Uscendo dalla sala cinematografica, ciò che più colpisce di Gran Torino sono i commenti degli spettatori che hanno condiviso con voi quelle due orette scarse.
Indottrinati a dovere dalla stampa sul fatto che il film che stavano per vedere fosse un capolavoro, evidentemente quei signori di mezz'età si attendevano che delle giovani ragazze discinte avrebbero aspirato le loro anime; e le accompagnatrici dei signori certo fantasticavano sul vortice di passione, tormento ed estasi nelle quali si sarebbero immerse e annegate.
E' quindi con ben comprensibile disappunto che, al risveglio della luce, gli spettatori tra loro vicini si guardassero con un misto di imbarazzo e timidezza: occhiate espressive di dubbio e disappunto che non riescono a trovare il loro oggetto: se il film, così piattamente deludente; i critici cinematografici, così boriosamente intellettuali e sempre pronti a definire "capolavoro" un filmetto che il figlio cugino dello zio Antonio, quello che fa i filmini ai matrimoni, avrebbe reso molto più avvincente; o (e questo è il dubbio che impedisce di esprimere il proprio pensiero!) sé medesimi, incapaci di penetrare nelle profondità di quella che in fondo ci appare sempre più una pellicola scialba che non vale i 4 euri del biglietto Esselunga. Ma ai commentatori di professione è tanto piaciuto, e un perché ci deve pur essere, Santo Dio!
Il breve percorso dalla poltrona all'uscita, nel cortile del multisala, e già si colgono i primi "ma ti è piaciuto, vero?" e le attese repliche "sì, certo, un capolavoro, ma... (un po' lento/un po' lungo/un po' triste/un po' confuso...); e immagino che nel ritorno, in auto, i meno sicuri di sé abbiano trovato la chiave interpretativa "una grande lezione contro il razzismo"; e i più boriosi abbiano, alla fine tratto la conclusione:
Gran Torino è una boiata pazzesca!
Il fatto, ahinoi e ahiloro, è che Gran Torino è un capolavoro: ma un capolavoro vero, elitario: non un silenzio degli innocenti in grado di piacere a tutti, bensì una cosa come la poesia di Gozzano (to'!) o un quadro di Schifano; una cosa per esperti, insomma, che allontana da sé chi esperto non è ma vorrebbe farsi passare per tale.
Anche un pons asinorum, questo film: che ci permettere di identificare subito i cattivi commentatori: se leggete un critico secondo cui Gran Torino è un film sul razzismo, ecco: quello è un cattivo critico, e l'unica attenuante per lui sarebbe il non aver visto il film per trascorrere un pomeriggio con l'amante; ché altrimenti andrebbe licenziato in tronco dal foglio che imbratta.
Gran Torino è un film rohmeriano sul fallimento, sul riscatto e sullo scopo della vita. Il protagonista, Kowalski, è una persona eminentemente morale, e non è vero che disprezzi l'umanità, i figli, i negri o i musi gialli. Egli disprezza chi gli sta intorno perché costoro non hanno una morale, e quindi non sono uomini: tutto qui.
Kowalski non vuole salvare Tao: gli si avvicina quando Tao, ribellandosi al cugino, dimostra di avere dei valori morali; e lo stesso fa con il prete, quando riconosce in lui l'uomo -pur prete- anziché il prete e basta.
L'universo morale di Kowalski è racchiuso tutto nella confessione: ha tradito la moglie (che tradimento, poi!), ha evaso le tasse e non è stato un buon padre. Doveri primigeni (si potrebbe dire primitivi) cui non ha saputo adempiere, e per questo -e solo per questo- è colpevole: tutti i morti ammazzati non contano, perché erano dovere nel senso più puro.
Come dovere è far sì che i deboli non soccombano ai forti, siano questi gialli, neri o bianchi. E se mi contestate quest'ultima affermazione, dicendo che ci sono nel film prepotenti gialli e prepotenti neri ma non prepotenti bianchi, vuol dire che alla penultima scena dormivate saporitamente: buon per voi.
E dovere è anche quello di riparare i torti generati: la trista fine di Sue è imputabile esclusivamente a Kowalski, che ha creduto di essere ancora in Corea e di avere il potere di rendere giustizia, ma era in errore. Ed è per riparare al suo errore che l'epilogo è quello che è: Kowalski non è un idealista: è giusto e rigido, prima di tutto con sé stesso.
Consentitemi di esagerare e dire che ricorda, Kowalski, il Jean-Louis di Ma nuit chez Maud, con quella sua incrollabile sicumera che lo rende certo di essere un Giusto dalla parte del giusto, e che il mondo non possa altro che andare nella direzione del Giusto e del Dovere, tanto che per affermare la propria Ragione non serve una pistola vera: basta il gesto con le dita (certo, se dietro la macchina ci fosse stato Rohmer forse i gangsta si sarebbero dileguati; ma Eastwood è più smaliziato, ed è costretto a far estrarre a Kowalski il cannone vero: ma con la morte nel cuore).
lunedì 27 aprile 2009
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9 commenti:
Mannaggia a te, hai un poco spoilerato! :-)
Mi permetto di dissentire. Se non hai visto il film, non credo che nulla di quanto ho scritto possa minimamente darti una traccia degli eventi a cui assisterai (magari una chiave di lettura, ma è un'altra cosa!)
Mi hai detto che Sue fa una trista fine... Sono qui che piango, e non ho ancora visto il film! Buaaaahhhh!
...
Dai, che scherzo!
Non dare per scontato che "trista fine" significhi quello che hai inteso tu (anche se non posso neppur negarlo, ché in questo caso lo spoiler sarebbe qui).
<mode barbogio="on">Tieni tuttavia presente che, non foss'altro per motivi meramente anagrafici, frequentavo IAC quando tu ancora andavi alle medie<mode barbogio="off">: e quindi se l'ho scritto così come l'ho scritto vuol dire che potevo scriverlo come lo scrissi.
grandissimo film, alla faccia di quegli snob dei fan di eastwood che c'hanno visto una parabola cristologica un po' troppo moraleggiante.
ce ne fossero di più di parabole cristologiche un po' moraleggianti di quel tipo lì.
e comunque eastwood si conferma uno dei migliori registi sulla scena
(peccato il doppiaggio fosse una mezza ciofeca, però oh, non si può avere tutto. e poi si può sempre decidere di vederselo in lingua, così come faccio io :)
sun
@Sun: non disprezzerei troppo l'aggettivo "cristologico": al recensore è utilissimo per esprimere il concetto "io so' io e voi nun siete un cazzo".
Possiamo dire che con questo Eastwood ha toccato l'apice della sua carriera ?
A me questi esercizi su "il più bel film mai visto" o "il più bel film di..." lasciano un po' freddo, quando pretendono di dare un giudizio obiettivo.
E' un po' come i punteggi ai tuffi o al pattinaggio artistico: vince chi ha più tecnica ma non necessariamente chi ha dato lo spettacolo più appassionante.
Io posso dire che i film che più mi sono piaciuti (correggo: che ricordo con più piacere) sono Letters from Iwo Jima e A perfect World: ma si tratta di giudizi puramente soggettivi influenzati, magari, dal fatto che quella sera fuori del cinema Orfeo mi sono fatto una birra all'Old Fox con una mia di allora fidanzata.
Unforgiven, al contrario, lo vidi poco e male, e non per colpa del film; e da allora non l'ho più visto perché lo collego a una situazione sgradevole.
Ma sai che avevo dimenticato totalmente di aver letto il tuo post (e non prenderlo come un commento negativo al post, ma alla mia memoria bucherellata) e di aver pure commentato?
Tempus fugit, et amentia currit.
Se mi permetti, io ho fatto qualche appunto al grande Eastwood in materia di realismo e di una certa 'goffaggine' con cui è condotta la trama.
In ogni caso, non puoi dirmi che Kowalski non sia razzista. Non è una forma di razzismo quella di credere di poter mettere al suo posto una gang di musi gialli solo perché lui ha fatto la guerra in Corea?
Inoltre, la confessione al prete io l'ho intesa come una confessione perlomeno incompleta, perché il prete, giovane seppure animato dalle migliori intenzioni, non può comprendere l'orrore di una guerra. Che Tao invece lo può almeno considerare, dato che la lotta che lui crede di poter giocare è in realtà una guerra violentissima.
Per carità, sono cascata talmente tante volte dal pons asinorum che, pur rammaricandomene, non mi stupirei, se fosse accaduto ancora. Però da Eastwood mi aspettavo decisamente di più.
Con simpatia!
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