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giovedì 22 ottobre 2009

Di navi, d'aerei e d'Ipazie

Con riguardo al mio post di ieri sera, Ipazia sognatrice ha lasciato un commento che mi sembra sollevare un tema d'interesse generale, e che quindi porto su per non lasciarlo confinato lì sotto, confinato in una stanzetta dove ci siamo solo noi due*:
Uhm, quindi sarebbe 'la legge non è uguale per tutti, ma deve essere uguale per tutti quelli per cui non è uguale'?
Cavolo, un po' lungo, da ricamare sui miei calzini blu a renne multicolori. Evitando le renne.
Sospettavo che le cose fossero un filino più complesse di come ci eravamo (parlo di noi comuni Ipazie) convinte che fossero.
Quello che più mi intristisce è che non solo le campagne cazzeggione di Repubblica, ma tutta una serie di trasmissioni/dibattito, interviste, dichiarazioni, rilasciate da persone che in teoria dovrebbero essersi laureate in giurisprudenza, e che dovrebbero candidarsi a rappresentarci e governare, non facevano la minima allusione a ciò che tu dici.
E allora, delle due l'una: o tu sei un pazzo mitomane che si ammanta di conoscenze che non ha ed ha una grande audience (cosa che non credo; anche se è vero: hai una grande audience); o questo è davvero un teatrino di marionette che manovrano marionette che manovrano marionette...
Lascio al lettore giudicare da sé, andando a leggere direttamente i punti 7.3.2.2. e 7.3.2.3. della sentenza 262/2009.

* Anche se devo ammettere che trovarmi in una stanzetta confinato con Ipazia potrebbe essere una prospettiva non disdicevole

mercoledì 21 ottobre 2009

Di navi e di aerei

La Corte costituzionale, come certo sapete, ha pubblicato le motivazioni della sentenza sul cd. "Lodo Alfano". E' da un paio di giorni che la sto leggendo, rimuginandola e cercando di scriverne un post, ma non è cosa facile: si tratta infatti di un documento molto complesso e molto difficile da spiegare, nelle sue argomentazioni e implicazioni, a chi non è un tecnico.
Salvo essere un giornalista: la stampa ha infatti impapocchiato qualcosa di vagamente somigliante a qualche frase estrapolata dal contesto, e se l'è cavata così. Per una volta, peraltro, non sono critico: ammetto che scrivere un articolo di senso compiuto in poche ore, pur essendo pagato per farlo, sarebbe stato molto -troppo- difficile.
Una cosa però ci tengo a sottolinearla fin da subito.
Rammenterete che prima della sentenza c'è stato un bailamme di gente che si fotografava con cartelli "la legge è uguale per tutti"; o lo scriveva sui propri blog; o lo canticchiava per la strada.
Ecco: la Corte Costituzionale a questo principio non ha pensato neppur di straforo. Ha sì dichiarato l'illegittimità del Lodo Alfano ai sensi dell'art. 3 cost.: ma, come illustrato ai punti 7.3.2.2. e 7.3.2.3., non già perché introducesse una disparità di trattamento tra il Presidente del Consiglio e i comuni cittadini, bensì tra il Presidente del Consiglio e i Ministri (7.3.2.2.), tra il Presidente della Camera e i Deputati, tra il Presidente del Senato e i Senatori (7.3.2.3.1.).
Quella campagna, quel meme, per usare un termine moderno, era quindi del tutto fuori luogo: e lo era pur essendo, da un punto di vista oggettivo, molto seria, pur nel suo spirito giocoso.
Ecco: se una campagna bene o male seria come quella, alla fine si è dimostrata scentrata e pertanto, a conti fatti, inutile; che giudizio si può dare per quegli inviti a fotografarsi con i cartelli "siamo tutti farabutti"; o "sono una donna offesa" o addirittura ad andare in giro con i calzerotti in tinta?
Tanti prima di me hanno commentato quest'ultima ennesima sciocchezza, e l'hanno fatto in modo certo più spiritoso di come lo stia affrontando io ora; ma credo che, passato lo sfottò e resici tutti conto che con il pedalino azzurro si è toccato l'ennesimo punto imo dello scantinato, sia il caso di cominciare a capire che le campagne di Repubblica (e non solo) sono sia ridicole che inutili o addirittura disutili.

se vi chiedete che c'azzecca il titolo del post, la risposta è: nulla, volevo parlar d'altro e mi sono fatto prender la mano. Però mi sembrava che il lasciarlo fosse surreale almeno quanto darsi del farabutto

venerdì 9 ottobre 2009

Piccole (non tanto piccole) verità

Luca Sofri scrive cose molto giuste sulla Corte Costituzionale e sui costituzionalisti della domenica.
Francesco Cundari fa lo stesso.
Metto i link, ché* ve li possiate leggere anche voi.

* Sì, lo so D., ho esagerato: non abbandonarmi, però.

giovedì 8 ottobre 2009

Bella tòpica

Stamane, pedalando con inconsueta lentezza a causa delle abbondanti libagioni di ieri sera, pensavo a cosa avrei scritto per commentare la toppata di ieri, che non è stata la prima e certo non sarà l'ultima.
togliamo di mezzo ogni equivoco e diciamo subito che la Corte ha ragione e io avevo torto. Altri dicono che si tratta di un verdetto politico e non giuridico, che i giudici sono tutti comunisti (o a maggioranza comunisti), o ancora che hanno francamente sbagliato.
Non è così: a parte il fatto che per definizione le sentenze della Corte Costituzionale sono vangelo, in tema di interpretazione della Costituzione, va anche detto che la Corte si è sempre caratterizzata per un'eccezionale qualità della sua produzione giuridica, persino nei tempi bui in cui era presieduta da personaggi discutibilissimi quale Antonio Baldassare, che aveva cercato, senza successo, di politicizzarla.
Ciò detto, e cosparso il capo di cenere, ho acceso il PC e ho trovato, in coda al post di ieri, un commento di .mau. che dice in una dozzina di parole quello che io avrei scritto in una dozzina di capoversi:
Certo che mettere insieme l'articolo 3 e il 138 significa buttare i carichi, per la serie "non provateci una terza volta"!
Bisognerà leggere attentamente le motivazioni, quando saranno depositate, ma sembra proprio che questa volta la Corte ci sia andata giù durissima: il richiamo all'art. 3, cioè al principio di uguaglianza, dimostra che in effetti Alfano e i suoi scudieri erano riusciti a risolvere tutti i nodi che la precedente sentenza 24/2004 aveva evidenziato: rimane quindi solo la violazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge, che è una coperta che si può stendere un po' su tutto, ma che proprio per questo non è spesso utilizzato da solo, quale motivo per statuire l'incostituzionalità di una norma; specie quando la violazione è tutt'altro che evidente come nel caso specifico.
Il riferimento all'art. 138, poi, appare molto curioso. L'art. 138 è quello che stabilisce qual è il procedimento per l'emanazione di leggi di rango costituzionale, ma è evidente che il fatto che una legge sia di rango ordinario anziché di rango costituzionale non è, per sé, un motivo valido per cassarla. La Corte deve statuire se una legge ordinaria è contraria a norme costituzionali: il fatto che tale legge sia ordinaria e non costituzionale è un presupposto per la pronuncia, non certo un motivo.
L'unica spiegazione che mi viene in mente è che con il riferimento all'art. 138 i giudici abbiano voluto dare un messaggio di moderazione: secondo la Corte stessa infatti esistono principi fondamentali del nostro ordinamento che non sono suscettibili di revisione costituzionale neppure con il procedimento aggravato previsto dall'art.138: non solo la forma repubblicana dello Stato, ma anche altri principi contenuti nella prima parte della Costituzione quali, chessò, il diritto alla difesa, il diritto alla salute, l'uguaglianza tra sessi e così via. Una legge, pur di rango costituzionale, che stabilisse che le donne non hanno diritto di voto e che i loro beni devono essere amministrati dai mariti sarebbe inesorabilmente cassata, anche se approvata all'unanimità dal Parlamento nelle forme dell'art.138.
E' possibile quindi che con quel richiamo i giudici abbiano voluto esprimere fin d'ora il fatto che sì, la violazione del principio di uguaglianza vi è stata, ma non di portata tale da rientrare nel novero delle violazioni di principi inderogabili.

Si apre, in ogni caso, una stagione molto interessante: la Corte si è esposta andando a scavare nella Costituzione materiale, ed ha espresso con chiarezza il fatto che leggi ineccepibili dal punto di vista formale, che tuttavia vanno di fatto a toccare i meccanismi sostanziali del funzionamento delle istituzioni, sono comunque contrarie alla Costituzione. si tratta, credo, di un nuovo orientamento molto più interventista che in passato: rammentiamo che non molto tempo fa la medesima Corte aveva lasciato passare il referendum che avrebbe potuto trasformare -sostanzialmente- il Paese in una repubblica bipartitice e perciò necessariamente di fatto (anche se non di diritto) semipresidenziale: credo che oggi tale referendum non sarebbe passato; e credo che alla luce di questa sentenza anche altre schifezze, quali la legge sul testamento biologico, per dirne una, siano destinate ad avere vita travagliata.
Speriamolo, almeno!

mercoledì 7 ottobre 2009

Se voi foste il giudice

questo post è stato scritto prima della decisione della Corte Costituzionale. La Corte ha deciso e sono il primo a gioirne!

La mia conclusione, dopo aver letto la giurisprudenza della Corte Costituzionale sul Lodo Schifani (Sent. 24/2004), sui diritti della parte civile in caso di sospensione a tempo indefinito del processo penale (sent. 354/1996) e sull' uso distorto degli strumenti di difesa a fini dilatori (sent. 353/1996), è che la Corte Costituzionale non dovrebbe dichiarare l'illegittimità costituzionale del Lodo Alfano.
Lo dico adesso, dato che tra poco, a decisione avvenuta, sarebbe troppo semplice prendere posizione; e dico anche che è una conclusione umiliante, dato che il Lodo Alfano è una schifezza scritta ad personam e fatta ingoiare al parlamento; ma ciò non basta per renderlo incostituzionale.
Non è attraverso la Costituzione che si può definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Certo, ciò che è incostituzionale è anche necessariamente sbagliato, nel nostro ordinamento; ma non è detto il contrario, e questo è, a mio parere, uno di quei casi.
Il Lodo Alfano è stato costruito, con perizia, da chi sapeva che cosa stava facendo; e l'ha fatto bene.

Update (lo porto su dai commenti per chi leggesse ora)
.mau. fa notare nei commenti la disparità che si viene a creare con la posizione delgi imputati non immuni, tipo David Mills, i cui procedimenti continuano per la loro strada.
Secondo me questo era un problema con il Lodo Schifani, ma è è stato superato dal comma 6 del lodo Alfano, che esclude l'applicabilità dell'art. 75 c.3 c.p.p., consentendo alla parte civile di agire in sede civile per la tutela dei propri interessi patrimoniali.
Chi ci rimette quindi non è il privato, ma solo ("solo"!) la pretesa punitiva dello Stato, che non viene meno ma viene semplicemente rimandata. Se il rimandare a tempo indeterminato tale pretesa punitiva era ritenuto inammissibile dalla sent. 24/2004, il fatto che ora il rinvio sia a termine e non progabile può far ritenere che gli interessi siano reciprocamente contemperati.
A questo punto la questione è solo se cinque anni siano giusti o troppi: ma questo è un problema squisitamente di merito sul quale probabilmente i giudici costituzionali non se la sentiranno di intervenire.
Per quanto riguarda invece il fatto che taluno (Mills) possa essere condannato (o assolto) subito e talaltro condannato (o assolto) dopo, non si tratta di una violazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge: siamo più o meno nello stesso caso in cui vi siano due omicidi, di cui l'uno riconosciuto temporaneamente incapace di partecipare al procedimento (art. 71 cpp): la posizione di questi viene stralciata e quella dell'altro prosegue.

Appunti di diritto costituzionale: il Presidente del Consiglio

Ieri me la sono presa con Alessandro Gilioli, che ha scritto che il Presidente del Consiglio "è scelto liberamente dal Parlamento, da deputati e senatori".
Ho ritenuto opportuno riprenderlo per due motivi: il primo è che quando taluno si mette a fare le pulci a ciò che dice talaltro, ha un preciso dovere -perlomeno per buona creanza- di esser certo di dire la cosa giusta. Facciamo un esempio.
Io posso lasciarmi scappare che il Presidente della Repubblica è eletto da 945 persone (deputati e senatori), il che è sbagliato; ma se a qualcuno venisse in mente di prendere la penna rossa e dire che in realtà gli elettori sono in realtà 1005 perché bisogna contare i rappresentanti delle Regioni, be' allora mi arrabbierei: perché chi mi corregge ha il preciso dovere di rendersi conto che i rappresentanti regionali sono 58 e non 60; e che inoltre ci sono fino a cinque senatori a vita (salvo che il Presidente uscente sia Pertini), che ench'essi entrano nel mucchio.

Questa tuttavia sarebbe una sciocchezza, se la confrontiamo con il merito della questione sollevata da Gilioli, e sulla natura prettamente politica e istituzionale del suo errore.
L'art. 92 Cost. recita: «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri»; e l'art. 94 dice che «Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere».
E' quindi il Presidente della Repubblica che nomina il Presidente del Consiglio, e il Parlamento può dire "Sì" o "No", ma non può sceglierne il nome. Anzi, ad essere precisi, il Parlamento non può neppure dare o negare il proprio assenso al Presidente del Consiglio, bensì al Governo nel suo complesso; e il Governo è formato dal PdC e dai ministri, che vengono nominati dal PdR su proposta del PdC.
Ne consegue che:
- il PdR nomina il PdC;
- il PdC propone i ministri al PdR, che li nomina;
- il Parlamento (o meglio: ciascuna Camera) conferisce la fiducia al Governo.

Possono sembrare questioni di lana caprina, ma non è così. Chi ha l'età sufficiente a rammentare riti e miti della Prima Repubblica ricorderà perfettamente che alla caduta di un Governo (evento certo non raro, ai tempi) iniziava il giro delle consultazioni, nel corso delle quali il Presidente della Repubblica doveva cercare un soggetto in grado di ricoprire la carica di PdC, formare un Governo ed ottenere la fiducia.
Il PdR aveva un compito assai difficile, stante la frammentazione della rappresentanza politica: e difatti le consultazioni iniziavano con gli ex Presidenti della Repubblica che mettevano a disposizione la propria esperienza di crisi, e via via tutte le segreterie dei partiti e i gruppi parlamentari.
Di contro il PdR aveva la massima libertà nello scegliere il candidato: la medesima frammentazione, sia del Parlamento in partiti e gruppi, sia degli stessi partiti in correnti, faceva sì che i nomi papabili fossero molti.
Certo, fino agli anni '80 il PdC veniva pur sempre scelto in seno al partito di maggioranza; ma ciò non era un assoluto, tanto che da Spadolini in poi, per arrivare fino a Craxi, vi fu una lunga stagione di PdC non democristiani.
Alla fine di tutto questo procedimento veniva formato il Governo, che giurava e solo dopo si presentava alle Camere, le quali avevano solo la possibilità di concedere o
respingere la fiducia: non avevano la possibilità di intervenire sulla designazione del PdC né sui ministri, se non agendo per il tramite dei partiti.
Capite bene che c'è una bella differenza, tra lo scegliersi una fidanzata e trovarsi una fidanzata scelta dai propri genitori e avere solo la possibilità di dire "sì" o "no", vero?
Se approfondiamo il ruolo del PdR, poi, vediamo che era proprio la frammentazione in partiti e correnti a conferirgli la libertà d'azione di cui abbiamo discusso. Non dimentichiamo che il Presidente della Repubblica è super partes e non è un organo politico, e neppure ha ricevuto un'investitura direttamente dal popolo. Ma proprio la difficoltà di formare i governi giustificava, in un certo modo, il largo margine di autonomia che si prendeva e quindi la sua libertà di nominare chiunque avesse voluto scegliere.

Con la riforma elettorale in senso bipolare le cose sono radicalmente cambiate. Vero è che la Costituzione formale è rimasta immutata, e che quindi il PdR ha la possibilità di nominare chi vuole alla carica di PdC: ma se facesse così verrebbe meno il ruolo super partes che la Costituzione stessa gli assegna; e soprattutto verrebbe lesa, gravemente, l'espressione della sovranità popolare che si esprime con le elezioni.
Finché si trattasse di nominare un PdC alternativo a Berlusconi, nel remoto caso in cui questi dovesse dimettersi per ragioni di salute, il vulnus inferto alla volontà popolare sarebbe in fin dei conti minimo. Berlusconi è sì il leader di una coalizione, e il suo nome è presente nel simbolo sul quale si traccia una croce; ma fortunatamente non siamo ancora divenuti una repubblica presidenziale in cui il Governo è incarnato nel Presidente, come ad esempio gli USA.
Ben diverso, però, sarebbe se Berlusconi perdesse la fiducia a seguito di una rivolta interna al PdL: una sorta di notte dei coltelli in cui i maggiorenti dovessero accordarsi per far fuori il vecchio, ormai gravato da troppi misteri e sospetti. In tal caso, pur se formalmente il PdR avrebbe la piena facoltà di nominare Fini o financo Giovanardi quali Presidenti incaricati, ciononostante se ne guarderebbe, io credo, assai bene: perché sarebbe andare in direzione palesemente contraria a quella voluta dal corpo elettorale.
Badate bene a questo: il popolo si esprime attraverso le elezioni e massimamente attraverso le elezioni politiche, che avvengono una volta ogni cinque anni; non vi sono altre possibilità in mezzo alla legislatura per esprimere la sovranità popolare. Con il sistema proporzionale, quando c'erano i partiti in Parlamento, la nostra era una democrazia rappresentativa in cui si poteva affermare che ciascun cittadino conferisse ad un determinato partito un mandato in bianco per rappresentarlo; e che quindi il partito avesse la possibilità di fare e disfare alleanze, con l'onere di muoversi nell'alveo di un programma di massima esposto in campagna elettorale e che, si noti, non prevedeva esplicitamente il formarsi o lo sciogliersi di alleanze.
Oggi, con questa sciagurata legge elettorale voluta e impiastricciata da tutti, è innegabile che il corpo elettorale decida una coalizione; e da qui a dire che decide il nome del Presidente del Consiglio il passo è molto, ma molto breve. Ripeto: fossi in Napolitano non mi farei alcuno scrupolo a sostituire Berlusconi qualora egli dovesse dimettersi per motivi obiettivi, di salute; ma non so proprio cosa farei nell'altro caso prima delineato, perché andrei contro la volontà del popolo, che è sovrano.
Se fosse il Parlamento ad eleggere il Presidente del Consiglio le cose sarebbero diverse, per vari motivi. Innanzitutto un'elezione è cosa ben diversa da una nomina: il Parlamento (sia inteso come organo unico che come insieme delle due Camere) è un organo collegiale, nel quale la responsabilità delle scelte ricade sull'istituzione, e in cui ciascun componente ne condivide solo una parte; poi è un organo rappresentativo, nel quale è (ormai solo astrattamente, data la schifosa legge elettorale) rappresentata la volontà popolare: è l'organo in cui si incarna la volontà del popolo e quindi -pur con tutti i dubbi già espressi- un Presidente eletto dal Parlamento forzando gli schieramenti originari avrebbe una legittimazione debole, ma comunque ben superiore a quella conferita da una nomina presidenziale. Infine (ma questo non pertiene alla formazione del Governo, bensì ai rapporti di forza istituzionali) un PdC eletto dal Parlamento dovrebbe pur sempre mantenere un rapporto di rispetto verso il proprio autore, che invece Berlusconi dimostra in ogni occasione di non avere minimamente, in quanto fa quotidianamente strame della funzione legislativa, ormai ridotta a mera facciata: non a caso l'opinione pubblica (ahimé, soprattutto a sinistra) ritiene che il lavoro del parlamentare consista nel sedere su un banco e schiacciare a comando un bottone; e si chiede perché mai quindi un parlamentare dovvrebbe essere pagato più di un ascensorista.

Questo per capire i termini della questione. Con tutto ciò non voglio dire che il Lodo Alfano sia men che una porcheria, badate: voglio solo dar conto di che tipo di assetto istituzionale esiste oggi nel nostro Paese.
Poi, se volete saperlo, io mi aspetto che la Corte Costituzionale non dichiari l'illegittimità del Lodo: ma questo non vuol dire che lo ritenga una legge buona o anche solo presentabile.

martedì 6 ottobre 2009

La Costituzione secondo Gilioli

Non voglio certo difendere Pecorella né tantomeno attaccare gratuitamente Gilioli, ma quando questi scrive un post intitolato «La Costituzione secondo Pecorella» dovrebbe risparmiarsi un paio di inesattezze.
Scrive Pecorella: «la nuova legge elettorale ha sostanzialmente modificato l’identità costituzionale del premier». Replica Gilioli: "A me risulta che per cambiare una «identità costituzionale» serva appunto una legge costituzionale. Quella elettorale invece era una legge ordinaria".
Mi spiace, ma non è vero. La nostra Costituzione è stata radicalmente modificata con il passaggio da una legge elettorale proporzionale ad una bipolare, e solo uno sprovveduto potrebbe ignorare questo fatto. E' andato in vacca tutto il complesso meccanismo di equilibrio dei poteri, e si è svuotato il ruolo del Parlamento. Il tutto con una legge ordinaria, quale quella elettorale, dal momento che il principio di proporzionalità della rappresentanza politica non è stato costituzionalizzato: un errore grave -uno dei pochi, peraltro- fatto dai costituenti, che pure ne hanno dibattuto a lungo ma, purtroppo, hanno fatto la scelta sbagliata.

E ancora:
Dice Pecorella, «oggi il premier ha una investitura diretta dalla sovranità popolare».
Scrive Gilioli: "E pensare che invece la Costituzione diceva che il premier è scelto liberamente dal Parlamento, da deputati e senatori, e non con un’investitura diretta degli elettori."
E' sbagliato, Alessandro: il Presidente del Consiglio è scelto dal Presidente della Repubblica, non dal Parlamento, non dai deputati o dai senatori.
Non è un errore gravissimo, ma quando si fanno le pulci al prossimo bisogna esser certi di dire le cose esattamente come stanno, altrimenti si fa una figuraccia: come in questo caso.

lunedì 5 ottobre 2009

Scudiscio fiscale

questo post è lungo e probabilmente *molto* tedioso; e oltretutto non si rivolge alla pancia di alcuno né distribuisce facile ironia: per cui se non siete dell'umore giusto saltatelo a pie' pari, suvvia; e se avete voglia di leggerlo, ma molta fretta, rimandate. Tanto resterà attuale ancora per qualche anno.
Se n'è parlato tanto, della votazione sullo scudo fiscale, da tanti punti di vista; e forse è ora il caso di riflettere un pochino, a mente un po' più fresca, per fare un punto organico di quanto accaduto, sfatare qualche mito e trarre qualche conclusione.
La prima cosa da considerare è questa: nell'attuale assetto parlamentare, quale esce dal disastro istituzionale avviato quasi vent'anni fa da Mariotto Segni e via via sempre peggiorato nel corso del tempo, le assenze dei deputati d'opposizione non sono in grado di provocare il respingimento di alcun provvedimento.
Vi sono due spiegazioni a ciò: una banale, l'altra meno.
La spiegazione banale: nell'aula ci sono due schieramenti, la maggioranza e l'opposizione. I deputati non sono sempre presenti in aula, dato che l'attività parlamentare non consiste solo nell'andare a sedersi e schiacciare un bottone (altrimenti si potrebbe fare con il televoto, o addirittura si potrebbe sposare la proposta di Berlusconi di far votare solo i capigruppo): è per questo che è normale che vi siano assenze sia nei banchi della maggioranza che in quelli dell'opposizione.
Il capogruppo di maggioranza, o un suo delegato, ha il preciso compito di contare gli scranni e i deputati in transatlantico, e verificare che tempo per tempo il numero dei deputati di maggioranza sia maggiore (per l'appunto) rispetto al numero dei deputati di minoranza. Qualora così non fosse, o il margine di vantaggio dovesse pericolosamente assottigliarsi, si convocano all'istante i deputati assenti, in modo da ristabilire la supramazia numerica. considerato che alla Camera dei Deputati la coalizione di maggioranza ha un minimo di 340 seggi su 630 (e pertanto l'opposizione ha al più 290 deputati) vedete che il divario di 50 voti è più che sufficiente a far dormire sonni tranquilli al Governo.
L'assenza di uno, dieci o anche cento deputati d'opposizione è quindi del tutto ininfluente; mentre ovviamente è molto grave l'assenza ingiustificata di un numero di deputati di maggioranza superiore a cinquanta, salvo che i medesimi non siano in grado di accorrere per tempo alla chiamata del capogruppo: ma non è di questo caso che stiamo discutendo.
Dire quindi che lo scudo fiscale si sarebbe potuto bloccare, se fossero stati presenti i cinquanta deputati circa di opposizione che non hanno partecipato alla prima votazione sulle pregiudiziali di costituzionalità, è una colossale sciocchezza dacché, se costoro fossero stati presenti, nelle file della maggioranza sarebbero stati chiamati altri cinquanta deputati, con il medesimo risultato.
Questo meccanismo è perfettamente noto non solo ai cronisti parlamentari, ma anche a un qualsiasi studente del secondo anno di scienze politiche: il fatto è che la stampa ha montato un caso puramente demagogico, e a questo punto dobbiamo chiederci quali siano i motivi sottesi a ciò. Io non ho una risposta da fornire, anche perché non sono in grado di indicare con precisione da quale parte sia venuto lo scandalo: ben diverso infatti sarebbe se il caso fosse stato montato da Repubblica piuttosto che dal Giornale; per ora, quindi, dobbiamo (devo) sospendere il giudizio.
Ben diversa è la questione del secondo voto, quello definitivo sul provvedimento. Qui gli assenti erano solo ventinove, se non erro: ventinove voti che sarebbero stati del tutto ininfluenti, come nel caso precedente. C'è però una differenza, e marchiana! Nel secondo caso, infatti, i parlamentari d'opposizione venivano da una settimana in cui su tutti i giornali non s'era parlato altro che delle assenze in aula. Pertanto, con l'eccezione di quei due-tre (o cinque, o anche dieci) malati gravi, impossibilitati a muoversi, un minimo di rispetto dell'elettorato e di senso del proprio ruolo avrebbe dovuto spingere tutti gli eletti, a qualsiasi schieramento appartenessero, ad essere presenti alla votazione. Non sarebbe cambiato nulla, beninteso, ma il messaggio dato agli elettori sarebbe stato chiaro.
Alcuni eletti, dalla ciliciata alla figlioccia del Puffo Triste, hanno deciso di essere altrove: sapevano certo che la loro presenza in aula non avrebbe fatto respingere la legge, ma non hanno colto il significato politico della loro assenza. Circostanza gravissima per gente che pretende di fare il politico di professione, e che certo non riguarda il deputato Gaglione, che ha partecipato a meno del 10% delle votazioni e quindi, per usare un eufemismo, se ne strafrega.

Il fatto, però, è che il cardiologo Gaglione, quello che preferisce stare a Studio piuttosto che sedere in Aula, non è stato scelto dagli elettori, come ben sappiamo tutti; e questo ci porta ad affrontare la spiegazione non del tutto banale, che avevamo lasciato in sospeso.
C'era un tempo, quello della cosiddetta Prima Repubblica, in cui i partiti erano un discreto numero: una decina, più o meno, su base nazionale, oltre ad alcuni storici esponenti delle autonomie locali con un forte radicamento nelle regioni di confine.
La disciplina di partito era sentita: rigida per alcune formazioni e ferrea per altre. Rammento che mia madre comperava l'Unità, quando ancora non era diretta da Padellaro, e in prima pagina, in basso, compariva ogni settimana un boxino che diceva Tutti i deputati e le deputate del PCI sono tenuti senza eccezione alcunaad esser presenti a Montecitorio martedì e mercoledì; e il grassetto non è mio. Per quanto ovvio, non era neppur pensabile che un deputato del PCI votasse diversamente da come disponeva il Partito.
Gli altri partiti non avevano lo stesso piglio militaresco, ma la sostanza non cambiava di molto: i deputati dei gruppi votavano compatti. Ben diversa la situazione disciplinare a livello di partito: le maggioranze erano formate formale dalle più disparate composizioni di rami e rametti (id est partiti e partitini), ciascuno dei quali aveva le proprie istanze da portare e i propri obiettivi da raggiungere; il che faceva sì che il voto favorevole a ciascun provvedimento venisse, sovente, contrattato.

Barbarie!!!, gridò a un tratto Mariotto Segni, e ci avviò, con il consenso del 90% dei miei concittadini, verso un moderno sistema maggioritario, dove le maggioranze di governo non sono a rischio né sottoposte al ricatto del primo gruppuscolo. Un sistema solidamente maggioritario e bipartitico, come quello della più grande democrazia del mondo, gli Stati Uniti d'America.
Poi è arrivato Veltroni*, che questa fola se la beveva, e ancora ce la ammannisce.
Il fatto, vedete, è che io il sistema politico degli Stati Uniti d'America l'avevo studiato, sapevo come funzionava e sapevo che non c'entrava una cippa con quello che ci ha propagandato Mariotto Segni e via via nel tempo, fino a Veltroni (il quale nella sua oligofrenia si è convinto che fosse sufficiente dare al suo partito il medesimo nome di quello di Kennedy per sostituire nottetempo la Costituzione firmata da Terracini con quella firmata da George Washington; o forse non si tratta di oligofrenia, ma di semplice malafede).
Potrei farvi un pippone lungo almeno quanto quello che precede, ma fortunatamente non ce n'è bisogno perché proprio l'altra sera mi sono visto, to'!, un altro episodio di West wing, e precisamente S03E04: un vero puttanaio.
Il Presidente ha messo il veto ad una legge, e negli USA per superare il veto presidenziale ci vogliono due terzi dei voti delle camere. Il fatto è che il Presidente si accorge che questi due terzi ci sono, perché una certa parte di democratici voterà a favore della legge voluta dai repubblicani. come? E' inammissibile, tuonerebbe Mariotto. Ribaltone!!!
Ma in America le cose funzionano così; e non solo: perché finalmente si trova un deputato democratico che controlla quattro voti che sarebbero sufficienti a ribaltare l'esito della votazione, e che avvia con lo staff presidenziale una trattativa che al confronto un venditore di tappeti a Casablanca ha la stessa trasparenza di comportamento e stabilità di listino di un distributore automatico di preservativi fuori da una farmacia.
Né lo staff presidenziale è da meno, quanto a pelo sullo stomaco, dato che all'ennesima richiesta i due negoziatori mandano a quel paese il democratico (quello dello stesso partito del presidente!) e trovano un repubblicano al quale fanno le stesse offerte. e questi accetta di votare a favore del veto posto dal presidente repubblicano, ottenendo in cambio un vantaggio per le elezioni successive, vale a dire che i democratici gli schierino contro, al momento giusto, un avversario debole.
No, dico: capito come funzionano le cose in America? Dove c'è il bipartitismo, c'è pure una enorme autonomia dei singoli eletti: i partiti sono contenitori nei quali c'è un po' di tutto, e ciascun eletto si muove come crede. Tanto che al congresso non basta contare le sedie: bisogna anche sapere, provvedimento per provvedimento, come voterà ciascun deputato: il che è tutt'altro che scontato.
Anche noi abbiamo questo principio, all'art.67 della costituzione, che dice che i parlamentari sono eletti senza vincolo di mandato. Peccato che da tutte le parti (PD o PDL, non cambia) l'imposizione nei fatti del vincolo di mandato sia cosa fatta, con il meccanismo delle liste bloccate e con la deresponsabilizzazione del ruolo del parlamentare, che viene visto non a caso come uno schiacciatore di bottoni.
Qualcuno si è forse domandato se la Madia, qualora fosse stata presente in Aula, avrebbe votato a favore o contro lo scudo fiscale? No, perché è scontato che ella avrebbe votato contro, in quanto eletta nel partito di minoranza. Tanto che gli unici casi in cui il problema del scegliere da quale parte votare si è posto sono stati quelli riguardanti scelte cosiddette "di coscienza", sia in questa che nella precedente legislatura, come tutti ben ricordiamo. Come se solo l'autorità della morale, o meglio della Chiesa, potesse giustificare lo scioglimento del vincolo di mandato partitico.
Siamo tornati alla Prima Repubblica, quindi? No, ahimé: perché questa disciplina ferrea si sposa con una legge ipermaggioritaria che conferisce ad una coalizione la maggioranza assoluta dei seggi (e se fosse stato per Mariotto, tale maggioranza sarebba andata a un solo partito!); ma la maggioranza non viene costruita in Parlamento, come una volta accadeva, bensì al momento della presentazione delle liste, il che significa nelle segreterie dei partiti.
Il fatto che la coalizione sia predeterminata e sulla base di ciò premiata in caso di vittoria, rende assai difficile il suo scioglimento; e forse non hanno tutti i torti coloro che affermano che sarebbe dovere del Capo dello Stato sciogliere le Camere in caso di ribaltone, dal momento che parte dei deputati, quelli discendenti dal premio di maggioranza, devono la presenza in aula non al voto popolare bensì al premio discendente dalla vittoria della coalizione anziché del partito**.
Che abbiamo, dunque? Un Parlamento esautorato di qualunque potere e financo di qualunque dignità, in quanto privi di potere e di dignità sono i suoi componenti, mere estensioni della segreteria di partito, vere e proprie dita viventi. E delle segreterie di partito che non possono sfuggire alla coazione dello schieramento nel quale si sono infilate prima ancora della chiamata alle urne, e che sono costrette a recitare sempre il medesimo ruolo, incessantemente, come gli avari del quarto cerchio.
Chi tira le fila, dunque? Uno solo, il capo della coalizione vincente. O, più precisamente, chi tira le fila dell'organizzazione del partito di maggioranza, ed è in posizione tale da poter decidere incarichi e soprattutto determinare i nomi da inserire nelle liste elettorali e le relative posizioni nell'ordine di presentazione.
Se avete avuto la pazienza di seguirmi fin qui, mi chiedo, e vi chiedo: di fronte a questo squallido simulacro in cui si è ridotta la nostra democrazia, credete davvero che sia il caso di indignarsi perché la Melandri stava in Ispagna o la Madia dal dottore? Voi stessi, che vi indignate, vi rendete conto di quanto avete contribuito ad arrivare a questo punto? Certo, quando avete votato sì nel 1993 non vi aspettavate tutto ciò; e neppure quando avete inseguito le sirene del voto utile, lasciando in Parlamento un manipolo di entità le quali, tra le prime cose che hanno fatto, sono state ben attente ad autoperpetuarsi, garantendosi con le soglie di sbarramento che neppure alle elezioni europee le voci dissenzienti potessero farsi sentire.
Voci dissenzienti che peraltro hanno fatto di tutto per rovinarsi definitivamente, dal momento che sono riuscite, ciononostante, a presentarsi divise, mettendo in scena una rappresentazione canonica del dilemma del prigioniero, a dimostrazione del fatto che i matematici e gli economisti nella politica italiana sono troppo pochi.
Non crediate che io scagli pietre in quanto mi senta privo di peccati: io per primo, pur criticando i Segni, i Travagli, i di Pietri, gli utilitaristi del voto e compagnia cantante, non ho fatto proprio nulla per indirizzare le cose e le persone in altre direzioni: mi sono limitato a guardare e borbottare ogni tanto, come un vecchietto un po' tocco che si lamenta di questi giovinastri che girano per strada al giorno d'oggi.


*già: cito il nome, anche se porta sfiga, perché altrimenti comincio a somigliargli troppo
**si noti, tuttavia, che nell'attuale legislatura la vittoria della coalizione PdL-Lega è stata così schiacciante da rendere inutile il premio di maggioranza e quindi, paradossalmente, un ribaltone sarebbe politicamente accettabile.

mercoledì 29 aprile 2009

Articolo 138

Berlusconi ha dichiarato che per riformare la Costituzione l'opposizione non serve: ciò mi spinge a formulare un'osservazione e una considerazione.

L'osservazione.
I primi a modificare la Costituzione a colpi di maggioranza, nel 2001, furono quei partiti e quelle forze politiche che oggi costituiscono il Partito Democratico. Ricorderete la riforma approvata alla fine del secondo governo Amato, in un miope e vano tentativo di evitare una sconfitta elettorale che giunse, puntuale come una cartella esattoriale: e sonora.
Questa, del privilegiar la tattica alla strategia, e del saper perdere sia le battaglie che le guerre, sembra una caratteristica distintiva di questa sfortunata area politica, quella cosiddetta del centrosinistra senza trattino. Vedremo se, con il precedente del 2001, Franceschini avrà l'animo di rispondere a Berlusconi, consapevole com'è di tale peccato originale.

La considerazione.
Quei molti che ancora credono che i referenda proposti da Mariotto Segni abbiano un qualche valore farebbero bene a riflettere attentamente: considerare che un sistema elettorale il quale, a prescindere dalle candidature e dall'esito del voto, darebbe la maggioranza assoluta dei seggi a un solo partito, e attribuirebbe i seggi medesimi a persone nominate dai vertici dello stesso (e ciò indipendentemente dall'esito del terzo quesito referendario, mero specchietto per allodole), avrebbe il seguente effetto:
attribuire a una sola persona la potestà di cambiare la Costituzione.

Accennavo, tempo addietro, al fatto che la nostra Costituzione è stata pensata per funzionare in un regime parlamentare e proporzionale: e valga il vero.
L'Assemblea Costituente rispecchiava un Paese diviso in varie grandi correnti di pensiero: i cattolici e i comunisti, i principali; e i liberali e i socialisti, meno forti. Era certo ai costituenti che qualunque governo sarebbe stato necessariamente di coalizione tra queste correnti politiche e sociali, e difatti scrissero una Costituzione che rispecchiava tale assetto.
Venuti alla decisione su come modificarla, la Costituzione, si resero perfettamente conto che una maggioranza qualificata di due terzi avrebbe conferito a una delle due forze maggiori un potere di veto su qualunque modifica, mentre una maggioranza assoluta avrebbe comunque fatto sì che la modifica fosse condivisa almeno tra due delle correnti. Stabilirono così che la maggioranza necessaria per le modifiche costituzionali fosse assoluta e non qualificata, ma, per prevenire gli scollamenti tra Palazzo e Paese, stabilirono pure la sottoponibilità a referendum qualora la maggioranza raggiunta non fosse così plebiscitaria (il 67%!) da far presupporre juris et de jure la concordanza tra voto parlamentare e sentimento del Paese.

Qualunque modifica della legge elettorale che attribuisca la maggioranza assoluta dei seggi a una sola forza, anche debole del solo 25% dei voti, costituisce una evidente rottura di questo delicato meccanismo. Con l'attuale legge elettorale, che di fatto, mediante il meccanismo delle liste bloccate, cancella l'art. 67 (Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato), il sistema che si verrebbe a creare è definibile solo come bonapartismo; a voler esser delicati!

 

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