martedì 2 marzo 2010

Invictus

Nel processo che lo sta portando a divenire il maggiore maitre à penser dei nostri tempi, Clint Eastwood ha creato un altro film che richiede un certo sforzo interpretativo per essere apprezzato appieno, proprio come il precedente (di cui avevamo parlato qui).
Gran Torino non era un film sul razzismo, bensì sul dovere: le differenze e le inimicizie tra razze e popoli sono un tema ormai portante per il nostro regista preferito (si vedano ad esempio i due film su Iwo Jima), che però sfrutta sempre l'argomento per parlare, attraverso la diversità e il conflitto, di cose più elevate.
Il tema di Invictus è la forza di volontà; anzi: la forza della volontà. La forza di una volontà di ferro che ha consentito a Mandela di resistere trenta e passa anni in una minuscola cella da cui usciva per spaccare pietre, e che gli ha fatto imparare la lingua, le usanze e il modo di pensare dei suoi nemici, sorretto avendo una poesia come unico compagno nei momenti di debolezza.
La volontà che attraverso un'enorme senso di responsabilità (si torna al tema del dovere!) spinge il capitano Pienaar a trascinare la sua squadra verso la vittoria. A tal proposito è da fare un'applauso particolare a come è stata tracciata la figura di Pienaar, che risulta quasi scevro dall'ambizione sportiva nel raggiungimento del traguardo, come se avesse interiorizzato e condiviso il disegno assai più alto di Mandela, e si rendesse conto di quanto infimo sia il valore della coppa rispetto al progetto di costruzione di un nuovo Paese (e la battuta al cronista, dove egli caustico sottolinea che dietro gli SpringBoks ci sono 42 milioni di sudafricani è significativa).
E la volontà è anche quella che consente a due squadre di guardie del corpo, che avrebbero ogni motivo al mondo per odiarsi, di lavorare insieme. Un altro regista avrebbe costruito una storia in cui alla fine i neri e i bianchi, tra loro colleghi, sarebbero diventati amici e si sarebbero bevuti una birra per festeggiare la vittoria. Eastwood si limita a farli sorridere insieme. Forzatamente, a comando, ma insieme. E il capo della squadra nera continuerà fino alla fine a odiare il rugby, forse non solo per motivi professionali. E il suo collega a non capire nulla della partita, fino all'ultimo; ma in tutto questo tempo avranno lavorato -e sorriso- insieme.

Certo, era facile e scontato far emergere come un colosso la figura di Mandela. La sorpresa è Pienaar, che ne esce quasi alla pari: è lui il primo esegeta del pensiero di Mandela, che interiorizza e fa proprio: e così è lui ad accorgersi per primo che "i tempi sono cambiati", è lui a trascinare la squadra ad allenarsi nelle baraccopoli, è lui che fa da cinghia di trasmissione tra il Presidente e la squadra, che non ha capito che in gioco non c'è solo una coppa. Ed è lui a regalare alla famiglia quattro biglietti, non tre: perché ormai nel nuovo Sudafrica della famiglia fa parte anche quella che fino a pochi mesi prima era la serva, e ora è una collaboratrice domestica.
Certo, un film così non poteva essere scevro di un po' di retorica: e il bambino nero che si avvicina alla macchina dei poliziotti, durante la partita, la rappresenta appieno. Il suo abbraccio finale è talmente scontato da acquisire un significato ulteriore: sembra messo lì a ricordarci che quella a cui abbiamo appena assistito è una favola, per quanto vera, dove secondo le regole bisogna chiudere con un e vissero felici e contenti.

Un'ultima nota sulla godibilità del film: ci ho portato Nichita, che tra poco compirà 11 anni e quindi temevo che si potesse annoiare: in fondo non è esattamente un film d'azione, questo Invictus. Invece, grazie anche a qualche commento nel corso della proiezione per spiegargli il contesto e alcuni passaggi forse un po' troppo criptici per lui, ne è uscito entusiasta. Il che dimostra, ancor più, la grandezza dell'autore.

7 commenti:

  1. Credevo che si capisse (ma occhio, che io non sono obiettivo!)

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  2. non l'ho ancora visto: ma avevo letto una critica non troppo entusiasta... Vedremo...

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  3. Se ben ricordo la stessa cosa era avvenuta per Gran Torino.
    Eastwood non è Cameron: ci vuole un po' di riflessione in più.

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  4. Io sono dalla tua: Eastwood è incredibilmente, e davvero, destinato a diventare uno dei maggiori maitre à penser dei nostri tempi. Non ho ancora visto il film, ma i precedenti parlano chiaro. Ed è il vecchio Clint con il cappello da cowboy, proprio lui.

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  5. Si, si capiva: come al solito non mettevo la faccetta.

    E si, si capisce che apprezzi il vecchio Clint, ma è lo stesso anche per me.

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  6. @Jakala: io ho revocato l'embargo alle faccette: dopo un periodo transitorio in cui al posto di ;-) mettevo <faccetta>.
    @scorfano: ma sei ancor vivo, allora! ;-)))

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