soperchieria della Casta.
Circuito, cortino.
Anche Leonardo oggi si spende in un lunghissimo pippone sugli insurrezionalisti incappucciati e su come e qualmente costoro condividano con i terroristi d'antan l'ideologia ma non la metodologia.
Il Disagiato, pure lui, si spende per far notare che nel mondo reale del Grande Centro Commerciale la gente non parla di manifestazioni e devastazioni, ma di cose assai più concrete quali la tassa sui rifiuti, mentre sui blog è tutto un fiorire di analisi e interpretazioni sui nuovi ribelli.
In realtà, se volete sentire la mia opinione, questo episodio altro non è che l'ennesima prova della stretta e imprescindibile correlazione intercorrente tra il mondo dei blogger (o come diavolo si chiamino, adesso che i blog sono fuori moda) e stampa. Quella bella vecchia stampa che i pestatori di tasti in rete continuano a sognare di sostituire con le notizie provenienti dal basso, con il giornalismo individuale e con la ricerca personale delle fonti e delle interpretazioni.
E invece niente, ecco che tutti cascano sempre in quel brutto vizio di prendere gli articoli di Repubblica e di scriverci sopra un pezzo, magari per dire che Repubblica fa schifo.
Il fatto è che il blogger, il quale spesso pensa di essere uno strafico giustiziere dei torti e un analista finissimo della realtà che Jack Ryan a lui gli fa una pippa, alla fin fine ha una vita di merda come quella di tutti gli altri: va al lavoro o allo studio, mangia un panino a mezzogiorno, la sera fa la spesa o va all'aperitivo e magari qualche volta esce per un cinemino o si tromba un travestito sui viali. Tutte cose belle e utili, per carità, ma assai poco interessanti per il resto del mondo.
E così il nostro blogger, che di suo fa una vita normale (e quindi abbastanza di merda, mediaticamente parlando) si attacca ai giornali e si beve avidamente tutto ciò che questi gli ammanniscono, perdendo financo quel minimo di senso critico che il normale lettore del Bar Sport mantiene.
Il normale impiegato delle poste, una volta vista la foto del ragazzotto che lancia un estintore, pensa «che pirla, a lanciare un estintore e farsi beccare», e poi se ne va a leggere le pagelle della Inter.
Il giornalista cerca di riempire quel lancio dell'estintore di significati reconditi, di scavare nell'intimità del giovine, nei turbamenti del padre, nel tessuto sociale del piccolo paese, negli studi compiuti e nei precedenti (precedenti?!?) per droga. Il giornalista ci ha delle pagine da riempire, e sa che questo tipo di cose appassiona il pubblico assai più della liberazione di un soldato rapito di cui non frega un cazzo a nessuno salvo che a Fiamma Nirenstein.
Il pubblico legge, si divaga, esattamente come si divaga quando legge delle avventure di Fabrizio Corona o risolve il Sudoku, dopodiché con il giornale ci va a incartare il pesce.
Il blogger no, lui non può disinteressarsi, deve dare il suo prezioso contributo, e ribadisce a pappagallo quello che hanno scritto quei giornali che segue in rete, cambiando qualche parola qua e là e offrendo il fondamentale contributo integrativo della propria storia personale: da quella volta che andò in manifestazione e si spararono i lacrimogeni, all'epico episodio della carica della polizia, che se lui non fosse stato più che furbo (era andato al bar a fare una partitina a Defender) l'avrebbero preso e arrestato.
Io vi dico come la penso: i vandali sono solo vandali, non terroristi. I giornali montano la vicenda perché questo fa vendere copie, e anche perché disegnare scenari apocalittici in questo momento serve agli editori simpatizzanti dell'una e dell'altra parte politica. La gente comune capisce che è tutto un parla-parla, commenta con un paio di battute a torna a preoccuparsi della scuola dei figli. Resta il blogger, imprigionato in questo meccanismo presenzialista, costretto a cucire interminabili tele di penelope per avere, anche oggi, l'occasione di fare un po' di accessi e di far rammentare del proprio esistere.
Il Disagiato, pure lui, si spende per far notare che nel mondo reale del Grande Centro Commerciale la gente non parla di manifestazioni e devastazioni, ma di cose assai più concrete quali la tassa sui rifiuti, mentre sui blog è tutto un fiorire di analisi e interpretazioni sui nuovi ribelli.
In realtà, se volete sentire la mia opinione, questo episodio altro non è che l'ennesima prova della stretta e imprescindibile correlazione intercorrente tra il mondo dei blogger (o come diavolo si chiamino, adesso che i blog sono fuori moda) e stampa. Quella bella vecchia stampa che i pestatori di tasti in rete continuano a sognare di sostituire con le notizie provenienti dal basso, con il giornalismo individuale e con la ricerca personale delle fonti e delle interpretazioni.
E invece niente, ecco che tutti cascano sempre in quel brutto vizio di prendere gli articoli di Repubblica e di scriverci sopra un pezzo, magari per dire che Repubblica fa schifo.
Il fatto è che il blogger, il quale spesso pensa di essere uno strafico giustiziere dei torti e un analista finissimo della realtà che Jack Ryan a lui gli fa una pippa, alla fin fine ha una vita di merda come quella di tutti gli altri: va al lavoro o allo studio, mangia un panino a mezzogiorno, la sera fa la spesa o va all'aperitivo e magari qualche volta esce per un cinemino o si tromba un travestito sui viali. Tutte cose belle e utili, per carità, ma assai poco interessanti per il resto del mondo.
E così il nostro blogger, che di suo fa una vita normale (e quindi abbastanza di merda, mediaticamente parlando) si attacca ai giornali e si beve avidamente tutto ciò che questi gli ammanniscono, perdendo financo quel minimo di senso critico che il normale lettore del Bar Sport mantiene.
Il normale impiegato delle poste, una volta vista la foto del ragazzotto che lancia un estintore, pensa «che pirla, a lanciare un estintore e farsi beccare», e poi se ne va a leggere le pagelle della Inter.
Il giornalista cerca di riempire quel lancio dell'estintore di significati reconditi, di scavare nell'intimità del giovine, nei turbamenti del padre, nel tessuto sociale del piccolo paese, negli studi compiuti e nei precedenti (precedenti?!?) per droga. Il giornalista ci ha delle pagine da riempire, e sa che questo tipo di cose appassiona il pubblico assai più della liberazione di un soldato rapito di cui non frega un cazzo a nessuno salvo che a Fiamma Nirenstein.
Il pubblico legge, si divaga, esattamente come si divaga quando legge delle avventure di Fabrizio Corona o risolve il Sudoku, dopodiché con il giornale ci va a incartare il pesce.
Il blogger no, lui non può disinteressarsi, deve dare il suo prezioso contributo, e ribadisce a pappagallo quello che hanno scritto quei giornali che segue in rete, cambiando qualche parola qua e là e offrendo il fondamentale contributo integrativo della propria storia personale: da quella volta che andò in manifestazione e si spararono i lacrimogeni, all'epico episodio della carica della polizia, che se lui non fosse stato più che furbo (era andato al bar a fare una partitina a Defender) l'avrebbero preso e arrestato.
Io vi dico come la penso: i vandali sono solo vandali, non terroristi. I giornali montano la vicenda perché questo fa vendere copie, e anche perché disegnare scenari apocalittici in questo momento serve agli editori simpatizzanti dell'una e dell'altra parte politica. La gente comune capisce che è tutto un parla-parla, commenta con un paio di battute a torna a preoccuparsi della scuola dei figli. Resta il blogger, imprigionato in questo meccanismo presenzialista, costretto a cucire interminabili tele di penelope per avere, anche oggi, l'occasione di fare un po' di accessi e di far rammentare del proprio esistere.
mercoledì 12 ottobre 2011
Una foto val più di mille parole
Gia qualche tempo addietro avevo espresso dei giudizi non pienamente lusinghieri su quei ragazzetti figli di papà che si fanno chiamare indignados e che hanno quale unico progetto per il loro agire l'andare in giro con la faccia coperta dalla maschera di un signore baffuto.
Questi giovini, che non sanno niente di credito, di debito, di economia e probabilmente neppure di calcio, hanno avuto oggi la bella pensata di andare a manifestare davanti alla Banca d'Italia per farsi dare un po' di mazzate e poter così sfoderare l'arma vincente di chi non ha nulla da proporre: il vittimismo gratuito.
E difatti la vittima è arrivata, in persona di una ragazzina che si è presa una manganellata o calcio nei denti e, povera lei!, si è spaccata il labbro: il che probabilmente dovrebbe dimostrare che la polizia di oggidì non ha nulla a che invidiare a quella cilena di Pinochet, nell'immaginario dei buffoni, mentre a me ricorda la luminosa figura di SCF, nota attivista del Fronte della Gioventù dei miei tempi, poi coniugata RDC, la quale era usa andare al mercato dei libri usati di Piazza Vetra di MLS e DP, con una maglietta con la croce celtica, per farsi rullare di cartoni e gridare alla sinistra violenta.
Ma, espressa la nostra umana solidarietà alla labbrolesa, soffermiamoci un secondo sulla fotografia che ritrae quei bei tomi davanti alla Banca d'Italia di Bologna, e che in altra foto vediamo addirittura portare in processione la statua di Santa Insolvenza e slogan quali «Not Our Debt».
Potremmo credere che sia gente che si pasce di parole quali "riduzioni dei consumi" "decrescita felice", "no al capitalismo", e probabilmente se ne pascono, come mi dice un amico che sa il castigliano e che mi assicura che il secondo cartello da sinistra, nella foto grande, ci esorta a considerare come il capitalismo non funzioni e che la vita sia altra cosa.
Ma come presentano le loro rivendicazioni, costoro? Non su un normale foglione di carta, come si faceva ai miei tempi, bensì sulla sagoma dell'oggetto più fighettisticamente capitalistico che ci sia: un telefonino al succo di mela.
L'unico che sembra aver mantenuto i piedi per terra è il primo figuro, quello che ha un normale tabellone bianco. Sul quale sta scritto: «NO al prestito d'onore».
Il quale prestito d'onore dev'essere una cosa ben cattiva, se l'indignato ci si intigna. Sarebbe bello che ci spiegasse anche il motivo della sua contrarietà, dato che a casa mia il prestito d'onore è quello che si dà, sulla sola parola, a chi non ha mezzi per studiare o aprire una piccola attività, né garanzie da offrire a un istituto finanziatore, e che consente a chi parte svantaggiato di risalire la scala sociale. Faticosamente, certo, ma meglio una scala mobile ferma che un'arrampicata sulla parete liscia.
Al manifestante questa cosa non devono avergliela spiegata: lui il prestito d'onore non l'ha chiesto e quindi non si è accattato l'iPhone, il che spiega perché mai il sua cartello sia più bruttino degli altri.
Questi giovini, che non sanno niente di credito, di debito, di economia e probabilmente neppure di calcio, hanno avuto oggi la bella pensata di andare a manifestare davanti alla Banca d'Italia per farsi dare un po' di mazzate e poter così sfoderare l'arma vincente di chi non ha nulla da proporre: il vittimismo gratuito.
E difatti la vittima è arrivata, in persona di una ragazzina che si è presa una manganellata o calcio nei denti e, povera lei!, si è spaccata il labbro: il che probabilmente dovrebbe dimostrare che la polizia di oggidì non ha nulla a che invidiare a quella cilena di Pinochet, nell'immaginario dei buffoni, mentre a me ricorda la luminosa figura di SCF, nota attivista del Fronte della Gioventù dei miei tempi, poi coniugata RDC, la quale era usa andare al mercato dei libri usati di Piazza Vetra di MLS e DP, con una maglietta con la croce celtica, per farsi rullare di cartoni e gridare alla sinistra violenta.
Ma, espressa la nostra umana solidarietà alla labbrolesa, soffermiamoci un secondo sulla fotografia che ritrae quei bei tomi davanti alla Banca d'Italia di Bologna, e che in altra foto vediamo addirittura portare in processione la statua di Santa Insolvenza e slogan quali «Not Our Debt».
Potremmo credere che sia gente che si pasce di parole quali "riduzioni dei consumi" "decrescita felice", "no al capitalismo", e probabilmente se ne pascono, come mi dice un amico che sa il castigliano e che mi assicura che il secondo cartello da sinistra, nella foto grande, ci esorta a considerare come il capitalismo non funzioni e che la vita sia altra cosa.
Ma come presentano le loro rivendicazioni, costoro? Non su un normale foglione di carta, come si faceva ai miei tempi, bensì sulla sagoma dell'oggetto più fighettisticamente capitalistico che ci sia: un telefonino al succo di mela.
L'unico che sembra aver mantenuto i piedi per terra è il primo figuro, quello che ha un normale tabellone bianco. Sul quale sta scritto: «NO al prestito d'onore».
Il quale prestito d'onore dev'essere una cosa ben cattiva, se l'indignato ci si intigna. Sarebbe bello che ci spiegasse anche il motivo della sua contrarietà, dato che a casa mia il prestito d'onore è quello che si dà, sulla sola parola, a chi non ha mezzi per studiare o aprire una piccola attività, né garanzie da offrire a un istituto finanziatore, e che consente a chi parte svantaggiato di risalire la scala sociale. Faticosamente, certo, ma meglio una scala mobile ferma che un'arrampicata sulla parete liscia.
Al manifestante questa cosa non devono avergliela spiegata: lui il prestito d'onore non l'ha chiesto e quindi non si è accattato l'iPhone, il che spiega perché mai il sua cartello sia più bruttino degli altri.
giovedì 6 ottobre 2011
Stare scomodo
Ieri ho pronunciato un discorso (che si dovrebbe chiamare elegia, ma io ho fatto lo scientifico) davanti ad alcuni amici e a una cassa.
Gli amici hanno ascoltato con viva attenzione e partecipazione, mentre la cassa se ne stava lì, a fare la cassa. Sono certo che tra gli amici ce ne erano alcuni profondamente convinti che il contenuto della cassa non esaurisse ciò che era stata colei che era l'oggetto del discorso. Forse (ma di questo non sono certo) ce ne erano alcuni altrettanto convinti che lei e il contenuto della cassa coincidessero perfettamente.
Credere è una grande fatica, ma anche una grande consolazione in certi momenti, quando senti il bisogno di dire ancora qualcosa a chi non può più sentirti: sapere che l'amore non finisce nel momento in cui si avvita il coperchio della cassa, o anche solo sapere che quel discorso è stato ascoltato non solo dagli amici vivi, ma anche da un residuo di colei per la quale ci eravamo riuniti, ecco questa cosa sarebbe di enorme conforto.
D'altro canto anche credere che la persona umana coincida con un numero spropositato di cellule interconnesse e di correnti elettriche che le circondano può essere altrettanto consolante: l'ateo convinto, quello che SA che Dio non esiste, non si fa tanti problemi. Con l'ultimo respiro tutto è finito, e poi saranno fatti altrui smazzarsi quel che resta. Chi se n'è andato non è nella cassa: non esiste più e quindi dal suo punto di vista è come se non fosse mai esistito: tutto ciò che ne resta sono dei collegamenti elettrici nel cervello di chi l'ha conosciuto, e dei rapporti giuridici da sistemare.
Sono, quella di chi crede e di chi nega, due certezze che sono parimenti atti di fede. E' atto di fede credere in un Dio buono e misericordioso (o anche in un Dio distante e vendicativo), ma è anche atto di fede credere che quel Dio non esista.
L'ateo razionalista confonde la ricerca di Dio con un processo penale: dato che nessuno può fornire la prova della Sua esistenza, ecco dimostrato che Dio non esiste. Ma questo argomento può funzionare, per l'appunto, in un processo penale, dove esiste il principio in dubio pro reo e dove in caso di mancato raggiungimento della prova si assolve.
Ma la vita e l'universo non sono un'aula di giustizia, il credente non è un imputato e l'esistenza di Dio non è una prova da raggiungere. Senza prendere esempi domestici e recenti, credo che quasi tutti coloro che leggono siano convinti che O.J. Simpson abbia ammazzato sua moglie, anche se non è stato possibile provarlo. E' un principio di civiltà giuridica ("meglio cento colpevoli fuori piuttosto che un innocente dentro") il fatto che egli sia stato assolto in mancanza di prova, ma la sostanza dei fatti è che la moglie l'ha ammazzata comunque.
Ridurre il problema dell'esistenza di Dio alla ricerca di una prova è sciocco, riduttivo ed arrogante: se veramente esiste un Dio onnipotente che non vuole farsi vedere, come fa un piccolo uomo a pretendere di stanarlo con le armi di una logica fallace (nel caso di Odifreddi la logica vien meno, e rimane solo il "fallace")?
Di contro, altrettanti dubbi vengono guardando l'altra faccia della medaglia. Ammettendo che esista un Dio infinitamente buono e potente, come diavolo è possibile che la sua bontà e potenza siano state utilizzate solo per far scrivere qualche libro sacro e per guarire alcuni ammalati? Perché, santo Cielo, con tutto quello che succede nel mondo, con tutte le guerre, i campi profughi, le sofferenze, le violenze e le povertà, la potenza di questo Essere si limita a far piangere qualche statua e togliere qualche Parkinson? Meglio allora pensare che Egli non agisca per nulla sul mondo; ma se non agisce ecco che la Sua infinita bontà non ha più ragion d'essere. Come è possibile che quel Dio infinitamente buono ci chieda di essere buoni e caritatevoli, di fare sacrifici e rinunce, e poi non alzi quel dito che potrebbe risolvere d'un colpo solo tutti i mali del mondo?
E però anche questa non è una prova della sua inesistenza, perché potrebbe essere che quello che noi crediamo male in realtà sia la nostra interpretazione fallace di qualcos'altro: il cane che viene portato dal veterinario pensa che quel signore voglia farlo soffrire, ma solo perché non ha gli strumenti cognitivi per comprendere che quel male è in realtà un bene.
Certo, l'ateo crede di partire da una posizione di vantaggio, dato che in assenza di qualunque prova dell'esistenza di Dio è più logico credere alla sua inesistenza, ma di contro egli è come un testimone che afferma che il semaforo era rosso quando 99 altri testimoni l'hanno visto verde. E' possibile che egli abbia ragione, ma se la stragrande maggioranza dell'umanità crede, be' allora la persona un minimo intelligente ha il dovere di porsi il dubbio di essere in torto: pensare di essere l'unico depositario del vero in un mondo di cretini è un atto perlomeno arrogante, e magari il daltonico sei tu, non gli altri 99 testimoni.
Ecco: in tutto ciò io sono lì, in mezzo. Ho pronunciato quel discorso con la speranza che il contenuto di quella cassa non esaurisse tutto ciò che lei era stata, ma è solo una speranza, non riesco a crederci.
E' un po' come avere in tasca un biglietto della lotteria: qualcuno per il fatto di aver quel biglietto si considera già ricco; qualcun altro conoscendo le probabilità di vittoria considera che il valore di quel biglietto sia nullo o quasi.
Io il biglietto ce l'ho, e non so cosa pensare se non che devo attendere l'estrazione; ma dato che l'estrazione avverrà il giorno in cui nella cassa ci sarò io, ecco che questa lunga attesa diventa insopportabile.
Gli amici hanno ascoltato con viva attenzione e partecipazione, mentre la cassa se ne stava lì, a fare la cassa. Sono certo che tra gli amici ce ne erano alcuni profondamente convinti che il contenuto della cassa non esaurisse ciò che era stata colei che era l'oggetto del discorso. Forse (ma di questo non sono certo) ce ne erano alcuni altrettanto convinti che lei e il contenuto della cassa coincidessero perfettamente.
Credere è una grande fatica, ma anche una grande consolazione in certi momenti, quando senti il bisogno di dire ancora qualcosa a chi non può più sentirti: sapere che l'amore non finisce nel momento in cui si avvita il coperchio della cassa, o anche solo sapere che quel discorso è stato ascoltato non solo dagli amici vivi, ma anche da un residuo di colei per la quale ci eravamo riuniti, ecco questa cosa sarebbe di enorme conforto.
D'altro canto anche credere che la persona umana coincida con un numero spropositato di cellule interconnesse e di correnti elettriche che le circondano può essere altrettanto consolante: l'ateo convinto, quello che SA che Dio non esiste, non si fa tanti problemi. Con l'ultimo respiro tutto è finito, e poi saranno fatti altrui smazzarsi quel che resta. Chi se n'è andato non è nella cassa: non esiste più e quindi dal suo punto di vista è come se non fosse mai esistito: tutto ciò che ne resta sono dei collegamenti elettrici nel cervello di chi l'ha conosciuto, e dei rapporti giuridici da sistemare.
Sono, quella di chi crede e di chi nega, due certezze che sono parimenti atti di fede. E' atto di fede credere in un Dio buono e misericordioso (o anche in un Dio distante e vendicativo), ma è anche atto di fede credere che quel Dio non esista.
L'ateo razionalista confonde la ricerca di Dio con un processo penale: dato che nessuno può fornire la prova della Sua esistenza, ecco dimostrato che Dio non esiste. Ma questo argomento può funzionare, per l'appunto, in un processo penale, dove esiste il principio in dubio pro reo e dove in caso di mancato raggiungimento della prova si assolve.
Ma la vita e l'universo non sono un'aula di giustizia, il credente non è un imputato e l'esistenza di Dio non è una prova da raggiungere. Senza prendere esempi domestici e recenti, credo che quasi tutti coloro che leggono siano convinti che O.J. Simpson abbia ammazzato sua moglie, anche se non è stato possibile provarlo. E' un principio di civiltà giuridica ("meglio cento colpevoli fuori piuttosto che un innocente dentro") il fatto che egli sia stato assolto in mancanza di prova, ma la sostanza dei fatti è che la moglie l'ha ammazzata comunque.
Ridurre il problema dell'esistenza di Dio alla ricerca di una prova è sciocco, riduttivo ed arrogante: se veramente esiste un Dio onnipotente che non vuole farsi vedere, come fa un piccolo uomo a pretendere di stanarlo con le armi di una logica fallace (nel caso di Odifreddi la logica vien meno, e rimane solo il "fallace")?
Di contro, altrettanti dubbi vengono guardando l'altra faccia della medaglia. Ammettendo che esista un Dio infinitamente buono e potente, come diavolo è possibile che la sua bontà e potenza siano state utilizzate solo per far scrivere qualche libro sacro e per guarire alcuni ammalati? Perché, santo Cielo, con tutto quello che succede nel mondo, con tutte le guerre, i campi profughi, le sofferenze, le violenze e le povertà, la potenza di questo Essere si limita a far piangere qualche statua e togliere qualche Parkinson? Meglio allora pensare che Egli non agisca per nulla sul mondo; ma se non agisce ecco che la Sua infinita bontà non ha più ragion d'essere. Come è possibile che quel Dio infinitamente buono ci chieda di essere buoni e caritatevoli, di fare sacrifici e rinunce, e poi non alzi quel dito che potrebbe risolvere d'un colpo solo tutti i mali del mondo?
E però anche questa non è una prova della sua inesistenza, perché potrebbe essere che quello che noi crediamo male in realtà sia la nostra interpretazione fallace di qualcos'altro: il cane che viene portato dal veterinario pensa che quel signore voglia farlo soffrire, ma solo perché non ha gli strumenti cognitivi per comprendere che quel male è in realtà un bene.
Certo, l'ateo crede di partire da una posizione di vantaggio, dato che in assenza di qualunque prova dell'esistenza di Dio è più logico credere alla sua inesistenza, ma di contro egli è come un testimone che afferma che il semaforo era rosso quando 99 altri testimoni l'hanno visto verde. E' possibile che egli abbia ragione, ma se la stragrande maggioranza dell'umanità crede, be' allora la persona un minimo intelligente ha il dovere di porsi il dubbio di essere in torto: pensare di essere l'unico depositario del vero in un mondo di cretini è un atto perlomeno arrogante, e magari il daltonico sei tu, non gli altri 99 testimoni.
Ecco: in tutto ciò io sono lì, in mezzo. Ho pronunciato quel discorso con la speranza che il contenuto di quella cassa non esaurisse tutto ciò che lei era stata, ma è solo una speranza, non riesco a crederci.
E' un po' come avere in tasca un biglietto della lotteria: qualcuno per il fatto di aver quel biglietto si considera già ricco; qualcun altro conoscendo le probabilità di vittoria considera che il valore di quel biglietto sia nullo o quasi.
Io il biglietto ce l'ho, e non so cosa pensare se non che devo attendere l'estrazione; ma dato che l'estrazione avverrà il giorno in cui nella cassa ci sarò io, ecco che questa lunga attesa diventa insopportabile.
martedì 4 ottobre 2011
Dopo
Il post di questo pomeriggio mi è costato moltissimo.
Non a scriverlo: mi è venuto di getto, senza praticamente una correzione, salvo un presente nella prima parte che ho dovuto modificare dopo.
Il fatto è che da più di un anno quel post mi pesava dentro: sapevo che a un certo punto sarei stato di fronte alla scelta se tenerlo solo per me o pubblicarlo, e così per più un anno ho riflettuto su questo momento, che avrei vissuto davanti allo schermo: era un modo per pensare in modo meno crudo al momento che avrei vissuto ai piedi del letto.
Qualcuno potrà sdegnarsi perché un post su un blog non è il modo ortodosso per dare un certo tipo di annuncio: a costoro ho già risposto con il post di stamane che, come mi ha scritto una persona per nulla ignava, bensì molto discreta e che mi è stata vicino fin dall'inizio, era come una smentita arrivata prima del comunicato da smentire: come un neutrino, insomma.
Il peso vero l'ho portato perché quell'annuncio è nel mio stile, non nello stile di Mad: lei me lo avrebbe impedito con tutte le sue forze, ma io ho voluto farlo lo stesso.
La cosa prima o poi sarebbe comunque venuta fuori: anche un anno fa, quando Mad era stata in ospedale per due mesi, mi ero arrampicato sugli specchi per inventare qualche storia da raccontare a coloro che non l'avevano vista più scrivere sul coso.
Prima o poi se ne sarebbe parlato, magari travisando e tirando fuori un mare di sciocchezze, come tante altre volte abbiamo visto succedere. Meglio dirla tutta, quindi, subito.
Ci sono poi le manifestazioni d'affetto: ne ho ricevute tantissime, o meglio le ha ricevute lei per mio tramite. Un paio di persone le ho sentite al telefono, e piangevano come vitelli per una persona mai conosciuta; altri hanno scritto di aver pianto come vitelli, e sono certo che sia così.
Io, a mia volta, mi sono commosso profondamente leggendo alcuni dei tanti messaggi che ho ricevuto oggi: messaggi che dimostrano l'affetto, l'amicizia e l'amore (usiamola, questa parola, quando ci vuole) che molti di voi provavano e provano verso di lei e verso di me.
Credo che questa pienezza di sentimenti assolva la violenza che ho fatto a Mad nell'andare consapevolmente contro la sua volontà. Io non ho il dono della fede che lei aveva: ma se lei dovesse aver ragione, e se potesse leggere quello che ho letto io oggi, sono certo che mi perdonerebbe e che proverebbe una sincera gioia nel vedere quante persone le sono state vicino con il cuore: persone tutte verso le quali anche lei provava sentimenti fortissimi.
Sono certo che mi capirete se non ho risposto alle mail, ai DM e agli SMS: l'unica cosa che avrei potuto scrivere oggi sarebbe stata un insipido "grazie"; spero di avere il tempo, la voglia e anche un po' la forza di rispondere a ciascuno individualmente, ma ci vorrà un po'.
Alcuni mi hanno chiesto dei funerali: sono cose che si chiedono al momento, ma poi sappiamo che la vita, gli impegni e tutto quanto ci portano altrove; e poi in fondo basta il pensiero.
Sul serio: non c'è alcun bisogno che alcuno si senta obbligato a fare atto di presenza. Non serve a me, non serve a lei, non serve a voi.
So però per certo che qualcuno ci tiene davvero, al di là della frase di circostanza o dell'arroganza del bel gesto; so pure che qualcuno può aver buttato lì l'amo per educazione, ma magari si è già pentito: a questi ultimi voglio dire che li capisco perfettamente e che non mi riterrò minimamente offeso o deluso qualora nel frattempo ci avessero ripensato.
Dato che non posso distinguere tra i primi e i secondi, e dato che nel bailamme di oggi rischio di essermi perso qualcuno, prego tutti coloro che fossero fermamente intenzionati a venire di manifestarmi nuovamente (anche se l'hanno già fatto) o ex novo la propria intenzione con un DM, una mail, un piccione viaggiatore. A chi mi scriverà risponderò non appena avrò le coordinate precise: per ora posso solo dire che sarà mercoledì, probabilmente di mattina, dalle parti di via Washington.
Buonanotte, e grazie ancora.
Non a scriverlo: mi è venuto di getto, senza praticamente una correzione, salvo un presente nella prima parte che ho dovuto modificare dopo.
Il fatto è che da più di un anno quel post mi pesava dentro: sapevo che a un certo punto sarei stato di fronte alla scelta se tenerlo solo per me o pubblicarlo, e così per più un anno ho riflettuto su questo momento, che avrei vissuto davanti allo schermo: era un modo per pensare in modo meno crudo al momento che avrei vissuto ai piedi del letto.
Qualcuno potrà sdegnarsi perché un post su un blog non è il modo ortodosso per dare un certo tipo di annuncio: a costoro ho già risposto con il post di stamane che, come mi ha scritto una persona per nulla ignava, bensì molto discreta e che mi è stata vicino fin dall'inizio, era come una smentita arrivata prima del comunicato da smentire: come un neutrino, insomma.
Il peso vero l'ho portato perché quell'annuncio è nel mio stile, non nello stile di Mad: lei me lo avrebbe impedito con tutte le sue forze, ma io ho voluto farlo lo stesso.
La cosa prima o poi sarebbe comunque venuta fuori: anche un anno fa, quando Mad era stata in ospedale per due mesi, mi ero arrampicato sugli specchi per inventare qualche storia da raccontare a coloro che non l'avevano vista più scrivere sul coso.
Prima o poi se ne sarebbe parlato, magari travisando e tirando fuori un mare di sciocchezze, come tante altre volte abbiamo visto succedere. Meglio dirla tutta, quindi, subito.
Ci sono poi le manifestazioni d'affetto: ne ho ricevute tantissime, o meglio le ha ricevute lei per mio tramite. Un paio di persone le ho sentite al telefono, e piangevano come vitelli per una persona mai conosciuta; altri hanno scritto di aver pianto come vitelli, e sono certo che sia così.
Io, a mia volta, mi sono commosso profondamente leggendo alcuni dei tanti messaggi che ho ricevuto oggi: messaggi che dimostrano l'affetto, l'amicizia e l'amore (usiamola, questa parola, quando ci vuole) che molti di voi provavano e provano verso di lei e verso di me.
Credo che questa pienezza di sentimenti assolva la violenza che ho fatto a Mad nell'andare consapevolmente contro la sua volontà. Io non ho il dono della fede che lei aveva: ma se lei dovesse aver ragione, e se potesse leggere quello che ho letto io oggi, sono certo che mi perdonerebbe e che proverebbe una sincera gioia nel vedere quante persone le sono state vicino con il cuore: persone tutte verso le quali anche lei provava sentimenti fortissimi.
Sono certo che mi capirete se non ho risposto alle mail, ai DM e agli SMS: l'unica cosa che avrei potuto scrivere oggi sarebbe stata un insipido "grazie"; spero di avere il tempo, la voglia e anche un po' la forza di rispondere a ciascuno individualmente, ma ci vorrà un po'.
Alcuni mi hanno chiesto dei funerali: sono cose che si chiedono al momento, ma poi sappiamo che la vita, gli impegni e tutto quanto ci portano altrove; e poi in fondo basta il pensiero.
Sul serio: non c'è alcun bisogno che alcuno si senta obbligato a fare atto di presenza. Non serve a me, non serve a lei, non serve a voi.
So però per certo che qualcuno ci tiene davvero, al di là della frase di circostanza o dell'arroganza del bel gesto; so pure che qualcuno può aver buttato lì l'amo per educazione, ma magari si è già pentito: a questi ultimi voglio dire che li capisco perfettamente e che non mi riterrò minimamente offeso o deluso qualora nel frattempo ci avessero ripensato.
Dato che non posso distinguere tra i primi e i secondi, e dato che nel bailamme di oggi rischio di essermi perso qualcuno, prego tutti coloro che fossero fermamente intenzionati a venire di manifestarmi nuovamente (anche se l'hanno già fatto) o ex novo la propria intenzione con un DM, una mail, un piccione viaggiatore. A chi mi scriverà risponderò non appena avrò le coordinate precise: per ora posso solo dire che sarà mercoledì, probabilmente di mattina, dalle parti di via Washington.
Buonanotte, e grazie ancora.
lunedì 3 ottobre 2011
Due anni
Tutto cominciò due anni fa, nel modo più stupido che si possa immaginare.
Ebbi una discussione, per motivi tutto sommato futili, sul blog di una frequentatrice del socialcoso alla quale dovevo esser risultato molto antipatico. La cosa non meriterebbe di essere ricordata se non fosse che a seguito di quello scambio di contumelie M. mi scrisse un messaggio per rappresentarmi il suo punto di vista sull'argomento che aveva originato lo scambio d'opinioni.
Fino ad allora M. era stata solo un'altra socialcosista, una tipa un po' strana, molto riservata e che parlava di cose che per lo più non capivo, come moda e sfilate. Fino a quel momento i nostri rapporti si erano limitati a qualche battuta, e a una sua serrata critica alla qualità delle mie stoviglie.
Sapete come succedono queste cose: si inizia una corrispondenza telematica, che poi diventa telefonica. A un certo punto ci si incontra; e incontrare M. fu tutt'altro che facile, dato che lei era riservatissima. Ma tanto insistei che alla fine cedette, una sera di Sant'Ambrogio.
Il primo impatto non fu granché positivo, anche perché io al primo incontro non sono mai stato un granché. Persi tempo a parlare di cose mie, spesi qualche parola sull'altra socialcosista: e questa cosa M. me l'ha sempre rinfacciata, bonariamente.
Insomma: le cose andarono male, ma io insistei e insistei, e così il primo gennaio ci mettemmo insieme.
Dopo due settimane a casa di M. c'erano due spazzolini da denti.
Poco dopo M. cominciò a zoppicare, per uno strappo o qualcosa di simile. Lo strappo non guariva, ma M. aveva una paura fottuta dei dottori, e solo dopo qualche mese, imponendomi di forza, ottenni che si lasciasse visitare e fare una radiografia, da cui emerse che lo strappo non era uno strappo.
M. con i dottori non ci voleva nemmeno parlare, e così fui io a dirle questo, come fui io a dirle che si trattava di un tumore, e poi che quel tumore era maligno.
A luglio iniziarono le cure, ma oramai la cosa era andata così avanti che l'osso si ruppe, e gliene misero uno nuovo di pacca.
Io passavo gran parte del tempo in ospedale, grazie anche al fatto che mio figlio era in vacanza in montagna: lei era immobilizzata, e quindi io le leggevo le lettere demenziali di Veltroni e gli articoli lunari di Severgnini, tanto che ci divertimmo a scrivere delle finte lettere e dei finti articoli, litigando sulla scelta dell'espressione più colorita.
Pian pianino le cose andarono meglio, M. ricominciò a camminare, per quanto certo non corresse, e intanto faceva la terapia che avrebbe potuto iniziare assai prima.
Facevamo una vita molto casalinga, un po' per il suo carattere e un po' per i postumi dell'operazione alla gamba. Nel frattempo la terapia le aveva fatto perdere i capelli, ma lei non si fece mai vedere da me senza la parrucca, che teneva anche a letto e persino durante il giorno, quando era sola, per paura che entrassi in casa a sorpresa, come spesso facevo, e la vedessi in quello stato poco elegante.
Qualche tempo fa fummo invitati a una mangiata in campagna da un altro socialcosista: a M. sarebbe piaciuto partecipare, e oramai si era ristabilita abbastanza da poter viaggiare senza problemi. Alla fine decise di declinare l'invito, non volendo farsi vedere con la stampella e la parrucca, e temendo che qualche malalingua un giorno potesse prenderla in giro.
Ad agosto ci siamo fatti l'unica vera vacanza della nostra relazione: siamo andati a Gressoney, io, lei e il cagnone. Fu una settimana piacevolissima, anche se per la prima volta la nuova terapia le dava un po' di nausea.
Fu in montagna che cominciammo a vedere le puntate di Fringe, che la fidanzata di un altro socialcosista elegante le aveva consigliato, e che ci appassionò entrambi.
Una settimana fa stavamo vedendo una puntata della terza serie quando, malgrado il mio daltonismo, mi accorsi che gli occhi erano un po' giallastri. Lei, fedele al comportamento che aveva sempre tenuto, negò.
Martedì i medici dissero a me e a suo fratello che ormai c'erano poche settimane. A lei non lo dissero: avrebbero dovuto dirglielo proprio oggi, quando sarebbe dovuta tornare in ospedale, né noi potevamo farlo, né lo volevamo.
Venerdì mattina avrei dovuto partire per Budapest, per festeggiare i quarant'anni di amicizia con un mio compagno di giochi d'infanzia che ancor oggi è il mio miglior amico. Ero un po' tormentato non sapendo che fare: rimandare il viaggio sarebbe stato come dirle che stava molto più male di quanto credesse, e quindi decisi di partire.
Giovedì sera M. cucinò, litigammo perché io pretendevo di cenare con la tovaglia mentre lei preferiva le tovagliette all'americana, e come sempre vinsi io. Poi ci guardammo due puntate di Fringe della terza serie, e al momento di alzarsi dal divano M. mi chiese di aiutarla perché era stanca.
Fu un'ispirazione: la mattina dopo decisi di non partire e di passare il finesettimana con lei, forse l'ultimo in cui avremmo potuto stare sereni approfittando dell'ignoranza della sua condizione. Poi sarebbero venuti i momenti difficili, la coscienza della fine; ma avremmo avuto tre giorni tutti per noi.
E difatti abbiamo passato tre giorni di coccole e abbracci.
Venerdì siamo arrivati alla terz'ultima puntata della terza serie, ma sabato sera M. non se la sentiva di finire le ultime due puntate, e preferì andare a letto, dov'è rimasta tutto ieri.
Ho iniziato a scrivere questo post dopo che il prete ha dato a M. l'estrema unzione: ero seduto a fianco a lei, con il PC in grembo, come abbiamo fatto per due anni.
Quando ho finito di scrivere "spazzolino da denti" ho alzato gli occhi, e M. era morta.
Adesso sto finendo di scrivere questo post: sicuramente lei non lo approverebbe, ma per tutto il tempo della nostra vita insieme la rete e le sue amicizie sono sempre state un elemento importante.
Così ho scritto il post in prima persona, raccontando di quello che io ho passato e provato, e ora premerò il tasto per pubblicarlo.
Ebbi una discussione, per motivi tutto sommato futili, sul blog di una frequentatrice del socialcoso alla quale dovevo esser risultato molto antipatico. La cosa non meriterebbe di essere ricordata se non fosse che a seguito di quello scambio di contumelie M. mi scrisse un messaggio per rappresentarmi il suo punto di vista sull'argomento che aveva originato lo scambio d'opinioni.
Fino ad allora M. era stata solo un'altra socialcosista, una tipa un po' strana, molto riservata e che parlava di cose che per lo più non capivo, come moda e sfilate. Fino a quel momento i nostri rapporti si erano limitati a qualche battuta, e a una sua serrata critica alla qualità delle mie stoviglie.
Sapete come succedono queste cose: si inizia una corrispondenza telematica, che poi diventa telefonica. A un certo punto ci si incontra; e incontrare M. fu tutt'altro che facile, dato che lei era riservatissima. Ma tanto insistei che alla fine cedette, una sera di Sant'Ambrogio.
Il primo impatto non fu granché positivo, anche perché io al primo incontro non sono mai stato un granché. Persi tempo a parlare di cose mie, spesi qualche parola sull'altra socialcosista: e questa cosa M. me l'ha sempre rinfacciata, bonariamente.
Insomma: le cose andarono male, ma io insistei e insistei, e così il primo gennaio ci mettemmo insieme.
Dopo due settimane a casa di M. c'erano due spazzolini da denti.
Poco dopo M. cominciò a zoppicare, per uno strappo o qualcosa di simile. Lo strappo non guariva, ma M. aveva una paura fottuta dei dottori, e solo dopo qualche mese, imponendomi di forza, ottenni che si lasciasse visitare e fare una radiografia, da cui emerse che lo strappo non era uno strappo.
M. con i dottori non ci voleva nemmeno parlare, e così fui io a dirle questo, come fui io a dirle che si trattava di un tumore, e poi che quel tumore era maligno.
A luglio iniziarono le cure, ma oramai la cosa era andata così avanti che l'osso si ruppe, e gliene misero uno nuovo di pacca.
Io passavo gran parte del tempo in ospedale, grazie anche al fatto che mio figlio era in vacanza in montagna: lei era immobilizzata, e quindi io le leggevo le lettere demenziali di Veltroni e gli articoli lunari di Severgnini, tanto che ci divertimmo a scrivere delle finte lettere e dei finti articoli, litigando sulla scelta dell'espressione più colorita.
Pian pianino le cose andarono meglio, M. ricominciò a camminare, per quanto certo non corresse, e intanto faceva la terapia che avrebbe potuto iniziare assai prima.
Facevamo una vita molto casalinga, un po' per il suo carattere e un po' per i postumi dell'operazione alla gamba. Nel frattempo la terapia le aveva fatto perdere i capelli, ma lei non si fece mai vedere da me senza la parrucca, che teneva anche a letto e persino durante il giorno, quando era sola, per paura che entrassi in casa a sorpresa, come spesso facevo, e la vedessi in quello stato poco elegante.
Qualche tempo fa fummo invitati a una mangiata in campagna da un altro socialcosista: a M. sarebbe piaciuto partecipare, e oramai si era ristabilita abbastanza da poter viaggiare senza problemi. Alla fine decise di declinare l'invito, non volendo farsi vedere con la stampella e la parrucca, e temendo che qualche malalingua un giorno potesse prenderla in giro.
Ad agosto ci siamo fatti l'unica vera vacanza della nostra relazione: siamo andati a Gressoney, io, lei e il cagnone. Fu una settimana piacevolissima, anche se per la prima volta la nuova terapia le dava un po' di nausea.
Fu in montagna che cominciammo a vedere le puntate di Fringe, che la fidanzata di un altro socialcosista elegante le aveva consigliato, e che ci appassionò entrambi.
Una settimana fa stavamo vedendo una puntata della terza serie quando, malgrado il mio daltonismo, mi accorsi che gli occhi erano un po' giallastri. Lei, fedele al comportamento che aveva sempre tenuto, negò.
Martedì i medici dissero a me e a suo fratello che ormai c'erano poche settimane. A lei non lo dissero: avrebbero dovuto dirglielo proprio oggi, quando sarebbe dovuta tornare in ospedale, né noi potevamo farlo, né lo volevamo.
Venerdì mattina avrei dovuto partire per Budapest, per festeggiare i quarant'anni di amicizia con un mio compagno di giochi d'infanzia che ancor oggi è il mio miglior amico. Ero un po' tormentato non sapendo che fare: rimandare il viaggio sarebbe stato come dirle che stava molto più male di quanto credesse, e quindi decisi di partire.
Giovedì sera M. cucinò, litigammo perché io pretendevo di cenare con la tovaglia mentre lei preferiva le tovagliette all'americana, e come sempre vinsi io. Poi ci guardammo due puntate di Fringe della terza serie, e al momento di alzarsi dal divano M. mi chiese di aiutarla perché era stanca.
Fu un'ispirazione: la mattina dopo decisi di non partire e di passare il finesettimana con lei, forse l'ultimo in cui avremmo potuto stare sereni approfittando dell'ignoranza della sua condizione. Poi sarebbero venuti i momenti difficili, la coscienza della fine; ma avremmo avuto tre giorni tutti per noi.
E difatti abbiamo passato tre giorni di coccole e abbracci.
Venerdì siamo arrivati alla terz'ultima puntata della terza serie, ma sabato sera M. non se la sentiva di finire le ultime due puntate, e preferì andare a letto, dov'è rimasta tutto ieri.
Ho iniziato a scrivere questo post dopo che il prete ha dato a M. l'estrema unzione: ero seduto a fianco a lei, con il PC in grembo, come abbiamo fatto per due anni.
Quando ho finito di scrivere "spazzolino da denti" ho alzato gli occhi, e M. era morta.
Adesso sto finendo di scrivere questo post: sicuramente lei non lo approverebbe, ma per tutto il tempo della nostra vita insieme la rete e le sue amicizie sono sempre state un elemento importante.
Così ho scritto il post in prima persona, raccontando di quello che io ho passato e provato, e ora premerò il tasto per pubblicarlo.
Questo è il mio blog
Questo è il mio blog, e su questo mio blog scrivo quello che voglio.
Non scrivo per attirare l'attenzione, non scrivo per avere traffico, né per guadagnar qualche centesimo risicato con squallide pubblicità, né per avere la mia foto sul giornale e spiegare quanto sono bravo e famoso e quanta gente mi adori. Scrivo per me, di ciò di cui sento il bisogno di scrivere.
Certe cose potranno apparire fastidiose, certi lettori potranno chiedersi se sia giusto o opportuno scrivere ciò che scrivo; ma io non scrivo per loro.
Chi desidera leggere qualcosa di rilassante può scegliere tra migliaia di blog con foto di gattini, cagnolini e lattanti. Chi desidera rispecchiarsi nelle proprie idee può scegliere tra centinaia di blog che spiegano che Berlusconi è il Male Assoluto e Beppe Grillo il Bene Supremo. Chi desidera leggere qualcosa di utile può scegliere tra decine di blog che spiegano come cucinare la pasta al burro e l'uovo al tegamino.
Non ve l'ha ordinato il dottore di leggere queste pagine. Lo schermo che state fissando non sono i Promessi Sposi, voi non siete uno studente di seconda liceo e non c'è nessun professore pelato che vi chiederà di riassumere quello che avete letto.
Se state leggendo queste righe è una scelta vostra, e lo sarà sempre: ogni volta che tornerete su queste pagine sarà una scelta vostra e soltanto vostra.
Se quel che leggete vi infastidice, prendetevela solo con voi stessi: i cretini siete voi, non sono io.
Non scrivo per attirare l'attenzione, non scrivo per avere traffico, né per guadagnar qualche centesimo risicato con squallide pubblicità, né per avere la mia foto sul giornale e spiegare quanto sono bravo e famoso e quanta gente mi adori. Scrivo per me, di ciò di cui sento il bisogno di scrivere.
Certe cose potranno apparire fastidiose, certi lettori potranno chiedersi se sia giusto o opportuno scrivere ciò che scrivo; ma io non scrivo per loro.
Chi desidera leggere qualcosa di rilassante può scegliere tra migliaia di blog con foto di gattini, cagnolini e lattanti. Chi desidera rispecchiarsi nelle proprie idee può scegliere tra centinaia di blog che spiegano che Berlusconi è il Male Assoluto e Beppe Grillo il Bene Supremo. Chi desidera leggere qualcosa di utile può scegliere tra decine di blog che spiegano come cucinare la pasta al burro e l'uovo al tegamino.
Non ve l'ha ordinato il dottore di leggere queste pagine. Lo schermo che state fissando non sono i Promessi Sposi, voi non siete uno studente di seconda liceo e non c'è nessun professore pelato che vi chiederà di riassumere quello che avete letto.
Se state leggendo queste righe è una scelta vostra, e lo sarà sempre: ogni volta che tornerete su queste pagine sarà una scelta vostra e soltanto vostra.
Se quel che leggete vi infastidice, prendetevela solo con voi stessi: i cretini siete voi, non sono io.