giovedì 2 aprile 2009

Storie

Ieri sera mi sono improvvisamente ricordato che per il ciclo "I giorni di Milano" a Santa Maria delle Grazie c'era la lezione di Alessandro Barbero su Federico I (Barbarossa).
Mi ci sono fiondato e francamente sono rimasto un po' sbalordito quando, arrivando un buon venti minuti prima dell'inizio, mi sono trovato di fronte a una coda -ordinatissima- che dall'ingresso della basilica, occupando torno torno tutta la piazza, risaliva lungo il marciapiede il corso Magenta, giungendo praticamente all'altezza dell'abside.
Ci siamo comunque entrati tutti, alla fine, e la lezione è stata molto interessante e applauditissima (questa, dell'applaudire a uno storico che fa una lezione, mi pare un po' una sciocchezza; ma ci può anche stare, considerando che l'evento è stato sufficientemente spettacolarizzato). Sono rimasto un po' sbalordito, dicevo, dalla quantità di persone: avevo sentito dire che queste lezioni hanno riscosso un gran successo; ma sempre di Storie e -nel caso specifico- di Barbarossa, si trattava: roba che non credevo potesse far uscire a frotte dalle case.

Certo, per me la Storia è molto più affascinante di tante forme di intrattenimento canoniche: del resto è proprio grazie a una lezione di Storia (si parlava dell'incidente di Fascioda) che mi ritirai dalla Facoltà di Ingegneria, dopo una settimana di precorsi, per iscrivermi a Scienze Politiche.
Rammento con precisione quell'aula a gradoni del Politecnico (mi sembra fosse la S01), con stipati dentro un tre-quattrocento ragazzotti unitamente a tre-quattro ragazzotte. Rammento pure con precisione, e un po' di sdegno, il numero di aereoplanini che volavano dai gradoni alla lavagna mentre il professore di turno tracciava delle formule chimiche o matematiche.
Un giorno uno dei docenti si mise a spiegare la moltiplicazione tra vettori: roba che per me, con i miei otto del Liceo, era sempre stata una freccia lunga come l'area del parallelogramma (certo, che una freccia sia lunga come un'area non è proprio bello, ma transeat) e perpendicolare a mo' di cavatappi. Orbene, quel signore si mise a spiegare perché la cosa funzionava così; e lì cominciarono i miei primi dubbi, il sospetto che probabilmente ci avrei messo dieci anni per finire la facoltà; la consapevolezza che in fondo non ero mica tanto certo che me ne fregasse qualcosa, di quei vettori, e non ultimo il crescente fastidio per gli esperimenti aereonautici: che divenne palese insofferenza quando il professore stesso, colpito alla nuca da un modello particolarmente performante, ebbe a implorare un po' di attenzione.

Quel pomeriggio andai a trovare il mio amico Sergio, che si era iscritto a Scienze politiche dopo un anno speso a Informatica nel corso del quale aveva appreso, principalmente, che dell'Informatica non gliene poteva fregare di meno. C'era lezione di Storia e il professore, tale Romain H. Rainero (professore di grandissimo fascino ed eloquio, complice anche una blesità che sconfinava nel vezzo), iniziò dall'inizio, arrivò alla fine, e in mezzo ci condusse per due ore tra una serie talmente intricata di avvenimenti, relazioni, motivazioni, mosse e contromosse che sembrava impossibile che tutto quel groviglio potesse essere dipanato, cosa che invece puntualmente avvenne.
Oltre che il fascino della narrazione e della comprensione dei motivi profondi che stavano dietro al fatto (fatto misconosciuto, e peraltro gravido di conseguenze di grande rilievo), mi colpì intensamente l'assoluto silenzio che regnava nell'aula: non si sentiva volare la classica mosca; e se una ve ne fosse stata, certo si sarebbe avvertita con chiarezza.
Fu così che, dopo averci pensato su un po', decisi di cambiare: e mi sembra una delle scelte migliori che abbia preso nella mia vita. Due anni più tardi cambiai nuovamente e mi iscrissi a Giurisprudenza, ma questa è un'altra storia.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Questa questione degli ingegneri e degli aeroplanini è assai più significativa di quello che potrebbe sembrare a una lettura distratta.
Innanzitutto perché gli ingegneri passano per quelli "seri", che "studiano davvero", mentre gli altri possono farne pure a meno. Il che è in parte vero, ma proprio per questo fanno parecchia impressione i loro aeroplanini di carta.
Magari era solo quella lezione e solo quel professore, non so. Però che gli "studiosi" veri siano anche quelli che tutto sommato "non gliene frega niente" delle materie che studiano è un fatto interessante. Getta una luce sinistra sulla prassi dell'usare lo studio come semplice mezzo, per ottenere un risultato: che poi sarà la carriera, il lavoro, i soldi che questo potrà assicurare. Niente di male, naturalmente, ma forse è stato questo aspetto della lezione che in quel tale momento della tua giovinezza ti ha allontanato da quei luoghi: il disinteresse esibito, fatto regola. Così come l'interesse degli altri ti ha affascinato.
Magari è solo un caso, lo ripeto, e le alre lezioni erano seguitissime, non lo so. Però è un tema su cui riflettere, perché rivela un mondo e un modo di concepire il proprio mondo.
E infatti è una "storia".

m.fisk ha detto...

Trovo anch'io significativa la cosa, e ti ringrazio di questa interpretazione che mi pare proprio brillante per semplicità e schiettezza: in una parola, occamiana.
Anche perché quegli aereoplanini hanno planato per tutta la settimana nel corso della quale ho frequentato l'aula S01: non erano un episodio isolato.
Forse non era disinteresse bensì mero infantilismo da parte di persone che si rendevano conto che da lì a poco avrebbero dovuto sudare le sette camice sui libri, e si prendevano delle ultime libertà; e forse la serietà di quegli altri era un modo per darsi un tono dopo aver scelto un percorso di studi universalmente -e a torto- ritenuto poco più faticoso di una vacanza Valtur, chissà.
In ogni caso, il contrasto era stridente.

Cicciocolla ha detto...

Secondo me, e non vorrei essere più occamiana di Occam, c'entra anche il fatto che a ingegneria ci sono corsi per il primo anno, per il secondo etc. e da lì non si scappa. Quindi i corsi del primo anno saranno irrimediabilmente pieni di matricole che in buona parte andranno a riempire le schiere di quelli che al primo anno di università si ritirano (solo che ancora non lo sanno), mentre a scienze politiche i corsi, che non sono programmati né a frequenza obbligatoria (se non erro), saranno frequentati da studenti mossi da un po' più di interesse, e in parte già scremati dal primo impatto con l'università.
Detto questo, però, condivido le vostre riflessioni.

m.fisk ha detto...

E' una bella interpretazione ma, ahimé, non regge: vero infatti è che a Scienze politiche i corsi non erano a frequenza obbligatoria (neppure a Ingegneria, peraltro, a quanto rammento; e di precorsi si trattava).
Ma quello di Storia contemporanea, del quale parlavo nel post, era proprio e indubitabilmente da primo anno, e frequentato (quasi) esclusivamente da matricole.
Sia detto, per puro inciso e per quanto occorrer possa, che anche il rapporto ragazzotti/ragazzotte era ben diverso: potrebbe essere una variabile da tenere in conto?

Cicciocolla ha detto...

Beh, ci ho provato... :)

 

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