Un mio precedente post prendeva spunto dalla polemica di fin'estate sui bar che truffano gli stranieri per dimostrare che, listini alla mano, la truffa agli stranieri proprio non c'era, dato che almeno uno dei locali accusati aveva praticato ai sedicenti turisti i prezzi di listino.
Ne è nata una serie di commenti, qui e in altri luoghi che hanno dato spazio alla cosa, talché credo sia opportuno un piccolo approfondimento, anche alla luce dell'ultimo dei commenti che ho ricevuto, nel quale si dà conto di un locale veneto che ha istituzionalizzato lo sconto agli italiani.
Il tema, lo dico subito, è tutt'altro che semplice da dipanare: si tratta di una di quelle questioni dove ci sono dei bianchi, dei neri, e un'infinità di sfumature di grigio che rendono impossibile dire se una certa tonalità sia più prossima al bianco o al nero.
Sono partito dal concetto che il commerciante è libero di praticare i prezzi che più gli aggradano, con il limite che non può praticare prezzi superiori a quelli di listino: ciò costituisce anzitutto un principio di diritto civile (artt. 1336 c.c.) e, successivamente, di diritto penale (art. 640 c.p.)
E' vero che a Milano si usa poco, ma in altri luoghi (chessò: Lucca) è perfettamente normale andare a comperare un paio di scarpe da 10 euri (non cento né mille: dieci) e chiedere lo sconticino; credo nessuno di voi possa ritenere che il negoziante non abbia il diritto di praticarlo.
Come pure sappiamo che ci sono i voli last minute e gli alberghi convenzionati. Personalmente io non ho mai (ma dico mai) pagato per una camera d'albergo il prezzo esposto al pubblico: e non solo quando ho viaggiato per lavoro, ma anche quando sono arrivato da solo privatamente in una città sconosciuta verso sera: basta chiedere e la riduzione è praticamente automatica (seppur magari di piccola misura).
Si può contestare il fatto che altro è il praticare lo sconto a chi lo chiede, e altro farlo in funzione della sua faccia: ma non mi sembra sia questo il punto, non foss'altro per il fatto che chiunque ha interesse ad ottenere uno sconto e si può dire che sia una specie di richiesta implicita: chi mai può avere interesse a pagare di più una cosa che può pagare di meno?
Passin passino, però, arriviamo al punto di cui al commento che citavo all'inizio: quello del caffè che istituzionalizza lo sconto agli italiani, scrivendolo a chiare lettere sul listino. Non so se la cosa sia vera, né se sia legale, in quanto non sono certo che un esercizio pubblico possa formulare listini differenziati: certo mi ricorda molto da vicino i tempi lontani in cui andavo in Romania, laddove istituzionalmente (e in modo del tutto trasparente) agli stranieri veniva praticato un prezzo e agli indigeni un prezzo di un ordine di grandezza inferiore per gli stessi servizi: il che era ben giustificato dalla differenza tra i redditi pro-capite.
Ma qui siamo in Italia (e del resto anche in Romania tale pratica non esiste più da lunga pezza). Indipendentemente dalla legalità o meno della cosa, mi sembra il problema sia di opportunità e di presentabilità.
Anzitutto, altro è praticare degli sconti e altro differenziare i listini: questa seconda pratica mi sembra molto più antipatica della prima, e se fossi un turista mi farebbe rivoltare gli zebedei (in quanto praticata in un paese che pretende di essere una potenza mondiale: ché se fosse praticata un Moldavia mi sembrerebbe, invece, quasi ovvia, e mi stupirei del conbtrario).
Ma, soprattutto, il listino differenziato, o lo sconto così largamente istituzionalizzato, non ha proprio alcuna ragion d'essere che non sia un velato sciovinismo (non si tratta di razzismo, badate). Il Caffè di via Mercanti che pratica lo sconto all'(apparente) impiegato lo fa perché quel signore può diventare un cliente abituale (cosa che con i prezzi del listino ufficiale al pubblico è tutt'altro che probabile): e il Caffè ha bisogno di clienti abituali, dato che di mesi nell'anno ce ne sono dodici, molti dei quali poveri di turisti ma ricchi di conti da pagare.
Se lo sconto viene praticato non solo all'apparente impiegato bensì anche al siciliano in visita al Duomo, la cosa diventa però priva di senso, dato che è molto più probabile che tra i clienti si ripresenti il luganese piuttosto che il palermitano, non foss'altro perché questi abita venti volte più distante del primo.
Quindi direi che il criterio che dovrebbe fare la differenza per giudicare -non tanto della legittimità quanto- dell'opportunità di questa pratica commerciale è proprio l'esistenza in capo al gestore dell'interesse ad assicurarsi, almeno in via potenziale, un nuovo cliente abituale. Dove tale interesse non è ravvisabile, credo che la pratica dell'andar fuori listino sia censurabile, mentre negli altri casi non vi vedo nulla da ridire.
lunedì 31 agosto 2009
Pier Ferdinando mi legge
Lo so che queste sono cose che sono gestite dalle segreterie, e che il PEDSCNEAANDAD ha ben altre cose da fare che interessarsi ai miei microgrammi di saggezzapensiero.
Sta di fatto che ricevere notifiche come questa ti danno un buon motivo per interrompere per qualche attimo lo studio del mercato dell'energia idroelettrica in Italia; e devo confessare che alla fin fine preferisco PierFerdinando che Tonino o, Dio ce ne scampi, l'Innominabile.
La pensiamo diversamente sul 90% degli argomenti, ma lui mi sembra assai più dignitoso.
*Principale Esponente Dello Schieramento Che Non E' Avverso A Nessuno Degli Altri Due
Sta di fatto che ricevere notifiche come questa ti danno un buon motivo per interrompere per qualche attimo lo studio del mercato dell'energia idroelettrica in Italia; e devo confessare che alla fin fine preferisco PierFerdinando che Tonino o, Dio ce ne scampi, l'Innominabile.
La pensiamo diversamente sul 90% degli argomenti, ma lui mi sembra assai più dignitoso.
*Principale Esponente Dello Schieramento Che Non E' Avverso A Nessuno Degli Altri Due
mercoledì 26 agosto 2009
TK e WV
TK e WV non sono gli ultimi ritrovati di qualche oscuro guru statunitense per sottrarre tempo alla nostra produttività, sulla falsariga di FF, FB e via discorrendo.
TK è Ted Kennedy: tutti i telegiornali e i quotidiani online ne stanno parlando e domani potremo leggere anche i coccodrilli stampati nero su bianco.
Io non ho nulla da dire, ma mi ha colpito -e commosso- quanto ha scritto Krugman sul suo blog, che mi limito a copincollare qui, senza ulteriori commenti
Veniamo a WV. Sapete bene quale sia la mia opinione sul personaggio: e per questo farete un balzo sulla sedia quando vi dirò che oggi ho letto una cosa che me l'ha fatto risultare simpatico.
Sembra incredibile, lo so; e se aggiungo che ciò avviene in contemporanea con la pubblicazione del nuovo romanzo (vabbe', romanzo si fa per dire, ovviamente) il vostro stupore aumenterà. In quest'impresa impossibile è riuscito Antonio Polito, con un articolo sul Riformista dal titolo Il Noi di Veltroni e il Super-Ego di Berlusconi, che vi consiglio caldamente di leggere se anche voi volete passare un momento di serenità o meditate, chessò, un viaggio in Africa.
TK è Ted Kennedy: tutti i telegiornali e i quotidiani online ne stanno parlando e domani potremo leggere anche i coccodrilli stampati nero su bianco.
Io non ho nulla da dire, ma mi ha colpito -e commosso- quanto ha scritto Krugman sul suo blog, che mi limito a copincollare qui, senza ulteriori commenti
I don’t have much to say, except a personal thought. I remember the days, several decades ago, when Ted Kennedy was treated — mainly, but not only, on the right — as a figure of derision. He was mocked for his appearance, his personal life, his unabashed liberalism.
And now he’s remembered as a great man. The thing is, he didn’t change — he always was.
Veniamo a WV. Sapete bene quale sia la mia opinione sul personaggio: e per questo farete un balzo sulla sedia quando vi dirò che oggi ho letto una cosa che me l'ha fatto risultare simpatico.
Sembra incredibile, lo so; e se aggiungo che ciò avviene in contemporanea con la pubblicazione del nuovo romanzo (vabbe', romanzo si fa per dire, ovviamente) il vostro stupore aumenterà. In quest'impresa impossibile è riuscito Antonio Polito, con un articolo sul Riformista dal titolo Il Noi di Veltroni e il Super-Ego di Berlusconi, che vi consiglio caldamente di leggere se anche voi volete passare un momento di serenità o meditate, chessò, un viaggio in Africa.
Terra Mia
Come ben sapete, qui si farebbero anche le marchette, però nessuno viene a proporcele. Pertanto, se vi dico che da Terra Mia (via Sebenico, 24, zona Isola) si mangia un porcetto gustosissimo e cotto alla perfezione, tenetelo per vero. Se poi ci mettessero le patate al forno invece di quelle fritte, meriterebbero un premio.
Ieri però, appena qualche piano più sopra, ho trascorso una serata piacevolissima gustando una cena di pesce deliziosa: ma non era un locale pubblico bensì la casa di una blogger alla quale volevo lasciare quest'attestato di stima.
Ieri però, appena qualche piano più sopra, ho trascorso una serata piacevolissima gustando una cena di pesce deliziosa: ma non era un locale pubblico bensì la casa di una blogger alla quale volevo lasciare quest'attestato di stima.
Il caffè di via dei Mercanti
Ci sono anime belle le quali credono che la stampa professionale non abbia più ragion d'essere, atteso che ora il web duepuntozero consente di creare le notizie dal basso senza il filtro dei perfidi editori. Costoro dovrebbero riflettere sul fatto che ad agosto, quando i quotidiani si riempiono di puttanate, le reti sociali sono altrettanto piene di puttanate, perlopiù le medesime proposte dalla stampa "vera".
Tra queste spicca, almeno per me, la polemica che più estiva non si potrebbe sugli scontrini dei bar milanesi: credo sappiate tutti benissimo di che si tratta, ma metto un link e un'immagine giusto perché tra due giorni nessuno si ricorderà più di questa cazzata.
La questione è questa: sembra che ci siano dei bar che a seconda dell'aspetto ti fanno pagare più (se sembri un turista) o meno (se sembri un impiegato milanese): e ciò è fonte di grande scandalo.
Allora: la prima cosa è di capire se il bar ha caricato indebitamente il "turista" e fatto il prezzo di listino al "milanese", o al contrario ha applicato al "turista" il prezzo pieno e ridotto arbitrariamente il medesimo al "milanese". Poc'anzi sono andato in via dei Mercanti (che da qui non è un gran viaggio) e mi sono guardato il listino dei prezzi: cosa tutt'altro che difficile, dato che sta esposto lì fuori ed è grande come un letto a due piazze, o poco meno. Mi sono così accertato che effettivamente il panino che costa meno viene via a sei euri, e la bottiglietta d'acqua a tre euri e mezzo.
Prezzi pazzeschi (più il secondo che che il primo): ma o decidiamo di richiamare in carica Ferrer e il vicario di provvisione, o accettiamo il fatto che siamo in un'economia di libero mercato. Vi sembra scandaloso chiedere tre euri e mezzo per mezzo litro d'acqua? A me sembra più scandaloso spendere una milionata di vecchie lire per un telefonino che fa anche il computer ma su cui non puoi mettere i programmi che ti pare: ognuno ha le sue manie, e il mondo è bello perché vario.
Sta di fatto che a cinquanta metri da quel bar c'è una fontanella di acqua fresca e gratuita, e che se uno ha bisogno di un telefono che si limiti a telefonare, ce n'è in giro a venti euri, e funzionano benissimo; se poi vuoi fare il figo con gli amici, o sederti a rinfrescarti sotto uno dei più antichi monumenti della città, libero di farlo, ma non lamentarti.
Quindi: lo scontrino caro è corretto; e questo è un punto fondamentale, dacché il gestore sarebbe un vero furfante, se mettesse in vendita un panino a cinque euri e poi per isbaglio ne battesse sei.
Resta il fatto che al "milanese" i prezzi sono stati dimezzati. Ciò deve scandalizzarci? Io non sono minimamente turbato.
Il fatto è che nei bar dove vado a ristorarmi tra la fine del lavoro e l'ora di cena, io pago sempre meno del prezzo di listino: ed è una cosa del tutto naturale.
Quando entro per la prima volta in un nuovo bar e decido che quel posto diventerà il mio posto per l'aperitivo (succederà una volta ogni cinque anni, suppergiù): in quel momento il barista ha vinto un terno secco al lotto: perché si è assicurato una fonte sicura, continuativa e abbondante di guadagni rappresentati dallo smodato numero di consumazioni che di lì in poi verranno ordinate da me e quei pochi amici con cui mi accompagno. Ed è del tutto naturale che il gestore, dopo aver acceso un cero a San Medardo, protettore dei baristi, cerchi di ingraziarsi tale manna dal cielo proponendo a me e ai miei accoliti condizioni di favore: è il commercio, nulla più.
Conta qualcosa il fatto che "il mio barista" mi conosca benissimo e mi chiami la mattina di Natale per farmi gli auguri, mentre il gestore di Via Mercanti non conosca l'avventore bensì lo fiuti dall'aspetto? No, non conta per nulla. Sarebbe inammissibile se l'impiegato dell'anagrafe potesse decidere autonomamente se fare lo sconto sui bolli per la carta d'identità, o se il vigile potesse fare lo sconto sulla contravvenzione alle belle figliole; ma il barista, se decide di far pagare meno, ci mette solo e unicamente del suo: perché è un commerciante, non un sovkhozniko: e finché non truffa il prossimo caricando consumazioni farlocche o mettendo il dito sul piatto della bilancia, è libero di far ciò che più gli aggrada.
Aggiornamento: tanto per dare alla comunità un servizio degno di questo nome, ho fatto anche due foto ai listini: giusto per capire quanto sono visibili anche ad un presbite miope ed astigmatico. Le foto fanno schifo, ma io il telefonino ce l'ho per telefonare...
Tra queste spicca, almeno per me, la polemica che più estiva non si potrebbe sugli scontrini dei bar milanesi: credo sappiate tutti benissimo di che si tratta, ma metto un link e un'immagine giusto perché tra due giorni nessuno si ricorderà più di questa cazzata.
La questione è questa: sembra che ci siano dei bar che a seconda dell'aspetto ti fanno pagare più (se sembri un turista) o meno (se sembri un impiegato milanese): e ciò è fonte di grande scandalo.
Allora: la prima cosa è di capire se il bar ha caricato indebitamente il "turista" e fatto il prezzo di listino al "milanese", o al contrario ha applicato al "turista" il prezzo pieno e ridotto arbitrariamente il medesimo al "milanese". Poc'anzi sono andato in via dei Mercanti (che da qui non è un gran viaggio) e mi sono guardato il listino dei prezzi: cosa tutt'altro che difficile, dato che sta esposto lì fuori ed è grande come un letto a due piazze, o poco meno. Mi sono così accertato che effettivamente il panino che costa meno viene via a sei euri, e la bottiglietta d'acqua a tre euri e mezzo.
Prezzi pazzeschi (più il secondo che che il primo): ma o decidiamo di richiamare in carica Ferrer e il vicario di provvisione, o accettiamo il fatto che siamo in un'economia di libero mercato. Vi sembra scandaloso chiedere tre euri e mezzo per mezzo litro d'acqua? A me sembra più scandaloso spendere una milionata di vecchie lire per un telefonino che fa anche il computer ma su cui non puoi mettere i programmi che ti pare: ognuno ha le sue manie, e il mondo è bello perché vario.
Sta di fatto che a cinquanta metri da quel bar c'è una fontanella di acqua fresca e gratuita, e che se uno ha bisogno di un telefono che si limiti a telefonare, ce n'è in giro a venti euri, e funzionano benissimo; se poi vuoi fare il figo con gli amici, o sederti a rinfrescarti sotto uno dei più antichi monumenti della città, libero di farlo, ma non lamentarti.
Quindi: lo scontrino caro è corretto; e questo è un punto fondamentale, dacché il gestore sarebbe un vero furfante, se mettesse in vendita un panino a cinque euri e poi per isbaglio ne battesse sei.
Resta il fatto che al "milanese" i prezzi sono stati dimezzati. Ciò deve scandalizzarci? Io non sono minimamente turbato.
Il fatto è che nei bar dove vado a ristorarmi tra la fine del lavoro e l'ora di cena, io pago sempre meno del prezzo di listino: ed è una cosa del tutto naturale.
Quando entro per la prima volta in un nuovo bar e decido che quel posto diventerà il mio posto per l'aperitivo (succederà una volta ogni cinque anni, suppergiù): in quel momento il barista ha vinto un terno secco al lotto: perché si è assicurato una fonte sicura, continuativa e abbondante di guadagni rappresentati dallo smodato numero di consumazioni che di lì in poi verranno ordinate da me e quei pochi amici con cui mi accompagno. Ed è del tutto naturale che il gestore, dopo aver acceso un cero a San Medardo, protettore dei baristi, cerchi di ingraziarsi tale manna dal cielo proponendo a me e ai miei accoliti condizioni di favore: è il commercio, nulla più.
Conta qualcosa il fatto che "il mio barista" mi conosca benissimo e mi chiami la mattina di Natale per farmi gli auguri, mentre il gestore di Via Mercanti non conosca l'avventore bensì lo fiuti dall'aspetto? No, non conta per nulla. Sarebbe inammissibile se l'impiegato dell'anagrafe potesse decidere autonomamente se fare lo sconto sui bolli per la carta d'identità, o se il vigile potesse fare lo sconto sulla contravvenzione alle belle figliole; ma il barista, se decide di far pagare meno, ci mette solo e unicamente del suo: perché è un commerciante, non un sovkhozniko: e finché non truffa il prossimo caricando consumazioni farlocche o mettendo il dito sul piatto della bilancia, è libero di far ciò che più gli aggrada.
Aggiornamento: tanto per dare alla comunità un servizio degno di questo nome, ho fatto anche due foto ai listini: giusto per capire quanto sono visibili anche ad un presbite miope ed astigmatico. Le foto fanno schifo, ma io il telefonino ce l'ho per telefonare...
martedì 25 agosto 2009
Il bue mostra le corna all'asino e lo dileggia
Ier sera, intento alla bevuta di una fresca birra, la mia attenzione è stata catturata d'improvviso dall'apparecchio radiotelevisivo, sintonizzato sul terzo canale: andava in onda un servizio che dava conto, in termini angosciati, di quanto poco gli studenti italiani siano a proprio agio con la grammatica della nostra lingua; e si portavano esempi concreti, quali le espressioni «un'altro» «qual'è» e rinvenute, a quanto ho potuto comprendere, nei test di ammissione all'università (e confesso che ciò un poco mi ha sorpreso, dacché tali test, per quanto ne so, vengono fatti ben più tardi che a Ferragosto).
Il servizio in questione, se ne avete desiderio, lo trovate qui, al minuto 22. Un analogo servizio è andato in onda sul telegiornale ammiraglio, e lo trovate qui: ma non si fa cenno al famigerato «qual'è», bensì solo a «un'altro».
Orbene: che i telegiornalisti nazionali osino parlare di grammatica è cosa che desta ilarità, più che scandalo; e l'autrice del servizio, tale Roberta Badaloni (figlia d'arte?!?), che pure dato l'argomento scottante deve aver posto una certa particolare attenzione al proprio eloquio, è riuscita in un minutino scarso a dire: "non alle elementari ma tra le ggiovani matricole univerzitarie" e "corzi di recupero estivi".
Ma sono infondo peccati veniali: Mariagrazia Fiorani, al TG3, dopo essersi scagliata, tronfia, contro quel qual'è si permette di discettare sulle «doppie concordanze di generi e numero, di pura fantasia»: espressione che, oltre al non avere alcun significato, contiene almeno un grave strafalcione (per usare un'espressione cara alla giornalista); oltre, ovviamente, ai "corzi di alfabetizzazione".
Ma vediamo ora un po' più da vicino questo benedetto «qual'è»: espressione che alle elementari si apprende di dover scrivere senz'apostrofo, trattandosi di troncamento e non di elisione. Durante le mie brevi vacanze montane ho trovato su una bancarella un libriccino di Franco Fochi, edito una quarantina di anni fa e intitolato L'italiano facile, contenente una miniera di informazioni, talune dimenticate e talune altre mai apprese in modo organico.
Vi si parla ovviamente anche di troncamenti e di elisioni, e in breve si illustra come l'elisione sia limitata alla vocale finale, mentre il troncamento possa aver luogo sull'intera sillaba; e come quella possa avvenire solo se la parola che segue inizia per vocale, laddove il troncamento si rinvenga ordinariamente anche se la parola che segue inizia per consonante, con la notevole eccezione della "S" impura e della "Z" (e anche vocale, per talune parole quali "grande" o "santo"). E così: gran caldo, gran biscotto, buon diavolo, buon appetito, signor Gino, signor Aldo, san Sisto; ma: buono sfizio, signore Zeffirino, grand'appartamento, santo Stefano, sant'Anselmo.
Il Fochi dedica un capitoletto al troncamento di «quale», propugnando la tesi (che riconosce non ortodossa: ma non per questo ci piace di meno) che tale supposto troncamento sia del tutto desueto nell'italiano odierno (odierno per lui, che scriveva quando io neppur avevo iniziato a compitare): e a riprova di ciò adduce il fatto che nessuno ormai adopera più forme come "qual fu", "qual sia"; "qual fosse": che francamente anche a noi integralisti manzoniani appaiono desuete tanto quanto la "r" eufonica di "sur un tavolino".
La forma troncata resiste al più in un paio d'espressioni idiomatiche: "qual buon vento", "per la qual cosa"; ma nessuno oserebbe dire "qual buon affare", "qual cosa hai visto?" o "qual novità mi rechi!" se non con addosso una vecchia zimarra, sur un palcoscenico teatrale.
E perciò, adduce il Fochi, abbandoniamo questo retaggio ottocentesco, e lasciamo che accanto alla forma canonica "qual è" si possa pure scrivere "qual'è", conformemente a quanto la logica e la semplicità imporrebbero: e magari preferire quest'ultima forma, perché no, sia pure senza pretendere che l'altra costituisca un errore.
Il servizio in questione, se ne avete desiderio, lo trovate qui, al minuto 22. Un analogo servizio è andato in onda sul telegiornale ammiraglio, e lo trovate qui: ma non si fa cenno al famigerato «qual'è», bensì solo a «un'altro».
Orbene: che i telegiornalisti nazionali osino parlare di grammatica è cosa che desta ilarità, più che scandalo; e l'autrice del servizio, tale Roberta Badaloni (figlia d'arte?!?), che pure dato l'argomento scottante deve aver posto una certa particolare attenzione al proprio eloquio, è riuscita in un minutino scarso a dire: "non alle elementari ma tra le ggiovani matricole univerzitarie" e "corzi di recupero estivi".
Ma sono infondo peccati veniali: Mariagrazia Fiorani, al TG3, dopo essersi scagliata, tronfia, contro quel qual'è si permette di discettare sulle «doppie concordanze di generi e numero, di pura fantasia»: espressione che, oltre al non avere alcun significato, contiene almeno un grave strafalcione (per usare un'espressione cara alla giornalista); oltre, ovviamente, ai "corzi di alfabetizzazione".
Ma vediamo ora un po' più da vicino questo benedetto «qual'è»: espressione che alle elementari si apprende di dover scrivere senz'apostrofo, trattandosi di troncamento e non di elisione. Durante le mie brevi vacanze montane ho trovato su una bancarella un libriccino di Franco Fochi, edito una quarantina di anni fa e intitolato L'italiano facile, contenente una miniera di informazioni, talune dimenticate e talune altre mai apprese in modo organico.
Vi si parla ovviamente anche di troncamenti e di elisioni, e in breve si illustra come l'elisione sia limitata alla vocale finale, mentre il troncamento possa aver luogo sull'intera sillaba; e come quella possa avvenire solo se la parola che segue inizia per vocale, laddove il troncamento si rinvenga ordinariamente anche se la parola che segue inizia per consonante, con la notevole eccezione della "S" impura e della "Z" (e anche vocale, per talune parole quali "grande" o "santo"). E così: gran caldo, gran biscotto, buon diavolo, buon appetito, signor Gino, signor Aldo, san Sisto; ma: buono sfizio, signore Zeffirino, grand'appartamento, santo Stefano, sant'Anselmo.
Il Fochi dedica un capitoletto al troncamento di «quale», propugnando la tesi (che riconosce non ortodossa: ma non per questo ci piace di meno) che tale supposto troncamento sia del tutto desueto nell'italiano odierno (odierno per lui, che scriveva quando io neppur avevo iniziato a compitare): e a riprova di ciò adduce il fatto che nessuno ormai adopera più forme come "qual fu", "qual sia"; "qual fosse": che francamente anche a noi integralisti manzoniani appaiono desuete tanto quanto la "r" eufonica di "sur un tavolino".
La forma troncata resiste al più in un paio d'espressioni idiomatiche: "qual buon vento", "per la qual cosa"; ma nessuno oserebbe dire "qual buon affare", "qual cosa hai visto?" o "qual novità mi rechi!" se non con addosso una vecchia zimarra, sur un palcoscenico teatrale.
E perciò, adduce il Fochi, abbandoniamo questo retaggio ottocentesco, e lasciamo che accanto alla forma canonica "qual è" si possa pure scrivere "qual'è", conformemente a quanto la logica e la semplicità imporrebbero: e magari preferire quest'ultima forma, perché no, sia pure senza pretendere che l'altra costituisca un errore.
lunedì 24 agosto 2009
Il Post sotto la Goccia
Lunedì scorso, dopo aver passeggiato le abetaie per una decina di giorni, me ne son tornato bel bello a Milano dove, come mi ero riproposto, ho iniziato la ridipintura della casa, la quale ne sentiva il bisogno da ormai troppi anni.
L'impresa mi terrorizzava, apparendomi più che titanica per una serie di fattori, che vi elencherò compiutamente.
Anzitutto, la vastità della superficie da pitturare: sembra incredibile come una casa che, per quanto decorosa, ti è sempre apparsa appena appena sufficiente per le tue esigenze, e ciò solo grazie alla tua indole minimalista; quella stessa casa, al momento di mettere mani ai secchi di vernice, assuma proporzioni sardanapalesche.
Vi è poi la sterminata mole di oggetti in essa contenuti: e in particolare nella cameretta di Nichita. Il radunare in maniera razionale tutti gli oggettini, ivi compreso qualche milione di pezzi di Lego, mi ha anche dato l'idea di quanti soldi siano statibuttati in cazzateinvestiti in sussidi pedagogici atti a garantire la sana ed equilibrata crescita del pupo: il quale ha compiuto dieci anni e quindi è ormai pronto per andare a lavorare in miniera o in fucina qualche ora al giorno per cominciare a ripagare il proprio debito nei miei confronti.
La cosa più difficile da affrontare è stata la consapevolezza della difficoltà tecnica dell'opera: tutti crediamo di essere in grado di prendere un pennello o un rullo in mano, ma tutti abbiamo visto, almeno da studenti, una casa o una stanza imbiancata-fai-da-te, con quelle strisce più chiare o più scure che non solo non dovrebbero esserci, ma sono pure tutte stortignaccole; quelle chiazze di colore che sembrano un cattivo rattoppo del vestito d'Arlecchino e quelle gocce di pittura rappresa che a me ricordano sempre le paratie dei traghetti che fanno servizio interno tra le isole minori delle Cicladi. Ma alla fin fine mi sono detto che se ci era riuscito Antonio Albanese, a riconvertirsi come imbianchino, non c'era motivo per cui non dovessi farcela io.
Un tentativo di applicare i principi di Project Management è miseramente fallito: uno può fare il PM per costruire una diga o una centrale nucleare, se ha un minimo di esperienza di dighe o attingendo alle fonti in letteratura: ma non c'è alcun testo che spieghi quali sono i passi che dovrai compiere prima di avere la prima parete pittata, né quanto ci metterai: e in cuor tuo senti che ci vorrà molto più di quanto le tue più pessimistiche previsioni ti suggeriscano.
La stessa dose di fiducia può essere attribuita alla scritta "resa" sulla latta di vernice. Immaginate di esservi riproposti di pittare dapprima una stanza 3*4 e un disimpegno 2.5*2: basta fare due conti per vedere che, tra pareti e soffitto, fanno [3*4+2.5*2+((3+4)*2+(2.5+2)*2)*3]=86 mq, che poi sono in realtà molti meno in quanto la formula non tiene conto di sei porte e una finestra. E' quindi naturale pensare che una latta che dichiara una "resa" di 154 mq sia oltremodo sufficiente alla bisogna: ed è con un certo sconforto che alla fine della prima stanza, scrutando quei due centimetri scarsi di pittura rimasti in fondo al secchio, ci si rende conto che l'attendibilità di quei «154 mq» è dello stesso ordine di grandezza di quella del TG1 minzoliniano quando parla dei successi del PresConsMin.
Comunque, ho preso il toro per le corna e ho affrontato l'opera: sapevo da dove sarei partito ma non dove sarei arrivato, prevedendo fin dall'inizio che mal che andasse avrei fatto solo il pezzo di casa che sarei riuscito a fare e mi sarei fermato in modo da avere tutta la domenica di riposo, e non solo per motivi religiosi.
La prima stanza è stata un disastro: in pratica l'ho rifatta tre volte, e non è venuta 'sto granché bene; ma pian pianino ho cominciato ad imparare una quantità di trucchi e cose pratiche che nessuno riuscirà mai a spiegarti compiutamente e che bisogna imparare sulla propria pelle (un po' come per il corteggiamento!): e così alla fin fine, dopo un incalcolabile numero di viaggi al megastore del faidate e un innumerevole numero di muscoli doloranti, ci sono riuscito.
Resta un dubbio sul colore: il salone infatti l'ho fatto aggiungendo a una latta intera un 2/3 di flacone di colorante giallo canarino, e il risultato dovrebbe essere una tonalità burrosa abbastanza calda. Nichita voleva la camera verde: e ho aggiunto a un po' meno di una latta un intero flacone di colorante verde, ottenendo un colore che sarà certo verde, ma che io vedo praticamente bianco freddo dato il mio daltonismo. Aspetto di sapere che ne penserà quando tornerà dalla montagna, fermo restando che qual colore dovrà andargli a genio almeno per 6-7 anni, salvo che non decida di prendere lui il pennello in mano, spostarsi tutti i mobili e ricoprire tutto di plastica prima della scadenza di tale termine.
L'impresa mi terrorizzava, apparendomi più che titanica per una serie di fattori, che vi elencherò compiutamente.
Anzitutto, la vastità della superficie da pitturare: sembra incredibile come una casa che, per quanto decorosa, ti è sempre apparsa appena appena sufficiente per le tue esigenze, e ciò solo grazie alla tua indole minimalista; quella stessa casa, al momento di mettere mani ai secchi di vernice, assuma proporzioni sardanapalesche.
Vi è poi la sterminata mole di oggetti in essa contenuti: e in particolare nella cameretta di Nichita. Il radunare in maniera razionale tutti gli oggettini, ivi compreso qualche milione di pezzi di Lego, mi ha anche dato l'idea di quanti soldi siano stati
La cosa più difficile da affrontare è stata la consapevolezza della difficoltà tecnica dell'opera: tutti crediamo di essere in grado di prendere un pennello o un rullo in mano, ma tutti abbiamo visto, almeno da studenti, una casa o una stanza imbiancata-fai-da-te, con quelle strisce più chiare o più scure che non solo non dovrebbero esserci, ma sono pure tutte stortignaccole; quelle chiazze di colore che sembrano un cattivo rattoppo del vestito d'Arlecchino e quelle gocce di pittura rappresa che a me ricordano sempre le paratie dei traghetti che fanno servizio interno tra le isole minori delle Cicladi. Ma alla fin fine mi sono detto che se ci era riuscito Antonio Albanese, a riconvertirsi come imbianchino, non c'era motivo per cui non dovessi farcela io.
Un tentativo di applicare i principi di Project Management è miseramente fallito: uno può fare il PM per costruire una diga o una centrale nucleare, se ha un minimo di esperienza di dighe o attingendo alle fonti in letteratura: ma non c'è alcun testo che spieghi quali sono i passi che dovrai compiere prima di avere la prima parete pittata, né quanto ci metterai: e in cuor tuo senti che ci vorrà molto più di quanto le tue più pessimistiche previsioni ti suggeriscano.
La stessa dose di fiducia può essere attribuita alla scritta "resa" sulla latta di vernice. Immaginate di esservi riproposti di pittare dapprima una stanza 3*4 e un disimpegno 2.5*2: basta fare due conti per vedere che, tra pareti e soffitto, fanno [3*4+2.5*2+((3+4)*2+(2.5+2)*2)*3]=86 mq, che poi sono in realtà molti meno in quanto la formula non tiene conto di sei porte e una finestra. E' quindi naturale pensare che una latta che dichiara una "resa" di 154 mq sia oltremodo sufficiente alla bisogna: ed è con un certo sconforto che alla fine della prima stanza, scrutando quei due centimetri scarsi di pittura rimasti in fondo al secchio, ci si rende conto che l'attendibilità di quei «154 mq» è dello stesso ordine di grandezza di quella del TG1 minzoliniano quando parla dei successi del PresConsMin.
Comunque, ho preso il toro per le corna e ho affrontato l'opera: sapevo da dove sarei partito ma non dove sarei arrivato, prevedendo fin dall'inizio che mal che andasse avrei fatto solo il pezzo di casa che sarei riuscito a fare e mi sarei fermato in modo da avere tutta la domenica di riposo, e non solo per motivi religiosi.
La prima stanza è stata un disastro: in pratica l'ho rifatta tre volte, e non è venuta 'sto granché bene; ma pian pianino ho cominciato ad imparare una quantità di trucchi e cose pratiche che nessuno riuscirà mai a spiegarti compiutamente e che bisogna imparare sulla propria pelle (un po' come per il corteggiamento!): e così alla fin fine, dopo un incalcolabile numero di viaggi al megastore del faidate e un innumerevole numero di muscoli doloranti, ci sono riuscito.
Resta un dubbio sul colore: il salone infatti l'ho fatto aggiungendo a una latta intera un 2/3 di flacone di colorante giallo canarino, e il risultato dovrebbe essere una tonalità burrosa abbastanza calda. Nichita voleva la camera verde: e ho aggiunto a un po' meno di una latta un intero flacone di colorante verde, ottenendo un colore che sarà certo verde, ma che io vedo praticamente bianco freddo dato il mio daltonismo. Aspetto di sapere che ne penserà quando tornerà dalla montagna, fermo restando che qual colore dovrà andargli a genio almeno per 6-7 anni, salvo che non decida di prendere lui il pennello in mano, spostarsi tutti i mobili e ricoprire tutto di plastica prima della scadenza di tale termine.
venerdì 7 agosto 2009
Il Post sotto l'Abete
Non è che Sir Squonk abbia deciso di inserirmi nella punta più acuminata del BlogoCono e che quindi d'ora in poi possa aspettarmi decine di FedEx e UPS in portineria con telefonini, netbook, marmellate biologiche e quant'altro fa geek di tendenza.
Semplicemente, la Banca chiude, io sono obbligato a prendermi quindici giorni consecutivi di ferie e me ne vado in montagna con Nichita, da mia madre, dove farò passeggiate nelle abetaie e mangerò la polenta e il coniglio o le salamelle.
Già da tempo il mio capo era tornato alla carica con la profferta di un telefono aziendale, che ho per l'ennesima volta rifiutato; ora voleva che mi portassi dietro una chiavetta UMTS, ma scuotendo pensosamente la testa gli ho detto che lassù, ahimé, non c'è copertura.
Nell'improbabile caso in cui la mamma di Nichita dovesse decidere di portarlo con lei una settimana, questo post verrà sostituito da "Il Post sotto la Goccia", dato che ne approfitterò per rientrare nella bella e ridente metropoli e ridipingere le pareti di casa.
E con ciò, ri-buone vacanze a tutti.
Semplicemente, la Banca chiude, io sono obbligato a prendermi quindici giorni consecutivi di ferie e me ne vado in montagna con Nichita, da mia madre, dove farò passeggiate nelle abetaie e mangerò la polenta e il coniglio o le salamelle.
Già da tempo il mio capo era tornato alla carica con la profferta di un telefono aziendale, che ho per l'ennesima volta rifiutato; ora voleva che mi portassi dietro una chiavetta UMTS, ma scuotendo pensosamente la testa gli ho detto che lassù, ahimé, non c'è copertura.
Nell'improbabile caso in cui la mamma di Nichita dovesse decidere di portarlo con lei una settimana, questo post verrà sostituito da "Il Post sotto la Goccia", dato che ne approfitterò per rientrare nella bella e ridente metropoli e ridipingere le pareti di casa.
E con ciò, ri-buone vacanze a tutti.
giovedì 6 agosto 2009
L'account su Facebook
Qualche giorno fa ho chiuso l'account su Facebook: e questa è una non-notizia, dato che oramai è molto più trendy chiuderlo, l'account, piuttosto che aprirlo.
Ci sono però due o tre motivi che valgono forse la pena di essere sciorinati, complice anche il fatto che in questo giovedì agostano la mail da Berlino che sto aspettando non arriva, e quindi ho -per ora- ben poco da fare.
Devo dapprima precisare che l'account aveva una quarantina di amici: tutta gente conosciuta, non pigs&dogs, e che è sempre rimaso praticamente inutilizzato: con gli amici che vedo ogni giorno o quasi non c'era motivo di scambiarsi lepidezze via Facebook, e con quelli che non vedo mai non c'era nulla da dirsi.
Così come tanti account aperti e dimenticati, però, anche quello avrebbe ben potuto starsene lì, silente: anche perché la mia privacy credo di saperla difendere abbastanza bene, e quindi non è che avessi grandi timori che qualcuno potesse scoprire più del fatto che sono nato d'Agosto e che ho una vita sentimentale un po' complicata.
Il primo dubbio mi è venuto quando è morto quel povero ragazzo, in Afghanistan, e i principali quotidiani non hanno saputo far di meglio che raccontare all'opinione pubblica i particolari tratti dal suo profilo su FB e i gruppi cui era iscritto. Mi sono detto che nel deprecabile caso che fossi perito in un attentato, mi sarei dispiaciuto se quelle quindici righe di notorietà conquistatemi nella vita (vabbe', non facciamo i sofistici), e non per merito mio, fossero state riempite con il nome di alcuni ex compagni di liceo di cui non mi frega una sega e con l'unico gruppo cui ero iscritto.
Già: perché il gruppo in questione era una roba tipo "Agosto, Milano: solitudine e disperazione"; una scusa per girare la città con quei pochi reduci del mese del Leone e sbevazzare in compagnia, ma che certo i guru della carta stampata avrebbero interpretato come un segnale di depressione e tendenze suicide. E magari qualcuno avrebbe potuto ventilare l'ipotesi che l'attentatore dinamitardo fossi in realtà io, notorio squilibrato mentale.
Una prospettiva sgradevole, insomma: tanto più che -come ovvio per chi un po' mi conosce- io neppure a uno solo di quegli aperitivi non sono mai andato, dato che la desertificazione della città non è per me certo motivo sufficiente per bere anche solo un chinotto con un perfetto sconosciuto.
Il secondo motivo, che mi ha fatto prendere la decisione finale, con relativa pressione virtuale del tasto "cancellami" (e spunta sulla casellina "perché questa roba è per me perfettamente inutile") sta in questa frase
Veniamo al terzo motivo, che non è un motivo bensì la mera narrazione di un fatto accaduto successivamente. Come sapete, sulla via del ritorno dalle vacanze in Sardegna ho fatto tappa a Lucca; tra i motivi di ciò vi erano: la gradevolezza della cittadina, dal punto di vista architettonico e climatico; il desiderio di farla vedere a Nichita; la mostra Arte del quotidiano alla Fondazione Ragghianti.
Non era del tutto estraneo alla decisione l'essere venuto da tempo a conoscenza del fatto che una mia ex fidanzata (la prima ex fidanzata, per la precisione, e quella che certo mi ha fatto più soffrire quando mi ha mollato in asso) dopo aver passato vari lustri all'estero si era stabilita nella cittadina, con famiglia, e il desiderio di rivederla dopo tanto tempo. Sapendo che vi aveva aperto un negozio, ho quindi compiuto una diversione nel passeggio e vi sono entrato.
Consideravo infime le probabilità di trovarvela: ritenevo infatti che a fine luglio una mamma di due figli se ne vada in vacanza con loro, lasciando il marito a sbrigare gli affari con la clientela. Nell'improbabile caso in cui vi fosse stata, consideravo inoltre poco probabile che mi riconoscesse immediatamente, dato che venti e passa anni lasciano segni importanti sul fisico e sul volto.
Ed invece, non solo c'era, ma mi ha anche riconosciuto quasi prima che la riconoscessi io, e si è anche sciolta in lacrimoni. Le ho presentato Nichita, mentre i suoi figli erano in America, a trovare i nonni paterni (motivo per il quale lei era in negozio); ci siamo poi dati appuntamento per il pranzo e abbiamo passato insieme un paio d'ore gradevolissime (senza doppi sensi), come succede tra chi si è molto amato, quanto le ferite sono ormai non solo cicatrizzate ma perfino se ne è perso il ricordo.
A posteriori mi sono chiesto cosa sarebbe successo se ci fossimo ritrovati su Facebook: iniziale sorpresa; convenevoli; complimenti reciproci; scambio di foto di bambini; come vanno le cose?; come sta XXX?; ti ricordi quando...?; eh ssì bei tempi; mfisk ti ha invitato a iscriverti al gruppo "quelli che si sono bagnati quando ha piovuto il 25 maggio 1986"; «ignore».
Mi sarei perso una splendida occasione: fortuna che così non è stato.
Ci sono però due o tre motivi che valgono forse la pena di essere sciorinati, complice anche il fatto che in questo giovedì agostano la mail da Berlino che sto aspettando non arriva, e quindi ho -per ora- ben poco da fare.
Devo dapprima precisare che l'account aveva una quarantina di amici: tutta gente conosciuta, non pigs&dogs, e che è sempre rimaso praticamente inutilizzato: con gli amici che vedo ogni giorno o quasi non c'era motivo di scambiarsi lepidezze via Facebook, e con quelli che non vedo mai non c'era nulla da dirsi.
Così come tanti account aperti e dimenticati, però, anche quello avrebbe ben potuto starsene lì, silente: anche perché la mia privacy credo di saperla difendere abbastanza bene, e quindi non è che avessi grandi timori che qualcuno potesse scoprire più del fatto che sono nato d'Agosto e che ho una vita sentimentale un po' complicata.
Il primo dubbio mi è venuto quando è morto quel povero ragazzo, in Afghanistan, e i principali quotidiani non hanno saputo far di meglio che raccontare all'opinione pubblica i particolari tratti dal suo profilo su FB e i gruppi cui era iscritto. Mi sono detto che nel deprecabile caso che fossi perito in un attentato, mi sarei dispiaciuto se quelle quindici righe di notorietà conquistatemi nella vita (vabbe', non facciamo i sofistici), e non per merito mio, fossero state riempite con il nome di alcuni ex compagni di liceo di cui non mi frega una sega e con l'unico gruppo cui ero iscritto.
Già: perché il gruppo in questione era una roba tipo "Agosto, Milano: solitudine e disperazione"; una scusa per girare la città con quei pochi reduci del mese del Leone e sbevazzare in compagnia, ma che certo i guru della carta stampata avrebbero interpretato come un segnale di depressione e tendenze suicide. E magari qualcuno avrebbe potuto ventilare l'ipotesi che l'attentatore dinamitardo fossi in realtà io, notorio squilibrato mentale.
Una prospettiva sgradevole, insomma: tanto più che -come ovvio per chi un po' mi conosce- io neppure a uno solo di quegli aperitivi non sono mai andato, dato che la desertificazione della città non è per me certo motivo sufficiente per bere anche solo un chinotto con un perfetto sconosciuto.
Il secondo motivo, che mi ha fatto prendere la decisione finale, con relativa pressione virtuale del tasto "cancellami" (e spunta sulla casellina "perché questa roba è per me perfettamente inutile") sta in questa frase
Una cassetta d'acciughe lasciata al soleche i lettori appassionati di Livornocronaca avranno immediatamente riconosciuto.
Veniamo al terzo motivo, che non è un motivo bensì la mera narrazione di un fatto accaduto successivamente. Come sapete, sulla via del ritorno dalle vacanze in Sardegna ho fatto tappa a Lucca; tra i motivi di ciò vi erano: la gradevolezza della cittadina, dal punto di vista architettonico e climatico; il desiderio di farla vedere a Nichita; la mostra Arte del quotidiano alla Fondazione Ragghianti.
Non era del tutto estraneo alla decisione l'essere venuto da tempo a conoscenza del fatto che una mia ex fidanzata (la prima ex fidanzata, per la precisione, e quella che certo mi ha fatto più soffrire quando mi ha mollato in asso) dopo aver passato vari lustri all'estero si era stabilita nella cittadina, con famiglia, e il desiderio di rivederla dopo tanto tempo. Sapendo che vi aveva aperto un negozio, ho quindi compiuto una diversione nel passeggio e vi sono entrato.
Consideravo infime le probabilità di trovarvela: ritenevo infatti che a fine luglio una mamma di due figli se ne vada in vacanza con loro, lasciando il marito a sbrigare gli affari con la clientela. Nell'improbabile caso in cui vi fosse stata, consideravo inoltre poco probabile che mi riconoscesse immediatamente, dato che venti e passa anni lasciano segni importanti sul fisico e sul volto.
Ed invece, non solo c'era, ma mi ha anche riconosciuto quasi prima che la riconoscessi io, e si è anche sciolta in lacrimoni. Le ho presentato Nichita, mentre i suoi figli erano in America, a trovare i nonni paterni (motivo per il quale lei era in negozio); ci siamo poi dati appuntamento per il pranzo e abbiamo passato insieme un paio d'ore gradevolissime (senza doppi sensi), come succede tra chi si è molto amato, quanto le ferite sono ormai non solo cicatrizzate ma perfino se ne è perso il ricordo.
A posteriori mi sono chiesto cosa sarebbe successo se ci fossimo ritrovati su Facebook: iniziale sorpresa; convenevoli; complimenti reciproci; scambio di foto di bambini; come vanno le cose?; come sta XXX?; ti ricordi quando...?; eh ssì bei tempi; mfisk ti ha invitato a iscriverti al gruppo "quelli che si sono bagnati quando ha piovuto il 25 maggio 1986"; «ignore».
Mi sarei perso una splendida occasione: fortuna che così non è stato.
martedì 4 agosto 2009
Stellone
Come alcuni affezionati lettori sanno, per qualche anno anziché mettere a frutto la mia laurea in giurisprudenza mi sono divertito a fare un po' di cose che c'entravano poco, fino a ritagliarmi una nicchia come amministratore di sistema nell'azienda per la quale lavoro.
Si trattava di un'attività che mi divertiva assai, anche perché essendo una realtà molto piccola, dal punto di vista delle macchine da gestire, mi consentiva di occuparmi di tutto, e quindi il lavoro era molto vario e c'era sempre qualcosa di nuovo da studiare e mettere in opera.
A un tratto i Grandi Capi del Gruppo decisero che la cosa non andava più bene, e pensarono di mettere tutti i rami d'azienda "ICT" delle varie società dentro un unico contenitore, formando una società che avrebbe erogato servizi a tutte le altre società.
All'inizio la cosa non mi dispiacque (strano, a posteriori, perché pensavo di non esser più tanto scemo, nel 2006); ma come cominciai a capire cosa stavano mettendo in piedi mi vennero i bordoni: da un lato in una simile realtà avrei dovuto occuparmi di una e una sola cosa (chessò: la configurazione dei firewall, o il deploy delle patch, per fare degli esempi), abbruttendomi in una noiosissima routine.
Per di più, l'assetto organizzativo che si andava a prospettare era contrario non solo alle più elementari regole di management, ma anche al mero buonsenso.
Fu solo grazie allo stellone che mi assiste nei momenti topici che riuscii a sfuggire a quella trappola, e a tornare a fare il lavoro che faccio ora: mestiere che avevo abbandonato in quanto insopportabilmente sempre uguale a sé stesso e che, per ulteriore colpo di fortuna, nel frattempo era notevolmente cambiato, divenendo interessante e divertente (ora è qui, che ho sempre qualcosa di nuovo da studiare).
Nel frattempo il carrozzone sul quale avrei dovuto salire si è fuso con un altro carrozzone, dando luogo a una società consortile di circa 1.000 persone.
Proprio in questi giorni ho letto che in occasione dell'ultima fusione era stato stipulato un accordo sindacale che prevedeva la possibilità per i dipendenti di chiedere (ma non necessariamente ottenere) il rientro nelle società di provenienza, e che dei miei (scampati) colleghi, un paio di centinaia nel frattempo si sono dimessi o sono stati riassorbiti nelle società operative del Gruppo.
Restano circa 800 e briscola dipendenti, e di questi circa 700 e briscola hanno chiesto il rientro. In pratica quindi solo un ottavo della forza lavoro è contento di stare dove sta, o perlomeno non vi sta peggio che nel posto da cui veniva.
Un bel risultato, non c'è che dire. E un grazie sentito a chi, lassù, ogni tanto dimostra di volermi bene.
Si trattava di un'attività che mi divertiva assai, anche perché essendo una realtà molto piccola, dal punto di vista delle macchine da gestire, mi consentiva di occuparmi di tutto, e quindi il lavoro era molto vario e c'era sempre qualcosa di nuovo da studiare e mettere in opera.
A un tratto i Grandi Capi del Gruppo decisero che la cosa non andava più bene, e pensarono di mettere tutti i rami d'azienda "ICT" delle varie società dentro un unico contenitore, formando una società che avrebbe erogato servizi a tutte le altre società.
All'inizio la cosa non mi dispiacque (strano, a posteriori, perché pensavo di non esser più tanto scemo, nel 2006); ma come cominciai a capire cosa stavano mettendo in piedi mi vennero i bordoni: da un lato in una simile realtà avrei dovuto occuparmi di una e una sola cosa (chessò: la configurazione dei firewall, o il deploy delle patch, per fare degli esempi), abbruttendomi in una noiosissima routine.
Per di più, l'assetto organizzativo che si andava a prospettare era contrario non solo alle più elementari regole di management, ma anche al mero buonsenso.
Fu solo grazie allo stellone che mi assiste nei momenti topici che riuscii a sfuggire a quella trappola, e a tornare a fare il lavoro che faccio ora: mestiere che avevo abbandonato in quanto insopportabilmente sempre uguale a sé stesso e che, per ulteriore colpo di fortuna, nel frattempo era notevolmente cambiato, divenendo interessante e divertente (ora è qui, che ho sempre qualcosa di nuovo da studiare).
Nel frattempo il carrozzone sul quale avrei dovuto salire si è fuso con un altro carrozzone, dando luogo a una società consortile di circa 1.000 persone.
Proprio in questi giorni ho letto che in occasione dell'ultima fusione era stato stipulato un accordo sindacale che prevedeva la possibilità per i dipendenti di chiedere (ma non necessariamente ottenere) il rientro nelle società di provenienza, e che dei miei (scampati) colleghi, un paio di centinaia nel frattempo si sono dimessi o sono stati riassorbiti nelle società operative del Gruppo.
Restano circa 800 e briscola dipendenti, e di questi circa 700 e briscola hanno chiesto il rientro. In pratica quindi solo un ottavo della forza lavoro è contento di stare dove sta, o perlomeno non vi sta peggio che nel posto da cui veniva.
Un bel risultato, non c'è che dire. E un grazie sentito a chi, lassù, ogni tanto dimostra di volermi bene.
Barricate
Mons. Luigi Negri intervenendo sulla questione della RU486 ha detto che
Né la Chiesa può tirare troppo la corda, con questo Governo, dato che il finanziamento surretizio delle scuole private, che la Gelmini sta costruendo smantellando qualunque credibilità della scuola pubblica, è un obiettivo troppo importante per il Vaticano.
Credo quindi che il Governo si limiterà a emanare una sacconata: una norma all'italiana che renderebbe in teoria oneroso l'uso della pillola negli ospedali, disponendo il ricovero di tre giorni, salvo lasciare la scappatoia della firma di dimissioni, rendendo così tutti felici e contenti.
Certo, se così non fosse, e la RU486 dovesse veramente essere proibita, sarebbe giunta l'ora di fare barricate. Con Ignazio Marino, probabile nuovo segretario del PD (perfino io a quel punto parteciperei alle primarie: e chissà quanti e quante militanti, indecisi tra Bersani e Franceschini, si marinizzerebbero), in testa.
«la Ru486 rivela la moralità teorizzata e praticata da quanti, in questi ultimi mesi, ci hanno riempito di chiacchiere sulla rilevanza pubblica di certi comportamenti privati», mentre «secondo la più autentica tradizione della Chiesa, mille incoerenze etiche non distruggono né il benessere, né la libertà del popolo», invece «un attacco violento contro la sacralità della vita, questo sì è un evento che devasta la nostra vita sociale» (qui sulla Stampa e un po' dovunque)Io non so se davvero si stia preparando un decreto per impedire l'utilizzo della RU486 sul territorio nazionale: c'è chi dice che sarebbe un tributo che Berlusconi pagherebbe alla Chiesa per far sì che la stessa si dimentichi dello scandalo delle puttane, ma secondo la mia opinione vietare la pillola attirerebbe molti più dissensi, specie dell'elettorato femminile, rispetto ai consensi che porterebbe il ritrovato accordo con la Chiesa.
Né la Chiesa può tirare troppo la corda, con questo Governo, dato che il finanziamento surretizio delle scuole private, che la Gelmini sta costruendo smantellando qualunque credibilità della scuola pubblica, è un obiettivo troppo importante per il Vaticano.
Credo quindi che il Governo si limiterà a emanare una sacconata: una norma all'italiana che renderebbe in teoria oneroso l'uso della pillola negli ospedali, disponendo il ricovero di tre giorni, salvo lasciare la scappatoia della firma di dimissioni, rendendo così tutti felici e contenti.
Certo, se così non fosse, e la RU486 dovesse veramente essere proibita, sarebbe giunta l'ora di fare barricate. Con Ignazio Marino, probabile nuovo segretario del PD (perfino io a quel punto parteciperei alle primarie: e chissà quanti e quante militanti, indecisi tra Bersani e Franceschini, si marinizzerebbero), in testa.
lunedì 3 agosto 2009
Lucca (e Livorno)
Per il ritorno dalla mia vacanza in Sardegna ho preso una nave che arrivava a Livorno a sera fatta.
Dato che Livorno, città peraltro piena di gente simpaticissima, non offre tutto 'sto granché al turista che voglia perdervi un giorno, specie se con pupo, ho deciso di mangiare lì e poi andare a dormire a Lucca.
Per la cena sono andato alla Cantina Senese, che dei livornesi mi avevano caldamente consigliato e dove mi sono trovato benissimo; certo, loro mi avevano detto di andare in Piazza Garibaldi anziché in Piazza Mazzini, errore veniale in quanto entrambi sono eroi risorgimentali e barbuti: probabilmente ciò deriva dal fatto che il livornese è uomo d'azione, e non gli piace stare a farsi tante pippe da intellettuale: quindi l'Eroe dei Due Mondi riscuote maggior simpatia.
Quanto a Lucca, me la ricordavo come una città carina e gradevole: ed è stata una piacevole sorpresa constatare che invece è proprio bella e simpatica.
Vi circolano più biciclette che in Olanda, c'è una densità di chiese maggiore che a Roma e una rilassatezza e un senso di agiatezza nel godersi la vita meglio che a Parma.
I lucchesi poi, quelli con cui mi sono relazionato, perlomeno, sono di una gentilezza e cordialità che raggiunge punte imbarazzanti per un milanese. Per aiutarmi a trovare una via non segnata sulla cartina si sono mosse persone su persone, che a loro volta hanno chiamato amici e parenti perché confermassero loro la direzione suggerita. Il ristoratore ha spiegato a Nichita con disarmante pazienza tutti i piatti di cui egli chiedeva, come se non avesse di meglio da fare per passare il tempo e quel colloquio fosse per lui fonte di immenso piacere (è vero che a pranzo ero accompagnato da una commerciante locale, ma tant'è).
Persino la signora del bar dove siamo andati a giocare al Superenalotto (sa Dio come mai a Nichita sia venuto in mente di chiedermelo) gli ha spiegato come si compilava la schedina, il che, conoscendo i modi dei ricevitori di quassù, mi ha lasciato semplicemente interdetto.
Una bella gita, insomma, che consiglio.
Dato che Livorno, città peraltro piena di gente simpaticissima, non offre tutto 'sto granché al turista che voglia perdervi un giorno, specie se con pupo, ho deciso di mangiare lì e poi andare a dormire a Lucca.
Per la cena sono andato alla Cantina Senese, che dei livornesi mi avevano caldamente consigliato e dove mi sono trovato benissimo; certo, loro mi avevano detto di andare in Piazza Garibaldi anziché in Piazza Mazzini, errore veniale in quanto entrambi sono eroi risorgimentali e barbuti: probabilmente ciò deriva dal fatto che il livornese è uomo d'azione, e non gli piace stare a farsi tante pippe da intellettuale: quindi l'Eroe dei Due Mondi riscuote maggior simpatia.
Quanto a Lucca, me la ricordavo come una città carina e gradevole: ed è stata una piacevole sorpresa constatare che invece è proprio bella e simpatica.
Vi circolano più biciclette che in Olanda, c'è una densità di chiese maggiore che a Roma e una rilassatezza e un senso di agiatezza nel godersi la vita meglio che a Parma.
I lucchesi poi, quelli con cui mi sono relazionato, perlomeno, sono di una gentilezza e cordialità che raggiunge punte imbarazzanti per un milanese. Per aiutarmi a trovare una via non segnata sulla cartina si sono mosse persone su persone, che a loro volta hanno chiamato amici e parenti perché confermassero loro la direzione suggerita. Il ristoratore ha spiegato a Nichita con disarmante pazienza tutti i piatti di cui egli chiedeva, come se non avesse di meglio da fare per passare il tempo e quel colloquio fosse per lui fonte di immenso piacere (è vero che a pranzo ero accompagnato da una commerciante locale, ma tant'è).
Persino la signora del bar dove siamo andati a giocare al Superenalotto (sa Dio come mai a Nichita sia venuto in mente di chiedermelo) gli ha spiegato come si compilava la schedina, il che, conoscendo i modi dei ricevitori di quassù, mi ha lasciato semplicemente interdetto.
Una bella gita, insomma, che consiglio.
Minzolinismo
Non è particolarmente originare sparlare del TG1 diretto da Minzolini; ma visto che ieri mi sono visto l'edizione delle 13:30, dopo tanto tempo che non lo facevo, ho potuto notare un paio di chicche.
In apertura i titoli parlano delle "polemiche dopo il caos sul passante di Mestre appena inaugurato": e la cosa mi ha lasciato un po' perplesso, dato che poteva sentirsi una velatissima critica al governo o comunque a qualche potere.
Tale mio sbalordimento è stato di breve durata, e sono stato subito rincuorato. Il primo servizio, infatti, dava conto di come la situazone fosse assolutamente normale, la strada bella e tutti fossero contenti. "Automobilisti sorridenti e rilassati", quelli intervistati, che hanno scelto di fare una "partenza intelligente"; "traffico scorrevole anche dove le tre corsie si immettono nelle due dell'A4". E così è chiaro all'ascoltatore che la colpa di chi si è trovato in coda per ore è di chi si è trovato in coda per ore, ché se fosse stato "intelligente" non ci si sarebbe mica trovato.
Qualora il messaggio non fosse stato sufficientemente chiaro, arriva il secondo servizio, dal lancio significativissimo: "Esodo con disagi anche all'estero", che ci racconta che in Austria la coda è arrivata a 35 Km, e che problemi hanno si sono anche verificati nella civilissima Svizzera e in Germania (per colpa dei cantieri che colà non vengono rimossi). Un micidiale uno-due che fa apparire il nostro paese come un bengodi.
Un bel po' più in là, unservizietto servizio per glorificare la sindaca di Milano e la sua ordinanza antialcolica. Qui si parla della mitica quattordicenne trovata ubriaca e multata, la quale secondo il TG avrebbe "sfiorato il coma etilico" (il TG3 della sera è giunto a dire che i vigili le hanno salvato la vita in quanto era già in coma etilico!).
Il fatto è che nel servizio si dice anche "nel sangue un tasso alcolemico quattro volte il limite consentito": e a quanto mi risulta vi è un limite consentito per mettersi alla guida ma non certo per passeggiare a piedi: salvo che il nostro Dipartimento per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio non abbia già in mente di inasprire le norme, imponendo il test alcolemico anche ai comuni pedoni. Un simile provvedimento sarebbe anche l'occasione per impedire la trista piaga del sesso orale tra coniugi.
In apertura i titoli parlano delle "polemiche dopo il caos sul passante di Mestre appena inaugurato": e la cosa mi ha lasciato un po' perplesso, dato che poteva sentirsi una velatissima critica al governo o comunque a qualche potere.
Tale mio sbalordimento è stato di breve durata, e sono stato subito rincuorato. Il primo servizio, infatti, dava conto di come la situazone fosse assolutamente normale, la strada bella e tutti fossero contenti. "Automobilisti sorridenti e rilassati", quelli intervistati, che hanno scelto di fare una "partenza intelligente"; "traffico scorrevole anche dove le tre corsie si immettono nelle due dell'A4". E così è chiaro all'ascoltatore che la colpa di chi si è trovato in coda per ore è di chi si è trovato in coda per ore, ché se fosse stato "intelligente" non ci si sarebbe mica trovato.
Qualora il messaggio non fosse stato sufficientemente chiaro, arriva il secondo servizio, dal lancio significativissimo: "Esodo con disagi anche all'estero", che ci racconta che in Austria la coda è arrivata a 35 Km, e che problemi hanno si sono anche verificati nella civilissima Svizzera e in Germania (per colpa dei cantieri che colà non vengono rimossi). Un micidiale uno-due che fa apparire il nostro paese come un bengodi.
Un bel po' più in là, un
Il fatto è che nel servizio si dice anche "nel sangue un tasso alcolemico quattro volte il limite consentito": e a quanto mi risulta vi è un limite consentito per mettersi alla guida ma non certo per passeggiare a piedi: salvo che il nostro Dipartimento per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio non abbia già in mente di inasprire le norme, imponendo il test alcolemico anche ai comuni pedoni. Un simile provvedimento sarebbe anche l'occasione per impedire la trista piaga del sesso orale tra coniugi.
Inflazione irrilevata
Nonostante le autorevoli profezie di Luca Ricolfi, il tasso d'inflazione sembra aver raggiunto lo zero, il che significa che i prezzi dei beni sono inchiodati: cosa che dovrebbe far riflettere coloro che affermano che ormai la ripresa è dietro l'angolo.
Vi sono, tuttavia, dei fenomeni inflattivi che non possono essere rilevati, dal momento che discendono dall'applicazione di tariffe rese possibili solo dalla situazione di monopolio del fornitore di servizi e dalla più totale ignavia delle autorità di controllo.
L'altro giorno dovevo prendere un biglietto, di sola andata, per una ridente località marina ligure. Fino a poco tempo fa uno avrebbe comprato il suo bel biglietto, diciamo a 17,50 euri, e vi avrebbe potuto aggiungere la prenotazione, arrivando così a, diciamo, 20,50 euri. Poi sono arrivati i treni a prenotazione obbligatoria, dove devi pagare la prenotazione sempre, indipendentemente dal fatto che tu abbia o meno il posto assegnato. E così il costo del biglietto è arrivato a 20,50 euri fissi, che tecnicamente non può essere definito un aumento dal momento che per quei tre euri in più ti viene offerto un servizio (la prenotazione), sia pur virtuale: e se tu ti adatti a viaggiare anche se il posto non c'è, in fondo sono fatti tuoi: prendi un altro treno o paga una tassa alla tua fretta.
Poi (come potete leggere anche qui) le ferrovie si sono inventate di essere come le compagnie aeree: e si sono inventate che con il biglietto a tariffa "base" puoi prendere solo il treno che hai prenotato, mentre con una nuova tariffa "flessibile" puoi prendere il treno che ti pare. Peccato che negli aerei il coefficiente di riempimento sia il fattore fondamentale di redditività della compagnia aerea, e che comunque sia assolutamente inimmaginabile che qualcuno possa viaggiare in piedi (con buona pace di coloro che hanno creduto all'ultima provocazione pubblicitaria di RyanAir); mentre in treno il costo di ciescuna carrozza è trascurabile, e comunque nulla impedisce di viaggiare anche sugli strapuntini.
In ogni caso, la solfa oggi funziona così: se sei certo del treno da prendere, bene; altrimenti se vuoi la stessa elasticità di un tempo, paghi.
Conscio di tutto ciò, mi accingo a fare il biglietto sul sito di Trenitalia (o di Ferrovie dello Stato, boh?): e questi mi risponde che non è possibile fare il biglietto in quanto non vi sono posti assegnabili. Ohibò, dico: fammelo senza assegnarmi il posto: pago latassaprenotazione e viaggierò in piedi. Macché: non se ne parla: la possibilità proprio non c'è.
Allora prendo la bici e vado alla stazione (Garibaldi, nel presupposto che laggiù la biglietteria non sarebbe stata oberata di clienti). Faccio la mia brava fila, di quattro persone, per due operatori: venti minuti (mi chiedo cosa sarebbe successo in Centrale). Finalmente arrivo dalla bigliettaia, le chiedo il biglietto, lei fa per emetterlo e... la macchina non lo emette neppure a lei. Le spiego che non mi interessa il posto, che viaggerò in piedi e che dev'esserci un modo per far sputare quel maledetto biglietto; lei ne conviene, si attacca al telefono e dopo una decina di tentativi di contattare altrettanti numeri, nessuno dei quali risponde, mi guarda rassegnata.
A questo punto non mi resta che adattarmi all'iniquo balzello: e le chiedo un biglietto per il giorno successivo, a tariffa flessibile, che -essendo flessibile- potrò utilizzare il giorno stesso: e così pago 24 euri e mezzo.
Praticamente, quindi, per fare il viaggio (seduto in un posto che alla fine è risultato libero) ho dovuto pagare:
- 17,50 euri di biglietto;
- 3 euri per avere la prenotazione su un treno che non avrei preso;
- 3 euri per avere il diritto di non prendere il treno per il quale ho pagato la prenotazione.
Io sono una persona mite, e trovo sciocco e inutile l'atteggiamento di coloro che si mettono a urlare di sdegno davanti al personale degli sportelli, ultime ruote di un carro enormemente più grande di loro: ciononostante questa volta ho ricoperto di improperi la povera bigliettaia, che, trista, annuiva silenziosa (poi le ho anche chiesto scusa, però).
Vi sono, tuttavia, dei fenomeni inflattivi che non possono essere rilevati, dal momento che discendono dall'applicazione di tariffe rese possibili solo dalla situazione di monopolio del fornitore di servizi e dalla più totale ignavia delle autorità di controllo.
L'altro giorno dovevo prendere un biglietto, di sola andata, per una ridente località marina ligure. Fino a poco tempo fa uno avrebbe comprato il suo bel biglietto, diciamo a 17,50 euri, e vi avrebbe potuto aggiungere la prenotazione, arrivando così a, diciamo, 20,50 euri. Poi sono arrivati i treni a prenotazione obbligatoria, dove devi pagare la prenotazione sempre, indipendentemente dal fatto che tu abbia o meno il posto assegnato. E così il costo del biglietto è arrivato a 20,50 euri fissi, che tecnicamente non può essere definito un aumento dal momento che per quei tre euri in più ti viene offerto un servizio (la prenotazione), sia pur virtuale: e se tu ti adatti a viaggiare anche se il posto non c'è, in fondo sono fatti tuoi: prendi un altro treno o paga una tassa alla tua fretta.
Poi (come potete leggere anche qui) le ferrovie si sono inventate di essere come le compagnie aeree: e si sono inventate che con il biglietto a tariffa "base" puoi prendere solo il treno che hai prenotato, mentre con una nuova tariffa "flessibile" puoi prendere il treno che ti pare. Peccato che negli aerei il coefficiente di riempimento sia il fattore fondamentale di redditività della compagnia aerea, e che comunque sia assolutamente inimmaginabile che qualcuno possa viaggiare in piedi (con buona pace di coloro che hanno creduto all'ultima provocazione pubblicitaria di RyanAir); mentre in treno il costo di ciescuna carrozza è trascurabile, e comunque nulla impedisce di viaggiare anche sugli strapuntini.
In ogni caso, la solfa oggi funziona così: se sei certo del treno da prendere, bene; altrimenti se vuoi la stessa elasticità di un tempo, paghi.
Conscio di tutto ciò, mi accingo a fare il biglietto sul sito di Trenitalia (o di Ferrovie dello Stato, boh?): e questi mi risponde che non è possibile fare il biglietto in quanto non vi sono posti assegnabili. Ohibò, dico: fammelo senza assegnarmi il posto: pago la
Allora prendo la bici e vado alla stazione (Garibaldi, nel presupposto che laggiù la biglietteria non sarebbe stata oberata di clienti). Faccio la mia brava fila, di quattro persone, per due operatori: venti minuti (mi chiedo cosa sarebbe successo in Centrale). Finalmente arrivo dalla bigliettaia, le chiedo il biglietto, lei fa per emetterlo e... la macchina non lo emette neppure a lei. Le spiego che non mi interessa il posto, che viaggerò in piedi e che dev'esserci un modo per far sputare quel maledetto biglietto; lei ne conviene, si attacca al telefono e dopo una decina di tentativi di contattare altrettanti numeri, nessuno dei quali risponde, mi guarda rassegnata.
A questo punto non mi resta che adattarmi all'iniquo balzello: e le chiedo un biglietto per il giorno successivo, a tariffa flessibile, che -essendo flessibile- potrò utilizzare il giorno stesso: e così pago 24 euri e mezzo.
Praticamente, quindi, per fare il viaggio (seduto in un posto che alla fine è risultato libero) ho dovuto pagare:
- 17,50 euri di biglietto;
- 3 euri per avere la prenotazione su un treno che non avrei preso;
- 3 euri per avere il diritto di non prendere il treno per il quale ho pagato la prenotazione.
Io sono una persona mite, e trovo sciocco e inutile l'atteggiamento di coloro che si mettono a urlare di sdegno davanti al personale degli sportelli, ultime ruote di un carro enormemente più grande di loro: ciononostante questa volta ho ricoperto di improperi la povera bigliettaia, che, trista, annuiva silenziosa (poi le ho anche chiesto scusa, però).