martedì 21 aprile 2009

C'è crisi, c'è grande crisi (precisazione)

Nei commenti a questo pezzo lo Scorfano (e non solo lui, a onor del vero) è rimasto basito: talmente basito che temo che il problema che volevo illustrare non sia stato del tutto centrato, per aver dato io per scontato qualcosa che scontato non era (del resto lo stesso pesce aveva manifestato vivissima sorpresa apprendendo che (e perché) il patrimonio debba andare al passivo, per cui costituisce il mio interlocutore ideale).

Prendiamo l'esempio di un'impresa Alfa che ha un debito di un milione per una fornitura di chiodi, cui corrisponde ovviamente un credito di un milione di un'altra impresa Beta. Nulla impedisce che Alfa e Beta si accordino per dire che quel milione verrà pagato solo per 100.000 euri: non è che si possa proprio regalare i soldi, ma ci sono mille modi per raggiungere un accordo perfettamente legittimo, ad esempio adducendo che la merce non era conforme all'ordine, che è arrivata tardi o nel posto sbagliato, o anche semplicemente che, dato che Alfa sta messa male, Beta accetta di prendere 100.000 subito (l'uovo) anziché 1.000.000 domani (la gallina).
Orbene, è chiaro che Beta avrà una perdita: di 900.000 euri. E correlativamente Alfa avrà un utile (tecnicamente si chiama insussistenza di passivo) di 900.000 euri. Se così non fosse sarebbe un bel casino: infatti Beta pagherebbe le tasse su un reddito molto minore (e quindi, ipotizzando un'aliquota del 30%, 300.000 euri in meno), mentre Alfa continuerebbe a pagarle sullo stesso reddito di prima.
A quel puno solo un cretino, o un idealista, pagherebbe in contanti i propri debiti: si creerebbe un mercato più o meno clandestino a puri fini elusivi.
La cosa corretta quindi è questa: quando si fa un accordo, chi incassa meno può registrare una perdita, e chi paga meno può (deve) registrare un guadagno uguale e contrario. Si tratta di un'impostazione pacifica e da sempre pacificamente riconosciuta nei criteri contabili nazionali.

Quello che ha fatto Citigroup (e pure JP Morgan) invece è ben diverso: essa non ha fatto un accordo con i propri creditori per pagar loro di meno: ha iscritto in bilancio un ricavo (un'insussistenza di passivo) perché è ipotizzabile che dato il pericolo di fallimento i propri creditori in un futuro accettino di esser pagati di meno. Ma avendo fatto utili, diminuisce il pericolo di fallimento e pertanto viene meno il motivo stesso in base al quale quegli utili erano stati fatti, e quindi aumenta il rischio di fallimento che fa venir in essere un motivo per iscrivere degli utili che...
Vedete bene qual è la differenza tra il ragionare su cose ormai definitive (come si fa nei principi contabili nazionali), dove utili (e, semplifichiamo, perdite) si registrano solo quando si fanno davvero, e il ragionare sul mark to market previsto dai principi contabili internazionali (o IAS) e che per normativa europea deve essere adottato dalle banche. E' un po' la differenza che intercorre tra litigare con un energumeno nel mondo reale (i principi nazionali) e nel mondo di Matrix (gli IAS): dove quando tiri un pugno non sai mai se colpirà la pancia o le passerà attraverso.

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