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venerdì 16 aprile 2010

La sentenza Google - le motivazioni /2

(prosegue da qui)

Questa volta ce la prendiamo (non è la prima volta) con Zambardino, il quale analizza la sentenza contro Google senza neppure averla letta.
Non ci scandalizziamo certo: in questi anni abbiamo imparato a conoscere il mondo dei commentatori in rete e sulla carta stampata, e non è certo questo il primo -né sarà l'ultimo- esempio di cattivo servizio al pubblico da parte dei professionisti dell'informazione.
Scrive, lo Zambardino che «La sentenza condanna Google solo per le infrazioni relative alla privacy, non per l’accusa di diffamazione, perché a seguito del ritiro della querela della persona offesa non si è potuto andare avanti su questo punto.» Scrive poi che «quando arriva a trattare dell’ipotesi di diffamazione, caduta per remissione di querela, che la prosa del dottor Magi è davvero allarmante.» Poi dice delle cose che non si capiscono, all'esito delle quali afferma che il giudice chiede «una legge che permetta di sanzionare non i responsabili dei reati – che è quanto di più ovvio – ma le responsabilità connesse».
tutto molto bello. Peccato che sia falso.

Come stanno in realtà le cose? Non è vero che l'ipotesi della diffamazione è caduta per remissione di querela. E' vero che il ragazzo ripreso nel video ha rimesso la querela, ma l'associazione Vivi Down, pure diffamata, non ha rimesso la propria querela, e quindi il procedimento è andato avanti anche per quanto riguarda questo capo d'accusa.
Non solo: il giudice ha anche disconosciuto le eccezioni della difesa, e statuito che la pubblicazione del video è stata diffamatoria verso l'associazione medesima.
La tesi dell'accusa basava la responsabilità di Google sull'art. 40 c.p., che dispone che «non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». In pratica si diceva: è vero che non è stata Google a pubblicare il video; ma Google aveva l'obbligo di impedirne la pubblicazione, e pertanto il non averlo fatto la mette nella stessa posizione di chi l'ha pubblicato. Sempre secondo l'accusa, l'obbligo di impedire la pubblicazione discendeva dalla normativa sulla privacy, che avrebbe imposto a Google un "controllo preventivo" su titti i contenuti pubblicati.
Cosa ha stabilito il giudice? Ha scritto che non esiste questo obbligo giuridico di controllo preventivo, ma anche che «non esiste la possibilità logica e umana di tale intervento sulla rete». Scrive inoltre:
Ed infatti, pur ammettendo per ipotesi che esista un potere giuridico derivante dalla normativa sulla privacy che costituisca l’obbligo giuridico fondante la posizione di garanzia, non vi è chi non veda che tale potere, anche se correttamente utilizzato, certamente non avrebbe potuto “ impedire l’evento” diffamatorio.
In altre parole anche se l’informativa sulla privacy fosse stata data in modo chiaro e comprensibile all’utente, non può certamente escludersi che l’utente medesimo non avrebbe caricato il file video incriminato, commettendo il reato di diffamazione. (...)
Per cui, nell’ipotesi in esame, l’obbligo del soggetto/web di impedire l’evento diffamatorio, imporrebbe allo stesso un controllo o un filtro preventivo su tutti i dati immessi ogni secondo sulla rete, causandone l'immediata impossibilità di funzionamento.
Considerata l'estrema difficoltà tecnica di tale soluzione e le conseguenze che ne potrebbero derivare , si è quindi in presenza di un comportamento “inesigibile”, e quindi non perseguibile penalmente ai sensi deIl’art. 40 cpv. CP.
Insomma: il giudice non sta dicendo che manca una buona legge che obblighi i provider a controllare preventivamente: sta dicendo che allo stato attuale della tecnologia tale controllo preventivo è impossibile, e quindi inesigible.
Ma c'è di più: dice ancora, il giudice, che esisterebbe una responsabilità penale solo qualora si potesse dimostrare la consapevolezza in capo a Google del contenuto delittuoso del video, è che tale consapevolezza è stata quasi dimostrata dall'accusa, ma a suo giudizio tale prova non è piena; e pertanto in assenza di una prova piena, gli imputati vanno assolti.
Il resto sono obiter dicta: considerazioni parallele alla sentenza, che hanno un proprio valore nell'inquadrare i motivi della decisione ma che non fanno propriamente parte della decisione. Tra questi c'è la molte volte citata frase «Perciò, in attesa di una buona legge che costruisca una ipotesi di responsabilità penale per il mondo dei siti Web (magari colposa, ed allora sì per omesso controllo), non resta che assolvere gli imputati dal reato di cui al capo A, reato che, così come formulato, non sussiste», che estrapolata dal contesto sembra avere un valore ottativo, ma che inquadrata nel resto della sentenza è una semplice constatazione.
Il medesimo giudice, peraltro, un paio di pagine dopo scrive che «In ogni caso questo giudice, come chiunque altro, rimane in attesa di una “buona legge” sull’argomento in questione: internet è stato e continuerà ad essere un formidabile strumento di comunicazione tra le persone e, dove c'è libertà di comunicazione c'è complessivamente più libertà, intesa come veicolo di conoscenza e di cultura, di consapevolezza e di scelta; ma ogni esercizio del diritto collegato alla libertà non può essere assoluto, pena il suo decadimento in arbitrio. E non c'è peggior dittatura di quella esercitata in nome della libertà assoluta : “legum servi esse debemus, ut liberi esse possumus” dicevano gli antichi e ,nonostante il tempo trascorso, non si è ancora arrivati a scoprire una definizione migliore.»

Come si faccia a scrivere che «Ma è proprio con sentenze come questa – in cui viene disatteso il rispetto dei principi più semplici di diritto e di buon senso – che si allontana internet dal resto del mondo civile, e che quindi lo si fa diventare far west» oppure che «quella di Milano era una sentenza molto Zeitgeist, molto in sintonia con certi umori repressivi. Lo confermo. Il giudice Magi fa tintinnare manette sul web. A futura, ma prossima, memoria» io proprio non riesco a comprenderlo.
L'unica spiegazione che mi viene in mente è che chi a suo tempo si è esposto propugnando una certa tesi (che la magistratura sia digiuna di tecnologia, che vi sia voglia di censura, che si voglia far uscire l'Italia dal consesso delle nazioni libere e civili) abbia dovuto fare ogni sforzo logico e argomentativo per trovare tracce di quella tesi nella motivazione della sentenza.

mercoledì 14 aprile 2010

La sentenza Google - le motivazioni

Sono molto interessanti, le motivazioni della sentenza contro Google. La trovate qui, e vale proprio la pena di leggerla (a partire dalla pag. 87, ché prima viene la ricostruzione probatoria).
Emerge anzitutto che il giudice monocratico ha capito come funziona la Internet molto meglio di tanti altri: dei pubblici ministeri, per cominciare, che (loro sì!) avevano impostato l'accusa in termini che avrebbero ammazzato ogni possibilità di sviluppo della rete in Italia; e meglio anche di tanti improvvisati commentatori, che hanno blaterato sciocchezze dopo la pronuncia del dispositivo di condanna, e pure ora citano brani a caso estratti dalla sentenza per dare l'impressione di un abominio giuridico-tecnologico.
La sentenza invece è un piccolo capolavoro di equilibrio, e dimostra che vi sono -anche in campi che non sono proprio coerenti con la propria formazione- giudici che riescono ad approfondire e capire.

Vediamo anzitutto le motivazioni per la condanna ai sensi del capo B d'imputazione: quello per la violazione della legge sulla Privacy.
Il giudice ricostruisce inizialmente il ruolo di Google, distinguendo tra hosting provider e content provider. Lo fa perché questa è stata l'impostazione dei PM, e conclude -conformemente a quanto affermato dall'accusa- che Google agisce come content provider piuttosto che come hosting provider. Dopodiché afferma che tale distinzione non serve a niente, dato che chiunque "tratti" i dati, anche solo per la mera raccolta, è sottoposto agli obblighi della legge sulla privacy.
Ma, si chiede il giudice, si può pensare che un qualunque fornitore di servizi su Internet sia tenuto a verificare preventivamente che ciascun contenuto sia in regola dal punto di vista delle autorizzazioni in tema di privacy? La risposta è negativa, sulla base del principio ad impossibilia nemo tenetur. E non vale la sentenza di Cassazione richiamata dall'accusa, che in tema di diritto d'autore aveva affermato la responsabilità penale di un provider in una fattispecie del tutto diversa.
Il fatto, afferma il giudice, è che "non esiste, a parere di chi scrive, perlomeno fino ad oggi, un obbligo di legge codificato che imponga agli ISP un controllo preventivo della innumerevole serie di dati che passano ogni secondo nelle maglie dei gestori o proprietari dei siti web, e non appare possibile ricavarlo aliunde superando d’un balzo il divieto di analogia in malam partem, cardine interpretativo della nostra cultura procedimentale penale".
E allora perché la condanna? Semplice: perché però "è imponibile un obbligo di corretta informazione agli utenti dei conseguenti obblighi agli stessi imposti dalla legge, del necessario rispetto degli stessi, dei rischi che si corrono non ottemperandoli", e di questo obbligo Google se ne è strafregato (mi sia consentito dire che anche questo l'avevo già scritto a suo tempo).
Google infatti ha nascosto l'informativa sulla privacy e sui relativi obblighi spettanti ai contributori all’interno di "condizioni generali di servizio" il cui contenuto appare spesso incomprensibile , sia per il tenore delle stesse che per le modalità con le quali vengono sottoposte all’accettazione dell’utente. E ditemi voi se, anche in base alla vostra esperienza, ciò risponda o meno al vero. Mi piace citarvi anche il seguente passaggio, sempre in termini di chiarezza della cosiddetta "informativa": Ad assoluta riprova di quanto fin qui riferito, nel momento in cui l’utente più attento e testardo di altri avrebbe voluto compulsare "i punti salienti della normativa sulla privacy di Google" avrebbe scoperto, al punto 2 della medesima ("Quali sono i dati personali e gli altri dati che raccogliamo") che "Google raccoglie dati personali quando vi registrate per accedere ad un servizio di Google ..": non vi è chi non veda che chiunque legga questa frase non può che pensare ai "propri" dati personali e non certo a quelli delle persone incautamente citate o riprese nei "contenuti autorizzati".
In sintesi: Google non è colpevole perché non ha verificato che per il video caricato fosse stato acquisito il consenso dell'interessato: dato che tale verifica sarebbe stata un compito impossibile. E' colpevole perché ha dato un'informativa sulla privacy fatta con i piedi; ed è soprattutto colpevole perché, essendo perfettamente cosciente del fatto che il servizio offerto è particolarmente rischioso dal punto di vista della privacy altrui (come emerge dall'istruzione probatoria), ha scientemente deciso di non evidenziare adeguatamente tale tema agli utenti al fine di massimizzare il numero di contributi raccolti e attraverso essi il profitto. Secondo il giudice, insomma, Google ha scelto di non mettere in guardia i contributori perché in tal modo avrebbe potuto raccogliere meno contributi, e quindi meno soldi. Ed è per questo, e solo per questo, che i suoi dirigenti sono stati condannati.
(continua)

martedì 13 aprile 2010

Lasciatemi citare

Qualche giorno fa avevo scritto un post sulla sentenza che ha condannato alcuni dirigenti di Google. S ene era parlato in rete, e soprattutto straparlato, da parte di un gran numero di argomentatori, si di estrazione tecnica che giuridica, e si era detto un po' di tutto e un po' il contrario di tutto.
In quell'occasione avevo scritto:
La possibilità che mi sembra più concreta (e che certo sarà smentita quando leggeremo le motivazioni, ma lasciatemi fantasticare un po') è che il giudice abbia riconosciuto che anche applicando pedissequamente la normativa sulla privacy, comunque non è detto che il reato sarebbe stato impedito.
.
Le motivazioni della sentenza sono state ora pubblicate, e nel passo fondamentale per l'assoluzione degli imputati (dal reato di diffamazione) il Giudice scrive proprio:
Ed infatti, pur ammettendo per ipotesi che esista un potere giuridico derivante dalla normativa sulla privacy che costituisca l’obbligo giuridico fondante la posizione di garanzia, non vi è chi non veda che tale potere, anche se correttamente utilizzato, certamente non avrebbe potuto "impedire l’evento" diffamatorio.

La sentenza è lunga e merita d'essere approfondita con la dovuta calma (che in questo periodo purtroppo non ho: mi fanno lavorare!), ma questa notarella volevo proprio buttarla giù di getto.

giovedì 25 febbraio 2010

Qualche nota a margine della sentenza contro Google

La filosofia di questo blog è che non si parla di cose serie se non le si conosce abbastanza da peter esprimere un parere meditato e motivato.
Quello che scrive qui non ha letto le motivazioni della sentenza (che non sono state ancora scritte) né ha avuto accesso agli atti processuali, e quindi dovrebbe tacersi): tuttavia una certa irritazione per aver letto tanti commentatori improvvisati fa sì che anch'io desideri sviluppare qualche ragionamento.
Possiamo partire da un documento pubblico: il decreto di citazione diretta a giudizio emanato dalla Procura della Repubblica di Milano nei confronti di cinque imputati, che contiene tre capi d'imputazione:

il primo, nei confronti di quattro imputati, per concorso in diffamazione: l'accusa è quella di aver concorso nell'offendere la reputazione del malcapitato soggetto brutalizzato nel filmino postato su Youtube e dell'associazione Vivi Down, alla quale sono state attribuite frasi ingiuriose (che non ritrascrivo, ma potete leggere nell'atto d'accusa);
- il secondo, nei confronti di tre imputati, per aver trattato illecitamente e a fini di profitto dati personali in violazione degli artt. 23, 17 e 26 della legge 196/2003;
- il terzo riguarda una vicenda meramente processuale e non ne parleremo.

Vediamo un po' il primo capo d'accusa: quello per diffamazione. L'accusa afferma che la responsabilità in capo a Google discende dall'art. 40 c.2 c.p., il quale a sua volta afferma che non impedire un evento che si ha l'obbligo di impedire equivale a cagionarlo.
Il concorso nel reato (che come ovvio è stato commesso da chi ha postato il filmino e ha scritto il commento infame) è attribuita a Google in base all'art. 40 2° comma c.p., vale a dire "per non aver impedito un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire"; e tale obbligo giuridico viene fatto risalire proprio alla normativa sul trattamento dei dati personali.
La legge sulla privacy entra quindi due volte nell'accusa: una volta, per sanzionare il fatto che Google si è strafregato del fatto che tramite la propria piattaforma tratta dati personali; la seconda, perché se non se ne fosse strafregato, Google avrebbe impedito la commissione di un reato (la diffamazione).

Il giudice, di questi due reati, ne ha riconosciuto solo uno: vale a dire l'essersi strafregato della normativa sul trattamento dei dati. Egli ha condannato Google a tale titolo, e quindi ha espressamente riconosciuto che Google avrebbe dovuto seguire la normativa in questione. Ma poi si è fermato: non ha cioé riconosciuto anche che da tale mancanza discenda anche la responsabilità per il reato di diffamazione, attraverso il meccanismo dell'art. 40 c.2 c.p.: e ha mandato assolti i dirigenti per tale capo d'imputazione.
Cosa può significare ciò? Ci sono varie possibilità sul tavolo: può essere anzitutto che il video non sia stato ritenuto diffamatorio: ma quest'ipotesi è così assurda che non la prendiamo neppure in considerazione.
Può essere che il giudice non abbia riconosciuto il concorso colposo in un delitto doloso, ma dato che non stiamo parlando di un concorso semplice nel reato, bensì di un concorso mediato dall'art. 40 c.2, anche tale eventualità appare remota.
La possibilità che mi sembra più concreta (e che certo sarà smentita quando leggeremo le motivazioni, ma lasciatemi fantasticare un po') è che il giudice abbia riconosciuto che anche applicando pedissequamente la normativa sulla privacy, comunque non è detto che il reato sarebbe stato impedito.
In altre parole: è possibile che il giudice abbia affermato che non sta a Google controllare uno per uno i contenuti che vengono postati su YouTube: o perché ciò è materialmente impossibile, o perché Google è un mero aggregatore di contenuti prodotti da terzi.
Certo, in questi giorni state leggendo dovunque delle opinioni opposte da parte di commentatori che si empiono la bocca di "libertà della rete", "filosofia di internet" e via discorrendo, tutte cose -detto per inciso- che non sono previste dai nostri codici. Ecco, io chiedo a costoro: come diavolo potete spiegare l'assoluzione per il concorso in diffamazione? Io l'unica spiegazione che vedo è che il giudice abbia ritenuto che Google non debba o non possa vagliare uno per uno i contenuti pubblicati; ma se qualcuno ne ha un'altra giuridicamente solida mi piacerebe leggerla.
Certo, c'è di contro la condanna per la violazione dell'art. 167 della legge 196: e anche questa condanna si spiega facilmente. Quella norma dispone che chi effettua a fine di profitto o di altrui danno (insomma: non per hobby) trattamenti di dati, sensibili o meno, debba assumere una serie di precauzioni e cautele.
Secondo l'accusa (e quindi con tutta probabilità secondo il giudice) Google non si è preoccupato dell'esistenza di una normativa del genere in Italia, e ha messo in piedi il servizio Google Video aprendolo a cani e porci senza alcun controllo preventivo: e non lo dico io bensì il capo d'accusa:
Trattamento omesso - anche in relazione alle concrete misure organizzative da apprestare, idonee alla sua successiva attuazione - fin dalla fase antecedente alla effettiva localizzazione del servizio Google Video (…), non avendo né i due rappresentanti legali di Google Italy, né il responsabile del progetto Google Video (…) né tantomeno il Global Privacy Counsel di Google Inc. affrontato la problematica relativa alla protezione dei dati personali che sarebbero stati trattati in relazione a Google Video, che invece veniva volutamente lanciato come servizio ‘dì “libero accesso” dopo una attenta analisi del mercato italiano
Quali le conclusioni da trarre? non ne ho, in quanto stiamo discorrendo sul nulla o quasi: e difatti ho intitolato questo post "note a margine"; ma vorrei sottolineare due cose: una che forse sia un po' troppo presto per stracciarsi le vesti; l'altra, che commentare i dispositivi delle sentenze è un esercizio intellettuale che può anche essere divertente, ma che serve a ben poco in quanto al mero dispositivo si può far dire tutto e il contrario di tutto.

mercoledì 17 febbraio 2010

Cose fatte per bene

L'essermi trovato la mia ex moglie tra i follower su Google Reader mi ha fatto ritenere che la misura fosse colma, e che pertanto Buzz non meritasse di avere ancora neppure un minuto di vita, per quanto mi riguarda.
Intendiamoci: non che avessi nulla da nascondere (il mio blog, il mio reader, il mio profilo su friendfeed sono rigorosamente pubblici). Ma altro è lasciare che la gente ti possa cercare, confidando nel fatto che mai si metterà a farlo per assoluto disinteresse e incapacità tecnica, altro invece è andare a bussare alla sua porta dicendogli: «ehi, guarda, quel tipo scrive delle cose, leggile, dai!».
Così ho trovato l'opzione per disabilitare completamente Buzz, che ho azionato senza pensarci troppo e senza stare a leggere tutta la pappardella. E mi sono cancellato anche tutti i follow che avevo coltivato su reader nel corso del tempo.
Google questa volta ha fatto un bel lavoro, non c'è che dire.

mercoledì 16 dicembre 2009

Il bidone della pattumiera

C'è questo post di Luca Lani (hat tip Annarella) che spiega come e perché il web stia diventando un gran puttanaio, in cui gli articoli di qualità sono pochi, quelli di scarsa qualità tanti e le copie scopiazzate degli articoli di bassa qualità la grande maggioranza.
Colpa di Google, afferma il Lani, il quale cita anche un ulteriore pezzo sulla frustrazione di chi cerca una recensione su di un oggetto in rete, e trova quasi solo spam.
La tesi infatti è che, dato che Google non fa alcuna differenza tra notizia originale buona, notizia cattiva e notizia copiata, sia molto più conveniente produrre schifezze a basso costo che merce pregiata, dato che per l'utente finale la cacca e la panna montata hanno la stessa visibilità.

Contemporaneamente, assistiamo ad un levare di scudi per la decisione che qualcuno di Google avrebbe preso di censurare le fotografie di Berlusconi ferito al volto (uso il condizionale perché la mia religione impedisce di cercare foto di Presidenti del Consiglio in carica feriti al volto, e quindi non so se ciò sia proprio vero, e il verbo "censurare" lo metto in corsivo acciocché ciascuno possa sostituirlo con quanto meglio gli aggrada).

Caratteristica comune ai due temi sopra accennati è che in entrambi i casi si opera una confusione tra Google e Internet: ragionata e argomentata nel primo esempio, dato che gli autori citati sanno di cosa stanno parlando ma guardano all'effetto sul consumatore finale, meno smaliziato; istintiva nel secondo caso, in cui le accuse di censura arrivano dal basso.
La mia personale opinione è perfin banale, ma dato che l'attualità italiana non offre spunti di conversazione di levatura tale da dedicar loro di tre minuti del mio tempo, ho pensato di esprimerla lo stesso, per riempire una paginetta.
C'era un tempo in cui cercare le cose in rete era un'arte. Arte in senso proprio: tutti erano capaci di scrivere una parola su Altavista, ma più difficile era trovare qualcosa che parlasse proprio di quanto si cercava, e più difficile ancora valutare l'affidabilità di quanto rinvenuto.
Poi è arrivato Google, e tutto è divenuto più semplice: è come se ci avessero messo il servosterzo.
Io, che come prima macchina ho avuto una 127, ho imparato a parcheggiare senza il servosterzo, e ora quando guido la vecchia Twingo di mia madre -che il servosterzo non ce l'ha- parcheggio sempre malvolentieri, dato che si fa fatica: ma ci riesco. Chi ha imparato a guidare con il servosterzo, invece, trova impossibile parcheggiare senza quell'ausilio meccanico. Lo stesso, detto fra noi, vale per il condizionatore, che io ho tenuto rigorosamente spento anche quel giovedì in cui attraversavo la Sardegna in fiamme, con il termometro esterno che segnava 46 gradi, e ripercorrevo la strada che tante volte avevo fatto, quasi con lo stesso caldo, nella 124 di mio padre.

Ma torniamo alla rete: io non so se Google stia o meno diventando inaffidabile, se soffra di un momentaneo squilibrio di crescita o se sia avviato alla decadenza per gigantismo sulla falsariga dell'Impero Romano.
Credo però che il fatto di dover ragionare sulla qualità dei contenuti che ci vengono sottoposti, e quindi di imparare (o re-imparare) a distinguere tra verità e corbellerie, tra interventi originali e idee bizzarre e astruse, non possa che fare del bene agli utenti ed in ultima analisi anche alla rete stessa.
Se oggi il concetto stesso di "ricerca scolastica" si confonde con "ricerca su Google di una articolo copincollabile", allora la presenza in rete di tanta fuffa forse farà sì che lo studente di turno sia costretto a porsi il problema dell'attendibilità di ciò che copincolla; e così facendo sarà costretto a prendere conoscenza dell'argomento studiato.
Del pari, chi sarà riuscito a costruirsi una patente di credibilità, per aver scritto nel corso del tempo cose costantemente sensate e anche modestamente originali, dovrà per forza di cose vedere questa sua fatica premiata, acquisendo una credibilità maggiore rispetto a quella di chi si limita a tumblare ossessivamente cose altrui (che è una pratica non disdicevole, per carità; ma che certo non comporta un gran sacrificio di tempo e neuroni).

In conclusione: io non sono certo che Google stia diventando un bidone della pattumiera con dentro anche qualche portafogli smarrito; ma se così fosse, comunque la cosa non mi preoccupa perché confido che anche in futuro sarò in grado di distinguere i portafogli pieni dalla carta del formaggio; e che coloro che adesso non lo sanno fare dovranno giocoforza imparare a farlo, e alla fine ne saranno contenti.

mercoledì 3 settembre 2008

Chrome

Ne parlano tutti, tanto vale che ne parli anch'io.

La pervasività di google non mi piace.  Non mi preoccupa, ma non mi piace. Preciso ancor meglio: non è che mi dispiaccia, semplicemente non mi fa piacere.

E non è che mi senta in pericolo: gli ho affidato mail, blog e ogni giorno lascio che filtri la mia conoscenza.  Sono consapevole di cosa sto facendo, e so bene che dieci anni fa sarei stato più libero di cercare, non certo di trovare.

Mi preoccupa il fatto che sebbene la mia sia una consapevolezza critica, maturata attraverso venticinque anni di confronto con le macchine e con chi le governa, cionondimeno è una consapevolezza di nicchia: l'uomo della strada -ma anche il giornalista- digita e beve il risultato, acriticamente.  E con ciò accetta di vedere solo una fetta di realtà, senza accorgersene: come nella caverna di Platone.

Mi piacerebbe che le lezioni di +ORC fossero rese obbligatorie: non quelle tecniche ormai irrimediabilmente archeologiche, bensì quelle sul social engeenering, ancora attuali pur se la realtà è andata ben oltre l'allora immaginabile.

Non ho capito bene come fa Opera a vivere: neanche ciò mi piace molto, ma per ora continuo a usarlo (e mi consente di mettere i tab sotto, to')


 

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