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lunedì 29 novembre 2010

Attacca la spina!

Non ci sarebbe bisogno di spenderci più di quindici secondi, per sbufalare l'ennesima sciocchezza che circola per la rete e che si amplifica di tastiera in tastiera: quella secondo cui il Governo avrebbe emanato una legge che obbliga chiunque a chiamare un installatore per attaccare il modem/router comperato da Euronics o da Mediaworld alla presa del telefono, pena sanzioni fino a 150.000 euri.
Sembra proprio che la Rete stia evolvendo verso un modello ben preciso: quello per il quale di fronte a una notizia -o una voce- che ha dell'incredibile, non ci si sofferma un secondo a chiedersi: «ma sarà mai possibile, questo fatto?» bensì si accetta supinamente l'informazione ed anzi la si diffonde.
Se una donna con seri problemi psichiatrici svacca per frustrazioni sul lavoro, non ci si chiede se per caso non avrebbe bisogno di un po' di vacanza, ma si accettano tutte le cazzate che racconta anche quando le varie versioni della sua realtà cominciano a contraddirsi fra loro.
Se un gruppo di liberisti giavazziani s'inventa di sana pianta un numero astronomico per sostenere il proprio punto di vista in una consultazione referendaria, non si va a leggere l'articolo per cogliere le sue contraddizioni, ma si propala la cazzata che diventa dato incontestabile perfino in TV.
E' così, purtroppo, a tutti i livelli di approfondimento: e mi perdoneranno gli amici che fra gli altri ho linkato, a dimostrazione che questo fenomeno colpisce tutti indistintamente.

Finita la premessa, vediamo lo smontaggio della bufala.
Il Governo ha emanato un D.Lgs. in attuazione della direttiva 2008/63/CE, che all'art. 2 recita:
1. Gli utenti delle reti di comunicazione elettronica sono tenuti ad affidare i lavori di installazione, di allacciamento, di collaudo e di manutenzione delle apparecchiature terminali di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a), numero 1), che realizzano l’allacciamento dei terminali di telecomunicazione all’interfaccia della rete pubblica, ad imprese abilitate secondo le modalità e ai sensi del comma 2.
2. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, il Ministro dello sviluppo economico, adotta, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, un decreto volto a disciplinare:
a) la definizione dei requisiti di qualificazione tecnico-professionali che devono possedere le imprese per l’inserimento nell’elenco delle imprese abilitate all'esercizio delle attività di cui al comma 1;
b) le modalità procedurali per il rilascio dell’abilitazione per l’allacciamento dei terminali di telecomunicazione all’interfaccia della rete pubblica;
c) le modalità di accertamento e di valutazione dei requisiti di qualificazione tecnico-professionali di cui alla lettera a);
d) le modalità di costituzione, di pubblicazione e di aggiornamento dell’elenco delle imprese abilitate ai sensi della lettera a);
e) le caratteristiche e i contenuti dell’attestazione che l’impresa abilitata rilascia al committente al termine dei lavori;
f) i casi in cui, in ragione della semplicità costruttiva e funzionale delle apparecchiature terminali e dei relativi impianti di connessione, gli utenti possono provvedere autonomamente alle attività di cui al comma 1.
La notizia viene ripresa da un po' di guru, uno dei quali (Quintarelli) conclude che: «Se vuoi attaccare un oggetto alla rete (non terminale/pc, ma router, switch, ecc), devi essere un installatore iscritto all'albo (per tutto, eccetto ciò che verrà esplicitamente escluso (2.f)) pena sanzione da 15.000 a 150.000 euro».
Punto Informatico (che eoni fa si poteva ancora leggere, ma adesso brrr...) riporta la notizia in questi termini: «nel decreto del Consiglio dei Ministri del 22 ottobre 2010 si legge che se si vuole installare un device e collegarlo alla rete di comunicazione pubblica, occorre chiamare un installatore iscritto all'albo. In altre parole: se sei deve installare un router, uno switch, qualsiasi dispositivo che si colleghi in Rete, occorre chiamare un tecnico iscritto all'albo: prevista, in caso contrario, una sanzione da 15.000 a 150.000 euro.»
Noterete che di passaggio in passaggio è caduta l'eccezione di cui al punto 2.f, che Quintarelli aveva correttamente riportato, pur facendo mordere dal tarlo del dubbio i lettori. Lettori che, a loro volta, sembrano non porsi il problema di quali diavolo potranno essere quelle eccezioni che il D.Lgs. espressamente prevede, dando per scontato che non ve ne saranno, o che comunque non includeranno i modem/router comperati all'Euronics, e questo in forza del Gran Complotto Degli Installatori Professionisti Che Non Vogliono Perdere Occasioni D'Affari.
Stupisce che Giulietto Chiesa non abbia pubblicato una vibrata nota, dato che di certo il GCDIPCNVPODA ha una sua qualche responsabilità anche nel crollo delle Torri. Ma arriverà presto, dato che perfino il Sole 24 Ore riprende la notizia, stavolta facendo cadere i residui condizionali e dandola per certa e definitiva: «Un decreto legislativo approvato dal consiglio dei ministri il 22 ottobre scorso stabilisce che chi collega alla rete pubblica un semplice decoder o un modem esterno al pc, cioè qualsiasi «terminale di telecomunicazione» dovrà in futuro affidarsi a un tecnico di un'impresa abilitata a quest'attività. Pena una pesantissima sanzione da 15mila a 150mila euro.»

Bene: vogliamo vedere come è disciplinata oggi la materia dell'installazone di apparati che si collegano alla rete pubblica? Oggi, e ancora per 12 mesi, è vigente la Legge 28 marzo 1991, n.109, espressamente abrogata dal nuovo D.Lgs. Tale legge all'art. 5 recita:
Il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentiti il consiglio di amministrazione del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e il consiglio superiore tecnico delle poste, delle telecomunicazioni e dell'automazione, adotta con proprio decreto disposizioni di attuazione concernenti, in particolare:
a) i requisiti che le imprese che intendano provvedere alle operazioni di cui al comma 3 devono possedere per conseguire l'autorizzazione di cui al medesimo comma;
b) le prescrizioni per l'installazione, il collaudo, l'allacciamento e la manutenzione delle apparecchiatura terminali;
c) il contenuto e le modalità delle certificazioni che le imprese autorizzate debbono rilasciare all'abbonato ed al gestore pubblico, all'atto del collaudo;
d) i casi in cui, in ragione della semplicità costruttiva e funzionale dell'apparecchiatura, l'abbonato può provvedere direttamente alle operazioni indicate alla lettera b);
e) le modalità per la sorveglianza, da parte del gestore del servizio pubblico, sulla rete e sulle apparecchiature ad essa collegate;
f) le modalità e i tempi per la risoluzione dei rapporti intercorrenti fra gli utenti ed il gestore del servizio pubblico relativamente alla locazione ed alla manutenzione delle apparecchiature terminali.
g) l'adozione, previa diffida, dei provvedimenti di sospensione e di revoca dell'autorizzazione di cui al comma 3;
h) l'adozione, previa diffida, dei provvedimenti di sospensione e di risoluzione del contratto di abbonamento nei confronti degli utenti.
Non è che ci voglia un genio per rilevare che la nuova normativa, per quanto riguarda gli utenti comuni, è semplicemente il copincollamento della precedente, ora vigente.
Se poi vi chiedete come mai nessuno sia venuto a bussarvi a casa per irrogarvi sanzioni, sappiate che il D.M. 23 maggio 1992, n. 314 (quello espressamente previsto dalla legge sopra citata) prevede all'art. 5 che «Gli abbonati possono provvedere direttamente all’installazione, al collaudo, all’allacciamento ed alla manutenzione di apparecchiature terminali omologate con capacità non superiore a due linee urbane, qualora l’allacciamento alla terminazione della rete pubblica richieda il solo inserimento della spina nel relativo punto terminale.»

Credo di avervi annoiato abbastanza, ma sarebbe il caso di notare ancora due cose: primo, non esiste alcuna ragione di ritenere che il nuovo decreto attuativo muterà la situazione di fatto oggi esistente. Se nel 1992 il legislatore aveva previsto che l'utente potesse attaccarsi da solo il modem, non si vede perché ciò debba venir meno nel 2010: o chi ha rilanciato la notizia ha precise informazioni, in quanto parte del Grande Complotto, o è un Grande cYaltrone.
Secondo, se proprio vogliamo fare i sofisticati, nessuno dei Guru cYaltroni ha notato che secondo la legislazione attualmente vigente, perlomeno interpretata nel senso letterale*, per attaccare un PC (o anche un televisore con interfaccia di rete) al router mediante la scheda wireless, allora sì che sarebbe necessario l'intervento dell'installatore, dal momento che, come ovvio, il collegamento Wi-Fi non può avvenire "inserendo la spina nel relativo punto terminale".



* E' invero possibile anche costruire un'interpretazione logica che porti a conclusioni diverse, per quanto per far ciò sia necessario stirare il significato dei termini del DM siano al punto di rottura del buon senso.

giovedì 18 novembre 2010

Sciogliere una sola camera

Nei giorni scorsi l'attenzione dell'opinione pubblica, perlomeno quella che si occupa un po' di politica e istituzioni, è stata catturata dalla discussione sulla proposta di Berlusconi di riesumare l'art. 88 della Costituzione, quello che prevede che il Presidente della Repubblica possa «sciogliere le Camere o anche una di esse».
Che si trattasse di una sciocchezza, in termini politici, l'hanno detto in tanti: primo fra tutti il prof. Zagrebelsky in un lucidissimo articolo.
Sta di fatto però che l'art.88 dice quel che dice: e quindi se da un lato ha perfettamente ragione Zagrebelsky, a dire che non ha senso che venuta meno la maggioranza in una camera sia sciolta solo questa, ciononostante la Costituzione prevede proprio questa possibilità.
Per spiegare la discrasia bisogna scavare un po' nella storia costituzionale, dove si scoprono delle cose curiose e interessanti.
La Commissione dei Settantacinque, incaricata della redazione del progetto e presieduta da Meuccio Ruini, stabilì in cinque anni la durata di entrambe le Camere. Durante la discussione in assemblea, tuttavia, emerse la linea di Francesco Saverio Nitti il quale, innamorato delle istituzioni americane e francesi, spingeva per avere una Camera bassa di breve durata, che potesse essere sciolta dal Presidente, e Senato che non si potesse sciogliere e fosse rinnovato biennalmente solo per una parte, analogamente a quanto avviene per il senato USA.
Non deve neppure stupire troppo la proposta di mandare alle urne il Paese ogni due anni: i costituenti, uscendo dal Ventennio, avevano un fortissimo desiderio di favorire la consultazione popolare: fosse per il Progetto, oggi avremmo un referendum alla settimana o giù di lì!
Il Nitti poi, non aveva compreso che una Camera Alta di quel tipo ha un senso in un sistema presidenziale, nel quale il governo non deve avere la fiducia delle Camere: ma in un sistema parlamentare no: ad ogni rinnovo parziale o totale di una delle Camere il Governo sarebbe tenuto a ripresentarsi per ottenere la fiducia.
In effetti, guardando le cose un po' più lucidamente per effetto dell'esperienza, possiamo dire che in una repubblica parlamentare con un bicameralismo perfetto non solo non ha senso il rinnovo periodico di una parte di una Camera, ma neppure una durata temporale diversa delle stesse: ma ancora la cosa non era chiara.
Alla fine le varie proposte andarono in votazione: fu respinto il principio del rinnovamento periodico parziale e, dopo aver confermato la durata quinquennale della Camera, si passò a determinare quella del Senato.
Qui fu Roberto Lucifero, che già aveva parlato contro il rinnovamento, a proporre che il Senato dovesse avere una durata maggiore, e non sulla base di argomenti istituzionali bensì squisitamente pratici dacché: «Dovremmo impedire la simultaneità delle elezioni, cioè la confusione infinita che si creerebbe nel Paese per una contemporanea consultazione elettorale, col sistema proporzionale e col collegio uninominale, con l'incrociarsi e il confondersi delle due lotte politiche, per cui la gente, che non passa la vita su questi problemi, sarebbe nell'assoluta impossibilità di esprimere una opinione che significhi qualche cosa. Noi dobbiamo stabilire per il Senato una durata maggiore o minore, ma dobbiamo fare in modo che le elezioni non coincidano, altrimenti fabbricheremmo una Torre di Babele.».
Fu così che la durata della Camera fu fissata in cinque anni e quella del Senato in sei. Se poi vi siete mai chiesti come mai il Presidente della Repubblica duri sette anni, ecco il motivo.
Il sistema, così congegnato, durò fino al 1963, anche se in effetti sia le elezioni del '53 sia quelle del '58 furono fatte per entrambe le assemblee, in quanto il Senato venne sciolto anticipatamente. Ma, almeno per quanto riguarda l'elezione del 1953, ciò non fu dovuto a un ripensamento del sistema, bensì a un fatto contingente abbastanza curioso.
Solo che adesso ha smesso di piovere e riesco a scappare a casa, per cui ve lo racconto un'altra volta.

martedì 19 ottobre 2010

Mangiapreti

Gran festa, oggi, per il fatto che verrà abolita l'esenzione ICI per la Chiesa. Repubblica, per dirne una, ci ha fatto un bell'articolone soddisfatto.
Come ha (tardivamente) scoperto il cronista, nello scorso agosto il Governo ha approvato un provvedimento con il quale si istituisce l'imposta municipale propria, che andrà a sostituire l'ICI. La normativa sulla nuova imposta richiama le esenzioni attualmente esistenti per l'ICI, ma con qualche eccezione.
Qui sotto vi riporto le esenzioni attualmente esistenti in tema di ICI, e in grassetto quelle che non sono state confermate dalla nuova imposta. Appongo qualche omissis al testo originale della legge ICI, che comunque potete trovare qui, ma solo al fine di rendere più scorrevole le lettura, e in corsivo riporto qualche nota esplicativa tratta da questa guida.
a) gli immobili posseduti dallo Stato, dalle regioni, dalle province, nonche' dai comuni..., dalle comunita' montane, dai consorzi fra detti enti, dalle unita' sanitarie locali, dalle istituzioni sanitarie pubbliche autonome..., dalle camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali;
b) i fabbricati classificati o classificabili nelle categorie catastali da E/1 a E/9 (si tratta di edifici ad uso pubblico quali stazioni, ponti, fortificazioni, fari etc.);
c) i fabbricati con destinazione ad usi culturali di cui all'articolo 5- bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601, e successive modificazioni (si tratta di immobili integralmente adibiti a sedi, aperte al pubblico, di: musei, biblioteche, archivi, cineteche, emeroteche, per i quali al possessore non deriva alcun reddito dall’utilizzazione dell’immobile stesso).
  d) i fabbricati destinati esclusivamente all'esercizio del culto, purché compatibile con le disposizioni degli articoli 8 e 19 della Costituzione, e le loro pertinenze (esempi di pertinenze sono: l’oratorio, l’abitazione del parroco, il cinema parrocchiale, purchè non destinato ad attività di carattere commerciale);
e) i fabbricati di proprieta' della Santa Sede indicati negli articoli 13, 14, 15 e 16 del Trattato lateranense, sottoscritto l'11 febbraio 1929 e reso esecutivo con legge 27 maggio 1929, n. 810;
f) i fabbricati appartenenti agli Stati esteri e alle organizzazioni internazionali per i quali e' prevista l'esenzione dall'imposta locale sul reddito dei fabbricati in base ad accordi internazionali resi esecutivi in Italia;
g) i fabbricati che, dichiarati inagibili o inabitabili, sono stati recuperati al fine di essere destinati alle attivita' assistenziali di cui alla legge 5 febbraio 1992, n 104, limitatamente al periodo in cui sono adibiti direttamente allo svolgimento delle attivita' predette (Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate);
h) i terreni agricoli ricadenti in aree montane o di collina delimitate ai sensi dell'articolo 15 della legge 27 dicembre 1977, n. 984;
i) gli immobili [utilizzati da enti e privati non a fini di lucro] destinati esclusivamente allo svolgimento di attivita' assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive... nonche' delle attivita' di cui all'articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222 (quest'ultima norma si riferisce alle "attività dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana". Sono invece espressamente escluse dall'esenzione ICI, in quanto enumerate dalla lettera b) del medesimo articolo, le "di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro").

Dunque, con la nuova imposta i seminari e i convitti missionari gestiti dalla Chiesa pagheranno l'ICI (anzi: l'IMP), mentre le scuole private, come pure gli immobili a fini assistenziali e di beneficienza la pagavano già. In compenso pagheranno l'ICI pure tutti gli immobili adibiti a musei, biblioteche, archivi, cineteche, emeroteche etc. non a fini di lucro. Pagheranno pure l'IMP gli immobili inagibili utilizzati a fini di assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Pagheranno pure l'IMP tutte le ONLUS che svolgono attivita' assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive.

Trovate che davvero ci sia da inalberare il gran pavese e stappare lo champagne?

sabato 21 agosto 2010

Una repubblica presidenziale

Nei giorni scorsi abbiamo ferocemente criticato Repubblica per la campagna condotta a tambur battente sulle proprie pagine in relazione alla nuova normativa sulla definizione transattiva dei contenziosi fiscali giunti in Cassazione. Quelli di Repubblica hanno molta più pazienza di me e continuano a battere ogni giorno sullo stesso tasto, mentre io quel che avevo da dire l'ho già detto, per cui mi taccio.
Certo, questa insistenza, che non è stata ripresa da alcun altro organo d'informazione (e ciò per ammissione dello stesso giornale che conduce la battaglia), appare bizzarra: sembrerebbe quasi che il giornale di De Benedetti abbia dei propri conti in sospeso con la casa editrice che ora appartiene a Berlusconi; ma qui non samo andreottiani e non ci permettiamo di pensar male in quanto non sempre ci si indovina.

Per tranquillizzare i cinque lettori del blog, che potrebbero credere che anche io abbia una questione personale, ma con il quotidiano fondato da Scalfari, cambierò argomento e parlerò di un'altra questione che sta a cuore a Repubblica, tanto da avervi dedicato una corposa serie di articoli.
Come ben sapete, le truppe del PresConsMin da un po' di tempo affermano che in caso di rottura della maggioranza che attualmente sostiene il governo non si potrebbe che andare alle elezioni. La questione è stata avanzata da vari esponenti, variamente motivata e alcune volte ritrattata, anche a seguto degli interventi del Quirinale. Repubblica ha dedicato, come dicevo, ampio spazio ad articoli di illustri costituzionalisti che hanno spiegato con grande competenza perché la pretesa del PdL sia una fola che non sta né in cielo né in terra.
L'unico problema è che, a mio avviso, queste spiegazioni sono risultate un po' troppo tecniche, talché mentre appaiono del tutto chiare a una persona con una certa infarinatura di diritto costituzionale (e che perciostesso non ne avrebbe avuto bisogno), di contro possono risultare ostiche o fumose a chi nella vita si occupi di tutt'altro.
Secondo me è un peccato, dato che la spiegazione poteva essere fornita, a mio parere, anche in modo molto più semplice consentendo al grande pubblico di costruirsi meglio la propria opinione: per cui ci provo.
La tesi di Berlusconi e dei suoi portavoce è che con la nuova legge elettorale, che consente e anzi di fatto obbliga i partiti a costituire schieramenti e a designare un capo il cui nome viene indicato nella scheda elettorale, sia avvenuta una rivoluzione nella nostra "Costituzione materiale". Quest'ultimo termine per i costituzionalisti indica una parte di norme che non sono esplicitamente scritte nella Carta, ma sono andate ad integrarla in alcuni punti, per effetto della consuetudine e della prassi.
Dicono, i seguaci del PresConsMin, che per effetto della designazione di Berlusconi come capo dello schieramento che ha vinto le elezioni, il popolo gli abbia conferito il mandato di governare; e dato che la sovranità appartiene al popolo ai sensi dell'art. 1 della Costituzione (nientemeno!) nessun altro possa porre in essere alcunché in ispregio a tale indicazione: pertanto né Napolitano potrebbe conferire un incarico ad altri se non Berlusconi, né i parlamentari potrebbero votare la fiducia o la sfiducia, se non in conformità all'indicazione dello schieramento nelle file del quale sono stati eletti. Quest'ultimo punto poi sarebbe rafforzato dalla circostanza che i parlamentari attualmente non sono scelti dal popolo bensì di fatto nominati dalle segreterie degli schieramenti stessi, anche se la cosa viene fatta passare sotto silenzio perché il porcellum è già talmente inviso a gran parte dell'opinione pubblica da non costituire un valido appiglio dialettico.
Il discorso fila liscio ed è ben argomentato: ma è un mero sofisma, costruito da chi è abile a giocare con le parole ma che si può smontare facilmente una volta trovato il bandolo della matassa.

Bisogna sapere, anzitutto, che il concetto di "Costituzione materiale" esiste, ma si tratta di regole che possono integrare, ma non certo emendare o smentire, quelle della "Costituzione formale", vale a dire quanto sta scritto nero su bianco nel testo ufficiale.
Ora, nella nostra Costituzione ci sono ben due articoli che dicono l'uno che il Presidente della Repubblica sceglie il Presidente del Consiglio dei Ministri, e l'altro che i parlamentari esercitano la loro carica senza vincolo di mandato, cioè senza rispondere del proprio voto ad alcuno se non alla propria coscienza (e, in caso di ricandidatura, ai futuri elettori).
Ora, ammettiamo pure che con la nuova legge elettorale sia avvenuto un mutamento della forma costituzionale dello Stato, che ora sarebbe di fatto una Repubblica presidenziale, o anche solo che la legge in questione possa influire, sia pur minimamente, sulle prerogative del Presidente della Repubblica o sulla libertà del parlamentare eletto. Ebbene, ciò non è possibile.
La nostra infatti è una Costituzione rigida, vale a dire una Costituzione che non può essere modificata con una legge ordinaria; e dato che la legge elettorale è stata approvata in forma ordinaria, i casi possibili sono solo due: A) la legge elettorale non vìola la Costituzione (e pertanto quanto affermano i Berlusconiani è fuffa) oppure B) i Berlusconiani hanno ragione (e pertanto la legge elettorale vìola la Costituzione e, quindi, è incostituzionale).
E' questo un classico caso in cui tertium non datur: bisogna scegliere se stare dalla parte A) o dalla parte B), ma in ogni caso non si può stare dalla parte di Berlusconi.

Sarebbe bello poter dire che in conseguenza di quanto sopra indicato il porcellum è incostituzionale, ma, ahimè, ciò non è per nulla scontato: difatti uno dei principi del nostro ordinamento è che le norme vanno interpretate non isolatamente, bensì anche nel quadro sistematico delle altre norme, prima fra tutte la Costituzione. E, pertanto, se è possibile dare più interpretazioni di una legge, deve essere scelta tra queste quella che rispetta la Costituzione: solo qualora non vi sia alcuna scelta in tal senso possibile, infatti, una legge può essere dichiarata incostituzionale.
Ci teniamo il porcellum, dunque; ma possiamo rimandare al mittente la pretesa di Berlusconi e accoliti di avere, essi soli, il diritto di governare.

domenica 8 agosto 2010

Piccole lezioni di diritto ad uso di chi non ha una laurea in Giurisprudenza /2

Sulla Repubblica di oggi c'è un articolo che dà conto dei rilievi formulati da due legali de La Destra che riguardano la famosa compravendita della casa di Montecarlo, già di AN e nella quale per una serie di circostanze non chiare è andato a stare il fratello della compagna di Gianfranco Fini.
Si tratta di una gran quantità di sciocchezze.
Nella ricostruzione di Repubblica, la tesi dell'avv. Marco Di Andrea sarebbe la seguente: "Il senatore Francesco Pontone che ha alienato l'appartamento di Montecarlo, lo ha fatto sulla base di una procura generale che aveva dal presidente di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini. Ma, all'atto del rogito, luglio 2008, Fini non era più presidente di An (aveva rimesso il mandato al triumvirato il 23 aprile). E su questa fattispecie il diritto non lascia dubbi: la delega a Pontone non era più valida". In realtà ci sono poche cose sulle quali il diritto non lascia dubbi, ma una di queste è certo il fatto che una procura rilasciata a un rappresentante da parte di una persona giuridica (quale era AN) resta valida indipendentemente dal fatto che chi materialmente l'ha sottoscritta abbia perso il potere di rappresentanza legale della persona stessa. Insomma: il fatto che Fini avesse rimesso il proprio mandato non ha minimamente inficiato la validità della procura rilasciata da AN a Pontone.
L'altro grave svarione è l'affermare che il contratto di compravandita sarebbe nullo, laddove invece esso -quand'anche per assurdo la procura fosse stata veramente invalida- sarebbe semplicemente annullabile. E si tratta di differenza non da poco, dal momento che in questo secondo caso (che peraltro è di mera scuola, dato che come abbiamo detto la procura era valida) l'annullamento non può mica essere chiesto da chiunque e nella fattispecie da un militante di un altro movimento politico, bensì può essere chiesta esclusivamente dal soggetto nell'interesse del quale è stabilita l'annullabilità, vale a dire da AN.
Certo, è ben comprensibile che i militanti de La Destra abbiano fatto un po' di polverone inventandosi un'azione che non esiste né in cielo né in terra: in fondo si tratta sempre di un qualcosa che può ripagare in termini squisitamente politici, per quanto campato in aria.
Meno spiegabile il fatto che il quotidiano abbia riportato supinamente quelle tesi, senza una riga di commento o di spiegazione ai lettori.

venerdì 9 luglio 2010

L'emendamento anti Mesiano


Oggi non ci sono i giornali, io ho la testa fusa e quindi mi distrarrò un po' tenendovi compagnia con un pippone lungo.
Come sapete, la signora qui a fianco, che si chiama Donatella Ferranti ed è capogruppo del PD alla commissione giustizia della Camera, ha sollevato un gran polverone affermando che il ministro Alfano ha introdotto surretiziamente nella manovra economica un emendamento fatto apposta per congelare gli effetti della sentenza con la quale il giudice Mesiano aveva condannato Fininvest a pagare a CIR un 750 milioni.
La cosa, troppo gustosa, è stata ripresa non solo dai blog (ché i blogger non sarebbero strettamente tenuti a fare un po' di fact-checking, anche se per amor proprio sarebbe pur sempre un bene) ma anche dai vari giornali, supinamente.

Ora vi dico un po' come stanno in effetti le cose.
Il 4 marzo 2010 è stato promulgato un decreto legislativo che contiene «norme in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali». Il D.Lgs. è stato emanato in attuazione di quanto previsto dall'art.60 della L. 18 giugno 2009, n. 69, che reca «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile».
Il concetto che sta alla base di quest'ultimo articolo è un po' questo: i Tribunali italiani sono ingolfati per millemila motivi, e uno di questi è che la gente va a far causa per una quantità di puttanate che si potrebbero risolvere in un batter d'occhio se solo ci si mettesse attorno a un tavolo con la voglia di ragionare.
Certo, per carità, ci sono tantissime cause molto serie. Ma ci sono anche uno sproposito di liti condominiali, risarcimenti per incidenti stradali, divisioni di eredità e di comunioni, diffamazioni e via discorrendo che sembrano avere l'unico scopo (e spesso HANNO l'unico scopo) di procurare lavoro agli avvocati.
Quindi, se si agevola (e addirittura si obbliga, in taluni casi) il ricorso a un organismo di mediazione, riusciremmo a liberare un gran bel po' di fuffa per lasciare i giudici a occuparsi di cose più serie.
Notate che la L.18/6/2009 è del giugno 2009, come dice il nome; mentre la sentenza del nostro giudice Mesiano è dell'ottobre 2009: e pertanto non possiamo certo dire si tratti di norma ad personam

Cosa succede poi? Succede che arriva la manovra economica di Tremonti, che è in esame al Senato. A un certo punto, a forza di raschiar fondi di barili, ci si accorge che c'è un fondo di 53 milioni stanziato per gli indennizzi previsti dalla L.24 marzo 2001, n. 89, quella che dice che chi subisce una lesione dei propri diritti per effetto della eccessiva lunghezza dei processi ha diritto a un risarcimento, e che è la base sulla quale si doveva innestare il cosiddetto "processo breve", come vi raccontavo qui e soprattutto qui, ove spiegavo che il "giusto processo" non sarebbe mai passato perché avrebbe mandato in bancarotta lo Stato.
E difatti, non solo di processo breve non si parla più, ma si tenta anche di liberare parte del fondo per il risarcimento dei processi lunghissimi, favorendo la riduzione del contenzioso civile pendente. Il che, se ci togliamo un secondo i paraocchi di tutto ciò che è avvenuto in passato, sarebbe una cosa meritoria, indipendentemente dal fatto che la proposta venga da Alfano o da Vendola, per dire un nome che fa sempre effetto.
Quindi il Ministro della giustizia prende i suoi assistenti e presenta un emendamento alla manovra economica che va in questa direzione. Ve lo trascrivo tutto, un po' perché ci ho il copincolla, un po' perché mi piace che ne assaporiate la lunghezza (chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia d'andare avanti nella storia, salti addirittura alla parte non rientrata):
Dopo l'articolo 48, è aggiunto il seguente:

«Art. 48-bis.

(Interventi urgenti per il rilancio della competitività attraverso

la riduzione del contenzioso civile pendente)

1. Al fine di conseguire un risparmio della spesa derivante dall'erogazione dell'indennizzo previsto dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, stimato in euro 53.568.000 per gli anni 2011, 2012 e 2013, e di consentire un rilancio della competitività, anche attraverso la riallocazione nel sistema economico delle risorse immobilizzate dalla eccessiva durata del contenzioso civile, si applicano le seguenti disposizioni.

2. Il presidente di ciascun tribunale e di ciascuna corte d'appello entro il 31 gennaio di ogni anno redige un programma per la riduzione del contenzioso civile pendente e per l'attuazione nel settore civile del principio di ragionevole durata del processo previsto dall'articolo 111 della Costituzione. Il programma indica la durata media dei procedimenti civili contenziosi presso l'ufficio, fissa gli obiettivi di riduzione della durata raggiungibili nell'anno in corso, e determina le priorità di trattazione dei procedimenti, individuati per tipologie oggettive tenendo conto della durata, anche con riferimento agli eventuali gradi di giudizio precedenti, della natura e del valore della causa. Con il programma viene dato atto del conseguimento degli obiettivi fissati per l'anno precedente o vengono specificate le motivazioni del loro eventuale mancato raggiungimento. Il capo dell'ufficio giudiziario vigila sul rispetto delle priorità ed il programma viene comunicato al locale consiglio dell'ordine degli avvocati e viene trasmesso al Consiglio Superiore della Magistratura per essere valutato ai fini della confelma dell'incarico direttivo ai sensi dell'alticolo 45 del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160.

3. Fino al 31 dicembre 2015 nei procedimenti civili contenziosi di competenza del tribunale e della corte d'appello in cui le parti ne facciano concorde richiesta ed in quelli la cui trattazione viene dichiarata prioritaria con il programma previsto dal comma 2 si applicano le disposizioni dei commi da 4 a 12.

4. Il giudice, nelle cause in cui fissa o è già stata fissata l'udienza per la precisazione delle conclusioni, ovvero per la discussione orale, ad una data successiva ai sei mesi, può nominare, anche con decreto pronunciato fuori udienza e comunicato alle parti, un ausiliario per la sollecita definizione della controversia. Con lo stesso provvedimento il giudice fissa l'udienza per il giuramento dell'ausiliario.

5. Il capo dell'ufficio giudiziario forma un albo degli ausiliari presso lo stesso ufficio e vigila affinché, senza danno per l'amministrazione della giustizia, gli incarichi siano equamente distribuiti. Nell'albo possono essere iscritti esclusivamente i soggetti in possesso dei seguenti requisiti: magistrati onorari, anche se cessati dal servizio da non più di cinque anni; avvocati con anzianità di iscrizione all'albo di almeno cinque anni; notai, anche collocati a riposo; magistrati ordinari, amministrativi e contabili collocati a riposo; avvocati dello Stato collocati a riposo; docenti o ricercatori universitari di materie giuridiche, anche collocati a riposo.

6. All'udienza fissata ai sensi del comma 4 l'ausiliario accetta l'incarico prestando giuramento di adempiere fedelmente il suo ufficio ed il giudice fissa l'udienza per la discussione della proposta prevista dal comma 7. L'ausiliario ha l'obbligo di astenersi e può essere ricusato dalle parti per i motivi indicati nell'articolo 51 del codice procedura civile. Della ricusazione conosce il capo dell'ufficio giudiziario.

7. Entro novanta giorni dal giuramento, l'ausiliario deposita in cancelleria una relazione contenente la sintetica esposizione dei fatti oggetto di causa ed una proposta di decisione, con la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto sulla base dei quali ritiene che la causa deve essere decisa. La relazione è comunicata alle patti costituite con ogni mezzo idoneo ed è notificata al contumace.

8. Entro trenta giorni dalla comunicazione della relazione le parti, personalmente o a mezzo del loro difensore, possono dichiarare di accettare la proposta di decisione con apposita memoria o con dichiarazione resa in udienza. Quando le parti dichiarano di accettare la proposta dell'ausiliario e la causa ha ad oggetto diritti disponibili, il giudice provvede ai sensi dell'atticolo 185, terzo comma, del codice di procedura civile e l'accordo deve comprendere la liquidazione delle spese, ivi incluso l'onorario dell'ausiliario, determinato sulla base degli importi previsti dalla tabella di cui all'allegato A. Quando le parti dichiarano di accettare la proposta dell'ausiliario e la causa ha ad oggetto diritti non disponibili, se il giudice la ritiene condivisibile nel merito e conforme a legge, ne dispone con decreto l'omologa e provvede alla cancellazione della causa dal ruolo, pronunciando sulle spese. Il decreto costituisce titolo per l'esecuzione forzata, per l'iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione.

9. Fuori dei casi previsti dal comma 8, il provvedimento che definisce il giudizio può essere motivato anche mediante rinvio alla relazione redatta dall'ausiliario.

10. Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde al contenuto della proposta, il giudice può condannare la parte che non ha aderito alla proposta, anche se vittoriosa, al pagamento dell'indennità dovuta all'ausiliario. La misura dell'indennità spettante all'ausiliario viene determinata sulla base degli importi previsti dalla tabella di cui all'allegato A.

11. Quando il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde al contenuto della proposta, l'indennità dovuta all'ausiliario è posta a carico dello Stato ed è liquidata dal giudice sulla base degli importi previsti dalla tabella di cui all'allegato B. Agli oneri derivanti dal presente comma, valutati complessivamente in euro 9.380.000, si provvede mediante l'utilizzo delle maggiori entrate derivanti dalle disposizioni di cui al comma 16.

12. L'indennità dell'ausiliario è liquidata dal giudice con il provvedimento che chiude il processo davanti a lui, ovvero, in ogni altro caso, con separato decreto. In tale ultimo caso si applica l'articolo 170 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 e successive modificazioni.

13. Al codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 163, comma 3, numero 7, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: ''e che la motivazione della sentenza può essere resa nelle forme di cui all'articolo 281-decies'';

b) dopo il capo III-ter del libro II del titolo I è inserito il seguente:

''Capo III-quater

DELLA MOTIVAZIONE BREVE

Art. 281-decies. - (Motivazione breve della decisione). – Se non decide a norma degli articoli 275, 281-quinquies o 281-sexies, il giudice, entro trenta giorni dalla scadenza dei termini previsti dall 'articolo 190, fissa con decreto, entro i successivi trenta giorni, l'udienza per la pronunzia della sentenza con motivazione breve, disponendo la comparizione personale delle parti. All'udienza prevista dal comma che precede il giudice pronunzia sentenza dando lettura del dispositivo ed elencando sommariamente a verbale i fatti rilevanti, le fonti di prova e i principi di diritto su cui la decisione è fondata, anche con riferimento a precedenti conformi. La sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria.

Le parti che vogliono proporre impugnazione devono chiedere, con atto depositato in cancelleria entro il termine perentorio di quindici giorni dalla pronunzia della sentenza, la motivazione estesa redatta ai sensi dell'articolo 132, primo comma, n. 4, che il giudice deposita nei successivi trenta giorni. Del deposito è data notizia alle parti costituite con bigliello di cancelleria.

Dal momento del deposito della motivazione estesa la sentenza può essere notificata ai fini della decorrenza dei termini di cui all'articolo 325 e decorre il termine di cui all'articolo 327, primo comma'';

c) all'articolo 282, dopo il primo comma, è aggiunto il seguente:

''Nel caso previsto dall'articolo 281-decies, la sentenza è provvisoriamente esecutiva a seguito del deposito della motivazione estesa ovvero, se questa non viene richiesta, decorso il termine previsto dal terzo comma del medesimo articolo'';

d) all'articolo 283 del codice di procedura civile è aggiunto, in fine, il seguente comma:

''Se l'istanza prevista dal comma che precede è inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l'ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000, stabilita in ragione del valore della causa. L'ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio'';

e) dopo l'articolo 324 è inserito il seguente:

''Art. 324-bis. - (Non impugnabilità della sentenza). – La sentenza resa ai sensi dell'articolo 281-decies, primo comma, non è soggetta ai mezzi di impugnazione indicati nell'articolo 324, quando nessuna delle parti ha chiesto la motivazione estesa'';

f) all'articolo 350, primo comma, dopo le parole: ''la trattazione dell'appello è collegiale'', sono aggiunte le seguenti: '', ma il presidente del collegio può delegare per l'assunzione dei mezzi istruttori uno dei suoi componenti'';

g) all'articolo 352 è aggiunto, in fine, il seguente comma:

''Quando non provvede ai sensi dei commi che precedono, il giudice può decidere la causa ai sensi dell'articolo 281-sexies ovvero dell'articolo 281-decies;

h) all'articolo 431 è aggiunto, in fine, il seguente comma:

''Se l'istanza per la sospensione di cui al terzo ed al sesto comma è inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l'ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000, stabilita in ragione del valore della causa. L'ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio''.

14. Al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica del 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 13, dopo il comma 1 è aggiunto il seguente:

''1-bis. il contributo è aumentato della metà nei giudizi di impugnazione ed è dovuto nella misura fissa di euro 500 nei giudizi dinanzi alla Corte di Cassazione'';

b) all'articolo 14, dopo il comma 1 è aggiunto il seguente:

''1-bis. Nell'ipotesi prevista dall'articolo 281-decies, terzo comma, del codice di procedura civile la parte che per prima deposita l'atto di richiesta della motivazione estesa della sentenza è tenuta al pagamento contestuale del contributo unificato dovuto per il successivo grado di giudizio''.

Il maggior gettito derivante dall'applicazione delle disposizioni di cui al presente comma è versato all'entrata del bilancio dello Stato, per essere riassegnato, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, allo stato di previsione del Ministero della giustizia, per assicurare il pagamento dell'indennità dell'ausiliario nel caso di cui al comma 11.

15. I capi degli uffici giudiziari possono stipulare apposite convenzioni, senza oneri a carico delle finanze pubbliche, con le facoltà universitarie di giurisprudenza, con le scuole di specializzazione per le professioni legali di cui all'articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, e con i consigli degli ordini degli avvocati per consentire, su richiesta dell'interessato, lo svolgimento presso i medesimi uffici giudiziari di una parte del corso di dottorato di ricerca, del corso di specializzazione per le professioni legali o della pratica forense per l'ammissione all'esame di avvocato, per una durata non inferiore a sei mesi e non superiore a un anno. I soggetti previsti dal presente comma assistono e coadiuvano i magistrati nel compimento delle loro ordinarie attività, anche con compiti di studio, e ad essi ci applica l'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3. AI termine del periodo di formazione i magistrati designati dal qpo dell'ufficio giudiziario redigono una relazione in merito all'attività svolta ed alla formazione professionale acquisita, che viene trasmessa agli enti di cui al primo periodo.

16. Nei procedimenti civili contenziosi aventi ad oggetto diritti disponibili che, alla data di entrata in vigore della presente legge, pendono dinanzi al tribunale, il giudice, su istanza anche di una sola parte, procede al tentativo di conciliazione previsto dall'articolo 185 del codice di procedura civile. Nei procedimenti civili contenziosi aventi ad oggetto diritti disponibili che, alla data di entrata in vigore della presente legge, pendono dinanzi alla corte d'appello, il giudice, su istanza di parte, anche con decreto pronunziato fuori udienza, rinvia il processo per un periodo di sei mesi per l'espletamento del procedimento di mediazione ai sensi del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, assegnando contestualmente alla pmte richiedente il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione, e le spese del medesimo procedimento sono integralmente anticipate dalla parte istante. Le istanze previste dal presente comma devono essere proposte, a pena di decadenza, entro tre mesi dall'entrata in vigore della presente legge.

17. Il programma di cui al comma 2 viene redatto per la prima volta entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge di conversione, e deve contenere l'indicazione degli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti civili contenziosi concretamente raggiungibili entro il 31 gennaio 2012. Le disposizioni di cui ai commi da 3 a 13 e di cui al comma 14, lettera b), si applicano anche ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge di conversione. Le disposizioni di cui al comma 14, lettera a), si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge di conversione. Nei giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge di conversione nei quali una o più parti sono state dichiarate contumaci, l'articolo 281-decies del codice di procedura civile, come introdotto dal comma 13, lettera b), del presente articolo, si applica se, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge di conversione, una delle parti costituite notifica al contumace l'avviso che la motivazione della sentenza può essere resa nelle forme di cui all'articolo 281-decies del codice di procedura civile».

Notate in particolare quell'art. 16, che sostanzialmente dice che il procedimento di mediazione (quello che era già diventato legge PRIMA della sentenza Mesiano) forse forse può venir utile anche in sede di appello, non solo in primo grado; e quindi dispone che entro tre mesi dall'entrata in vigore della legge una delle parti di un processo possa attivare la procedura, pagandone le relative spese, e che in tal caso il giudice dia un rinvio, necessario per la conclusione della mediazione.
Il che può star bene e non star bene, ma ha una sua logica, considerato che le Corti d'Appello sono MOLTO più ingolfate dei Tribunali (in quanto decidono sempre collegialmente, e vi sono molti meno giudici).
Non so quante siano le cause pendenti in appello, ma non mi stupirebbe se ce ne fossero una mezza milionata. Tra tutte queste c'è anche la causa Fininvest-CIR; e dire che Alfano ha scritto un emendamento lungo un Perù per infilarci dentro di nascosto al sedicesimo punto una norma che si applica a una mezza milionata di cause, tra le quali una che interessa al Presidente del Consiglio, è roba che mi fa vedere con occhio ben più benevolo tutti coloro che sono davvero convinti che nell'Area 51 ci siano i marziani in formalina, e che Marconi abbia davvero inventato la macchina per produrre energia dalla rumenta.
Anche perché, badate bene, la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva, e quindi Fininvest avrebbe dovuto aver già pagato la somma assegnata a CIR: non lo ha fatto, ottenendo la sospensione, ma solo in quanto ha presentato una fidejussione, che non è che si ottenga aggratis: costa un bel po' di soldini. Ragion per cui, da un punto di vista strettamente economico, pagare più tardi l'importo, in caso di conferma della condanna, non sarebbe di alcun vantaggio: il tempo perduto con manovre dilatorie Fininvest lo pagherebbe due volte: una volta in forma di interessi legali dovuti a CIR, e una seconda voltas in termini di commissioni passive sulla fidejussione.

mercoledì 7 luglio 2010

Veltroni docet

Voi sapete già cosa penso del Puffo Triste: l'uomo più vuoto del mondo. Purtroppo anche nello spazio intergalattico ogni tanto si trova un atomo d'idrogeno, e l'Innominabile, ha la rara capacità di ammantare di retorica semplicistica ogni singolo atomo d'idrogeno che circola nella sua calotta cranica, riuscendo ad affermare cose imbarazzanti per chiunque (del tipo "la vittoria di Obama è un successo del PD") raccogliendo applausi in luogo di pomodori.
Ma non è di lui che voglio parlare oggi, bensì di un suo degno epigono: quel Carlin Petrini che ha costruito un'impero fondato su una paranomasia («saperi e sapori») e un paradosso («meglio mangiare poco e spender tanto caro piuttosto che mangiar tanto e spender poco»).
Il Petrini, che già tanti danni ha fatto alla mia città e ancor più ne farà nel corso dei prossimi cinque anni, oggi si cimenta su Repubblica in un'articolessa degna, per lunghezza e ampollosità, del Fondatore.
Lamenta, il creatore del MPCNSMCQMDA, il fatto che il contadino venda le carote a nove centesimi al chilo. E: ah!, e: oh!, e uh!, e: come andremo avanti, Signora mia!.
Dopo l'espositio e la lamentatio arriva la ricerca del colpevole, che naturalmente è la grande distribuzione che ammazza il contadino anziché «portarlo in palmo di mano come base profonda e intelligente della nostra società» (del resto, sin dalla notte dei tempi il contadino ha scarpe grosse e cervello fino: dev'essere a questo intramontabile motto che si è ispirato il Carlin).
Poi, purtroppo, il Petrin ci si avvita un po' intorno al suo discorso: già, perché toccando la grande distribuzione va a parare non solo su Caprotti (che notoriamente è uno schiavista fascista e quindi se ne può dire il peggio possibile), ma soprattutto sulle Coop, che sono amiche (e, detto tra noi, non saranno fasciste ma sono schiaviste molto più dell'Esselunga, e fidatevi se vi dico che è così).
Si esibisce quindi, il bevitor di chinotto, in un triplo salto mortale carpiato, trasferendo la colpa dei nove centesimi al chilo dal commerciante al consumatore, reo di comperare le mozzarelle blu («perché costano pochissimo, poi al massimo se vedo che sono blu le butto via») e le zucchine fuori stagione a sei-sette euri al chilo, lamentandosene, mentre adesso che sono in stagione costano un euro o poco più. Se non riuscite a cogliere alcun nesso tra lo spender tanto per le zucchine fuori stagione e il pagar poco le carote al contadino, tranquillizzatevi: non è la canna che vi siete fatti ier sera: è proprio che di logica non ce n'è alcuna.
Siamo all'ultimo capoverso, per nostra fortuna, e il tono si eleva: «Mi chiedo quando avremo una politica agroalimentare degna di questo nome, che educhi i cittadini a scelte responsabili, sostenibili e piacevoli, che dia una mano a quei contadini che producono in maniera corretta per il loro e il nostro bene». Da quel che pare d'intendere, il concetto di politica agricola del Petrini corrisponde più o meno all'assegnare un carabiniere ad ogni banco di verdura, che impedisca ai consumatori di acquistare le carote a buon prezzo costringendoli a riempire le sporte di carote (magari marchiate Cibolento) che costino assai di più. Perché per il nostro, come leggete, la politica agricola si fa sui cittadini, non sui contadini.
Del resto «Per anni gli agricoltori sono stati assistiti con sussidi a pioggia, depauperando così il loro modo di produrre e fare impresa, e oggi sono isolati e gabbati. Dobbiamo aspettare anche noi che la buona agricoltura ci muoia tra le braccia? Perché nessuno scende in piazza per difendere i contadini?»
Ecco, guardate: ce n'è voluto ma siamo arrivati, in zona Cesarini, a una frase sensata.
Il fatto è che in Italia, come del resto in tutta Europa, si produce molto più di quanto sia necessario per il consumo. E i prodotti agricoli, lo si insegna alla prima lezione di economia, sono caratterizzati da una forte anelasticità della curva della domanda: che sembra un concetto astruso, ma in soldoni significa che bene o male, in un anno, voi mangerete sempre la stessa quantità di cibo, indipendentemente dal fatto che i prezzi salgano o scendano. Certo, se le carote schizzano in alto magari mangerete più zucchine; ma se i prezzi di tutti i prodotti raddoppiano o si dimezzano, non per questo mangerete la metà o il doppio.
Questo fenomeno, dell'anelasticità della domanda, ha un effetto complementare sul prezzo: se aumenta l'offerta di prodotti, i prezzi scendono rapidamente, dato che come abbiamo visto i consumatori non è che si ingozzino come oche da fois gras; e viceversa in tempi di raccolti magri, come ci insegna la storia moderna, i prezzi schizzano alle stelle in quanto i consumatori, per quanto stringano la cinghia, hanno comunque bisogno di un apporto minimo di calorie, e se le contendono a qualunque prezzo.
Si tratta di un fenomeno economico conosciuto anche dagli studenti di liceo, ma evidentemente non dal Petrini, il quale lamenta dei sussidi a pioggia erogati agli agricoltori non sapendo, o facendo finta di non sapere, che sin dal dopoguerra tutta l'agricoltura europea lavora in perdita e campa esclusivamente sui sussidi della PAC (Politica Agricola Comune). Già: perché la CEE è nata principalmente per sostenere l'agricoltura, che già dalla metà degli anni '50 era un settore in crisi (e non a caso parallelamente è nata la CECA, al fine di sostenere un altro settore in crisi da sovraproduzione).
E' per questo che ci sono i sussidi agricoli; è per questo che ci sono i fenomeni dei contadini pagati per _non_ lavorare i campi; è per questo che ci sono le distruzioni delle arance e le quote latte: perché i consumatori non possono mangiare tre chili d'arance al giorno o bere due litri di latte.
Già: le quota latte: le stesse quote latte che ora penalizzano gli allevatori, e che sono ingiustamente penalizzanti per l'Italia, tanto che sotto il Pirellone bivaccano i trattori, a bordo dei quali ci sono quegli stessi allevatori che per aver sistematicamente evaso l'IVA sul latte prodotto si sono ritrovati le proprie quote assegnate non in base alla produzione reale, bensì in base a quella fatturata, dieci volte inferiore.
«Perché nessuno scende in piazza per difendere i contadini?» Forse, se ci pensa un po', ci arriva lo stesso Petrini.

* Mangiam Piano Ché Noi Siam Mica Come Quelle Merde Degli Americani

martedì 25 maggio 2010

Un pezzetto di manovrina

Disposizioni in materia di procedure concorsuali:
- per favorire ed agevolare la composizione delle crisi d'impresa, specie in considerazione del momento di particolare congiuntura economica ancora nell'ottica di favorire e promuovere l'erogazione di nuovi finanziamenti da parte sia di intermediari bancari e finanziari sia di soci: prededuzione per i finanziamenti erogati in attuazione degli accordi (concordatari ovvero di ristrutturazione dei debiti), e per i finanziamenti-ponte concessi ed erogati dagli intermediari nella fase precedente il deposito delle domande di ammissione alla procedura di concordato preventivo;
- accordi di ristrutturazione: sospensione delle azioni esecutive e cautelari in corso anche durante le trattative decisa dal tribunale nel corso di un'udienza alla quale sono chiamati a partecipare tutti i creditori (per preservare il diritto di difesa dei creditori estranei) ;
- esonero dalla responsabilità per bancarotta per istituti introdotti dalla riforma fallimentare e nei quali opera il controllo giudiziario: concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti e piani stragiudiziali attestati.
Nessuno, a quanto ho visto, ne ha parlato, et pour cause, in quanto si tratta di una materia molto tecnica e soprattutto che non produce alcun effetto di gettito o di risparmio di spesa.
Sta di fatto che nel documento stilato dal Tesoro riguardante la cosiddetta "manovrina" economica, all'ultimo punto si trova questo capitoletto che riguarda le procedure concorsuali. Non si capisce bene cosa ci azzecchi con il resto, ma chi per mestiere fa fallire le aziende capisce benissimo cosa significa.
Il primo punto è un via libera alle banche a rischiare di più nel tentativo di salvare aziende decotte. In pratica si dice che se un'azienda ormai bollita presenta o sta per presentare una domanda di concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione con i debitori, e nel frattempo ha bisogno di soldi per pagare stipendi e fornitori, la banca che erogherà quei soldi avrà diritto a vederseli restituire prima degli altri.
questo potrebbe anche avere un senso logico, ma l'esperienza dimostra che fin troppo spesso è proprio in questa fase che l'imprenditore fa tutto il possibile per raschiare il fondo del barile e nascondere, in Isvizzera o sotto il materasso, soldi o preziosi. Dando alla banca che agisce per "salvare" l'impresa uno strumento mediante il quale essere pagata prima di chiunque altro (dipendenti compresi), nel 25% dei casi probabilmente si darà all'imprenditore uno strumento in più per uscire dalla crisi, ma nel 75% dei casi gli si darà in mano un'arma per farsi un gruzzoletto in nero alle spese di lavoratori (cioè dell'INPS, che si surroga a loro) e dei piccoli fornitori, destinati a rimanere a bocca vuota.
Il terzo punto poi elimina anche l'unico rischio, pur se spesso teorico, che l'imprenditore e le banche potrebbero correre. Eliminando il reato di bancarotta per gli accordi di ristrutturazione dei debiti e, soprattutto, per i piani stragiudiziali attestati, si consente all'imprenditore disonesto di salvarsi preventivamente da un reato semplicemente raccogliendo la firma di un commercialista.
Immaginiamo un'applicazione concreta di questa nuova normativa: i soggetti sono un imprenditore in crisi, una banca compiacente e un commercialista (pagato dall'imprenditore). La banca mette del denaro per creare una nuova società, l'imprenditore prende i pezzi buoni dell'azienda decotta e li trasferisce nella nuova società, mentre i pezzi cattivi (e i relativi lavoratori) restano nella vecchia società, che viene data in affitto a un pensionato il quale dopo aver versato un acconto (con soldi passatigli sottobanco dall'imprenditore) smette di pagare. Il tutto con la firma di un commercialista che attesta che il piano ha un senso.
Ecco: tutto ciò oggi fa prendere diritta la strada di San Vittore, senza passare dal via. Se quello che c'è scritto nel documento del Tesoro fosse tradotto in legge, domani sarebbe del tutto lecito.

P.S.: il documento del Tesoro, linkato sopra, lo pubblica il sito del Corriere. Repubblica non lo pubblica, ma loro sono troppo impegnati a migliorare il fatturato della 3M, quella che fabbrica i Post-it.

mercoledì 5 maggio 2010

Tecnicismi chiarificatori

Ieri ho scritto qualche riga per commentare la panzana di Scajola, quella secondo la quale egli, una volta accertato che la casa fronte Colosseo non è stata pagata interamente da lui, darebbe mandato ai propri avvocati per annullare il contratto di compravendita.
Non ho insistito granché dato che la notizia era riportata dalla stampa, e poteva essere anche una boutade del momento. Ieri sera, però, ho avuto il coraggio di vedere la lunga intervista concessa a Bruno Vespa, assai più pretesco e zerbinato del solito. La questione dell'annullamento è tornata fuori, più volte e con chiarezza: e i due consumati attori hanno anche recitato un siparietto nel corso del quale Vespa ha chiesto all'ex ministro a chi sarebbero ritornati i soldi; e l'altro, compunto, ha dichiarato che lui avrebbe ripreso solo il proprio, mentre per il resto sarebbe stato un problema di qualcun altro.

La cosa si fa spessa, e quandi vale la pena di approfondire.
Una cosa è evidente a tutti: vale a dire che se fosse possibile sciogliere (uso volutamente un termine colloquiale) il contratto, chi ci rimetterebbe sarebbero anzitutto le venditrici, che dovrebbero trovare un milione e mezzo di euri per restituire il prezzo: cosa non certo alla portata di chiunque. Non nascondiamoci dietro il paravento del concorso delle sorelle venditrici nella sporca: è pur vero che le sorelle hanno dichiarato un prezzo minore di quanto ricevuto, e per questo sono responsabili a titolo di falso ideologico (art. 483 c.p.): ma si tratta di un reato minore e già prescritto, che prevede la pena della reclusione fino a due anni (il che in giuridichese significa: da quindici giorni a due anni). E, soprattutto, se si dovessero mandare in galera tutti coloro che hanno dichiarato un prezzo falso quando hanno compravenduto casa, si dovrebbe costruire un'intera metropoli di carceri.
No, le sorelle hanno fatto (anzi: subìto, in quanto venditrici) ciò che hanno sempre fatto tutti sino al 2006: hanno dichiarato o lasciato dichiarare il minimo catastale. E non sarà certo per questo fatto che potranno subire lo scioglimento del contratto con il conseguente onere di trovare i soldi da restituire.

Veniamo ora nuovamente allo Scajola: abbiamo già visto che parlare di annullamento non ha senso: ma dato che il nostro campione di purezza insiste, immaginiamo pure che abbia usato un'espressione atecnica e che quindi volesse parlare di un altro istituto.
Parliamo quindi ora della nullità del contratto. A differenza dell'annullamento, l'azione di nullità può essere esercitata da chiunque (mentre l'annullamento, come forse ricorderete, solo dalla parte danneggiata): questo perché qui si tratta non di rompere un contratto, ma di accertare che un contratto non è mai esistito.
E però i casi di nullità sono pochissimi: è nullo un contratto che manchi di un elemento essenziale (come il nome delle parti o l'oggetto del contratto). E' poi nullo un contratto per illiceità della causa o per illiceità del motivo, e qui devo chiedervi un minimo d'attenzione.
Causa e motivo sembrano la stessa cosa, ma in giuridichese non lo sono. Il motivo è la ragione che ha spinto una parte a contrattare, mentre la causa è un concetto molto tecnico che si può sintetizzare come "lo schema economico-giuridico dell'operazione posta in essere".
Poniamo che io sia un bancario che vuole strozzare un povero imprenditore, ma consapevole dell'esistenza di una normativa antiusura non me la senta di fare un finanziamento all'agile tasso del 40% annuo: potrei fare un mutuo al 5% e costruirci attorno un derivato strutturato, talché il poveretto pagherebbe sempre il 40% ma non a titolo di interessi. Ecco: questo è un esempio di causa illecita, in quanto ho strutturato un complesso di atti per ottenere lo stesso effetto di un negozio illecito; con la conseguenza che il contratto sottostante il derivato è nullo.
Vi è poi il motivo illecito. Anemone potrebbe aver messo a disposizione i 900.000 euri per corrompere Scajola, il che è sicuramente un motivo illecito. E le due venditrici potrebbero essere state complici di Anemone in questa operazione, benché non se ne veda il motivo e credo proprio che nessuno potrà mai provarlo.
Quindi il contratto è nullo? Ma nemmeno per sogno! Perché in caso di illiceità del motivo, la nullità si ha solo se il motivo illecito è comune a entrambe le parti. Capito? L'unico modo in cui Scajola potrebbe far dichiarare la nullità del contratto di compravendita, è quello di provare che sia le sorelle sia lo stesso Scajola hanno stipulato quella compravendita allo scopo di consentire la corruzione da parte di Anemone. E non credo proprio che sia ciò che Scajola intende, quando parla di "conferire mandato ai propri legali".
No, l'affermazione di Scajola è solo una roba buttata lì per gettare fumo negli occhi e far vedere quanto è onesto il ministrone, quello così attaccato al lavoro e al territorio da aver sponsorizzato il famoso volo Albenga-Roma e ritorno.

martedì 4 maggio 2010

Se dovessi acclarare

«Se dovessi acclarare che la mia abitazione fosse stata pagata da altri senza saperne io il motivo, il tornaconto e l'interesse, i miei legali eserciterebbero le azioni necessarie per l'annullamento del contratto»
Questa la dichiarazione dell'ex ministro Scajola, che aggiunge impudicizia a impudicizia. Già la pretesa di aver creduto che 3.400 euri al metro quadro per un appartamento di fronte al Colosseo fossero un giusto prezzo nel 2004 era ridicola: in quel periodo nella mia zona (fronte circonvallazione esterna di Milano, non fronte Colosseo) le case andavano via sui 4.000 euri: e avere di fronte uno dei più famosi monumenti piuttosto che il parcheggio dei tossici dovrebbe pur valere qualcosa sul mercato immobiliare.
L'affermazione odierna che ho riportato qui sopra tuttavia introduce un ulteriore elemento di presa per i fondelli: la velleità di riaffermare il proprio onesto agire con una frase che potrebbe anche apparire d'effetto, per quei due o tre militanti che ci crederanno, ma a cui perfino Michela Vittoria Brambilla dopo un minimo approfondimento non potrebbe dare alcun credito.
Anzitutto, non esiste alcun motivo per cui il pagamento di parte di un prezzo da parte di un terzo sia causa di annullamento del contratto. E neppure di nullità, rescissione o risoluzione, che sono gli altri tre possibili motivi per i quali un contratto viene meno.
Tutte cose che Scajola dovrebbe sapere, dato che sono l'abbiccì del primo anno di giurisprudenza, e lui è laureato in tale disciplina.
Per quanto riguarda l'annullamento, in particolare, esso è un rimedio che viene dato a tutela della parte "debole" in alcuni specifici casi. In caso di incapacità a contrattare, come sarebbe ad esempio il caso di un minorenne che acquistasse un bene: in tal caso il minorenne nel frattempo divenuto maggiorenne, o il suo tutore (non l'altro contraente) può chiedere di annullare il contratto.
E' poi possibile, l'annullamento, in caso di errore (penso di comperare un cappotto di Prada e invece mi vendono un cappotto di Armani), di violenza (firmo un contratto davanti a un paio di nerboruti picciotti che mi tengono sospeso sopra una vasca d'acido) o di dolo (il venditore mi fa credere con un falso documento che compro un terreno edificabile, che invece è agricolo).
In tutti questi casi l'annullamento può essere chiesto solo dal soggetto tratto caduto in errore, estorto o truffato. Ed è evidente che Scajola non rientra in questa condizione.
Vi è di più: anche ammesso per assurdo che l'annullamento fosse possibile, cosa succederebbe in caso di suo esercizio? Scajola dovrebbe Scajola restituire la casa, e contemporaneamente le sorelle dovrebbero restituire i soldi a Scajola e ad Anemone: non vi è chi non veda l'assurdo di ciò, tanto più che le sorelle hanno tutto il diritto di non avere più i denari: magari hanno comprato casa ai nipoti.
L'unica cosa seria, giuridicamente e non solo giuridicamente, sarebbe che Scajola restituisse ad Anemone i 900.000 euri da questo versati: ma è evidente che tale mossa, oltre che poco costosa, sarebbe il suggello del suicidio politico del Ras di Imperia.

martedì 20 aprile 2010

Poi, lo giuro, la pianto.

Però, cazzo, non riesco a tener ferme le mani.
L'antiberlusconiano a cui siamo sempre più affezionati, il Gilioli, anche oggi ha trovato un motivo per prendersela con il Presidente del Consiglio. Anche oggi con un argomento ad hominem, che come ben sa chiunque abbia fatto i precorsi di logica è sempre un cattivo argomento.
Ieri se la prendeva perché Berlusconi ha sorriso per un paio di secondi al funerale, oggi si dichiara un po' infastidito perché il medesimo ha ricevuto l'Eucarestia pur essendo divorziato. E il bello è che il Gilioli si infastidisce pur non essendo neppure cattolico, come egli stesso tiene a precisare.

Be', io pure non sono cattolico, ma ho preso un bel voto all'esame di diritto canonico, e quindi anche questa volta tranquillizzerò il nostro arringapopoli, sperando che prima o poi si decida a indirizzare la propria ira su cose più serie dei sorrisi e delle ostie date o negate.
Il Canone 915 del Codex Juris Canonici recita: «Ad sacram communionem ne admittantur excommunicati et interdicti post irrogationem vel declarationem poenae aliique in manifesto gravi peccato obstinate perseverantes». Vale a dire: «Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l'irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto.».
Ora, come in tutti i testi giuridici ben fatti (e il codex Juris Canonici lo è) ciascuna parola ha un proprio senso ben preciso. In particolare, quel "manifesto" e quell',"obstinate perseverantes" non sono lì per dare spunti al professore di latino per il compito in classe di fine mese: esprimono concetti ben precisi.
L'ostinata perseveranza significa «l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc.) perché si verifichi la situazione nella sua fondamentale gravità ecclesiale». E non sono io ad affermarlo forte del mio trenta in diritto canonico, bensì il Pontificio Consiglio per i problemi legislativi, nella dichiarazione che potete trovare qui.
Insomma, per farla breve: i divorziati possono accedere al Sacramento dell'Eucarestia. Chi non vi può accedere sono coloro che, divorziati o meno, vivono more uxorio con una persona che non è il coniuge legittimo (secondo il Diritto Canonico). e dato che, come tutti ben sanno, Silvio Berlusconi non vive più in istato di concubinaggio con la signora Miriam Raffaella Bartolini, ecco che non vi è motivo per cui egli non debba accedere al Sacramento.

venerdì 16 aprile 2010

La sentenza Google - le motivazioni /2

(prosegue da qui)

Questa volta ce la prendiamo (non è la prima volta) con Zambardino, il quale analizza la sentenza contro Google senza neppure averla letta.
Non ci scandalizziamo certo: in questi anni abbiamo imparato a conoscere il mondo dei commentatori in rete e sulla carta stampata, e non è certo questo il primo -né sarà l'ultimo- esempio di cattivo servizio al pubblico da parte dei professionisti dell'informazione.
Scrive, lo Zambardino che «La sentenza condanna Google solo per le infrazioni relative alla privacy, non per l’accusa di diffamazione, perché a seguito del ritiro della querela della persona offesa non si è potuto andare avanti su questo punto.» Scrive poi che «quando arriva a trattare dell’ipotesi di diffamazione, caduta per remissione di querela, che la prosa del dottor Magi è davvero allarmante.» Poi dice delle cose che non si capiscono, all'esito delle quali afferma che il giudice chiede «una legge che permetta di sanzionare non i responsabili dei reati – che è quanto di più ovvio – ma le responsabilità connesse».
tutto molto bello. Peccato che sia falso.

Come stanno in realtà le cose? Non è vero che l'ipotesi della diffamazione è caduta per remissione di querela. E' vero che il ragazzo ripreso nel video ha rimesso la querela, ma l'associazione Vivi Down, pure diffamata, non ha rimesso la propria querela, e quindi il procedimento è andato avanti anche per quanto riguarda questo capo d'accusa.
Non solo: il giudice ha anche disconosciuto le eccezioni della difesa, e statuito che la pubblicazione del video è stata diffamatoria verso l'associazione medesima.
La tesi dell'accusa basava la responsabilità di Google sull'art. 40 c.p., che dispone che «non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». In pratica si diceva: è vero che non è stata Google a pubblicare il video; ma Google aveva l'obbligo di impedirne la pubblicazione, e pertanto il non averlo fatto la mette nella stessa posizione di chi l'ha pubblicato. Sempre secondo l'accusa, l'obbligo di impedire la pubblicazione discendeva dalla normativa sulla privacy, che avrebbe imposto a Google un "controllo preventivo" su titti i contenuti pubblicati.
Cosa ha stabilito il giudice? Ha scritto che non esiste questo obbligo giuridico di controllo preventivo, ma anche che «non esiste la possibilità logica e umana di tale intervento sulla rete». Scrive inoltre:
Ed infatti, pur ammettendo per ipotesi che esista un potere giuridico derivante dalla normativa sulla privacy che costituisca l’obbligo giuridico fondante la posizione di garanzia, non vi è chi non veda che tale potere, anche se correttamente utilizzato, certamente non avrebbe potuto “ impedire l’evento” diffamatorio.
In altre parole anche se l’informativa sulla privacy fosse stata data in modo chiaro e comprensibile all’utente, non può certamente escludersi che l’utente medesimo non avrebbe caricato il file video incriminato, commettendo il reato di diffamazione. (...)
Per cui, nell’ipotesi in esame, l’obbligo del soggetto/web di impedire l’evento diffamatorio, imporrebbe allo stesso un controllo o un filtro preventivo su tutti i dati immessi ogni secondo sulla rete, causandone l'immediata impossibilità di funzionamento.
Considerata l'estrema difficoltà tecnica di tale soluzione e le conseguenze che ne potrebbero derivare , si è quindi in presenza di un comportamento “inesigibile”, e quindi non perseguibile penalmente ai sensi deIl’art. 40 cpv. CP.
Insomma: il giudice non sta dicendo che manca una buona legge che obblighi i provider a controllare preventivamente: sta dicendo che allo stato attuale della tecnologia tale controllo preventivo è impossibile, e quindi inesigible.
Ma c'è di più: dice ancora, il giudice, che esisterebbe una responsabilità penale solo qualora si potesse dimostrare la consapevolezza in capo a Google del contenuto delittuoso del video, è che tale consapevolezza è stata quasi dimostrata dall'accusa, ma a suo giudizio tale prova non è piena; e pertanto in assenza di una prova piena, gli imputati vanno assolti.
Il resto sono obiter dicta: considerazioni parallele alla sentenza, che hanno un proprio valore nell'inquadrare i motivi della decisione ma che non fanno propriamente parte della decisione. Tra questi c'è la molte volte citata frase «Perciò, in attesa di una buona legge che costruisca una ipotesi di responsabilità penale per il mondo dei siti Web (magari colposa, ed allora sì per omesso controllo), non resta che assolvere gli imputati dal reato di cui al capo A, reato che, così come formulato, non sussiste», che estrapolata dal contesto sembra avere un valore ottativo, ma che inquadrata nel resto della sentenza è una semplice constatazione.
Il medesimo giudice, peraltro, un paio di pagine dopo scrive che «In ogni caso questo giudice, come chiunque altro, rimane in attesa di una “buona legge” sull’argomento in questione: internet è stato e continuerà ad essere un formidabile strumento di comunicazione tra le persone e, dove c'è libertà di comunicazione c'è complessivamente più libertà, intesa come veicolo di conoscenza e di cultura, di consapevolezza e di scelta; ma ogni esercizio del diritto collegato alla libertà non può essere assoluto, pena il suo decadimento in arbitrio. E non c'è peggior dittatura di quella esercitata in nome della libertà assoluta : “legum servi esse debemus, ut liberi esse possumus” dicevano gli antichi e ,nonostante il tempo trascorso, non si è ancora arrivati a scoprire una definizione migliore.»

Come si faccia a scrivere che «Ma è proprio con sentenze come questa – in cui viene disatteso il rispetto dei principi più semplici di diritto e di buon senso – che si allontana internet dal resto del mondo civile, e che quindi lo si fa diventare far west» oppure che «quella di Milano era una sentenza molto Zeitgeist, molto in sintonia con certi umori repressivi. Lo confermo. Il giudice Magi fa tintinnare manette sul web. A futura, ma prossima, memoria» io proprio non riesco a comprenderlo.
L'unica spiegazione che mi viene in mente è che chi a suo tempo si è esposto propugnando una certa tesi (che la magistratura sia digiuna di tecnologia, che vi sia voglia di censura, che si voglia far uscire l'Italia dal consesso delle nazioni libere e civili) abbia dovuto fare ogni sforzo logico e argomentativo per trovare tracce di quella tesi nella motivazione della sentenza.

mercoledì 14 aprile 2010

La sentenza Google - le motivazioni

Sono molto interessanti, le motivazioni della sentenza contro Google. La trovate qui, e vale proprio la pena di leggerla (a partire dalla pag. 87, ché prima viene la ricostruzione probatoria).
Emerge anzitutto che il giudice monocratico ha capito come funziona la Internet molto meglio di tanti altri: dei pubblici ministeri, per cominciare, che (loro sì!) avevano impostato l'accusa in termini che avrebbero ammazzato ogni possibilità di sviluppo della rete in Italia; e meglio anche di tanti improvvisati commentatori, che hanno blaterato sciocchezze dopo la pronuncia del dispositivo di condanna, e pure ora citano brani a caso estratti dalla sentenza per dare l'impressione di un abominio giuridico-tecnologico.
La sentenza invece è un piccolo capolavoro di equilibrio, e dimostra che vi sono -anche in campi che non sono proprio coerenti con la propria formazione- giudici che riescono ad approfondire e capire.

Vediamo anzitutto le motivazioni per la condanna ai sensi del capo B d'imputazione: quello per la violazione della legge sulla Privacy.
Il giudice ricostruisce inizialmente il ruolo di Google, distinguendo tra hosting provider e content provider. Lo fa perché questa è stata l'impostazione dei PM, e conclude -conformemente a quanto affermato dall'accusa- che Google agisce come content provider piuttosto che come hosting provider. Dopodiché afferma che tale distinzione non serve a niente, dato che chiunque "tratti" i dati, anche solo per la mera raccolta, è sottoposto agli obblighi della legge sulla privacy.
Ma, si chiede il giudice, si può pensare che un qualunque fornitore di servizi su Internet sia tenuto a verificare preventivamente che ciascun contenuto sia in regola dal punto di vista delle autorizzazioni in tema di privacy? La risposta è negativa, sulla base del principio ad impossibilia nemo tenetur. E non vale la sentenza di Cassazione richiamata dall'accusa, che in tema di diritto d'autore aveva affermato la responsabilità penale di un provider in una fattispecie del tutto diversa.
Il fatto, afferma il giudice, è che "non esiste, a parere di chi scrive, perlomeno fino ad oggi, un obbligo di legge codificato che imponga agli ISP un controllo preventivo della innumerevole serie di dati che passano ogni secondo nelle maglie dei gestori o proprietari dei siti web, e non appare possibile ricavarlo aliunde superando d’un balzo il divieto di analogia in malam partem, cardine interpretativo della nostra cultura procedimentale penale".
E allora perché la condanna? Semplice: perché però "è imponibile un obbligo di corretta informazione agli utenti dei conseguenti obblighi agli stessi imposti dalla legge, del necessario rispetto degli stessi, dei rischi che si corrono non ottemperandoli", e di questo obbligo Google se ne è strafregato (mi sia consentito dire che anche questo l'avevo già scritto a suo tempo).
Google infatti ha nascosto l'informativa sulla privacy e sui relativi obblighi spettanti ai contributori all’interno di "condizioni generali di servizio" il cui contenuto appare spesso incomprensibile , sia per il tenore delle stesse che per le modalità con le quali vengono sottoposte all’accettazione dell’utente. E ditemi voi se, anche in base alla vostra esperienza, ciò risponda o meno al vero. Mi piace citarvi anche il seguente passaggio, sempre in termini di chiarezza della cosiddetta "informativa": Ad assoluta riprova di quanto fin qui riferito, nel momento in cui l’utente più attento e testardo di altri avrebbe voluto compulsare "i punti salienti della normativa sulla privacy di Google" avrebbe scoperto, al punto 2 della medesima ("Quali sono i dati personali e gli altri dati che raccogliamo") che "Google raccoglie dati personali quando vi registrate per accedere ad un servizio di Google ..": non vi è chi non veda che chiunque legga questa frase non può che pensare ai "propri" dati personali e non certo a quelli delle persone incautamente citate o riprese nei "contenuti autorizzati".
In sintesi: Google non è colpevole perché non ha verificato che per il video caricato fosse stato acquisito il consenso dell'interessato: dato che tale verifica sarebbe stata un compito impossibile. E' colpevole perché ha dato un'informativa sulla privacy fatta con i piedi; ed è soprattutto colpevole perché, essendo perfettamente cosciente del fatto che il servizio offerto è particolarmente rischioso dal punto di vista della privacy altrui (come emerge dall'istruzione probatoria), ha scientemente deciso di non evidenziare adeguatamente tale tema agli utenti al fine di massimizzare il numero di contributi raccolti e attraverso essi il profitto. Secondo il giudice, insomma, Google ha scelto di non mettere in guardia i contributori perché in tal modo avrebbe potuto raccogliere meno contributi, e quindi meno soldi. Ed è per questo, e solo per questo, che i suoi dirigenti sono stati condannati.
(continua)

martedì 13 aprile 2010

Lasciatemi citare

Qualche giorno fa avevo scritto un post sulla sentenza che ha condannato alcuni dirigenti di Google. S ene era parlato in rete, e soprattutto straparlato, da parte di un gran numero di argomentatori, si di estrazione tecnica che giuridica, e si era detto un po' di tutto e un po' il contrario di tutto.
In quell'occasione avevo scritto:
La possibilità che mi sembra più concreta (e che certo sarà smentita quando leggeremo le motivazioni, ma lasciatemi fantasticare un po') è che il giudice abbia riconosciuto che anche applicando pedissequamente la normativa sulla privacy, comunque non è detto che il reato sarebbe stato impedito.
.
Le motivazioni della sentenza sono state ora pubblicate, e nel passo fondamentale per l'assoluzione degli imputati (dal reato di diffamazione) il Giudice scrive proprio:
Ed infatti, pur ammettendo per ipotesi che esista un potere giuridico derivante dalla normativa sulla privacy che costituisca l’obbligo giuridico fondante la posizione di garanzia, non vi è chi non veda che tale potere, anche se correttamente utilizzato, certamente non avrebbe potuto "impedire l’evento" diffamatorio.

La sentenza è lunga e merita d'essere approfondita con la dovuta calma (che in questo periodo purtroppo non ho: mi fanno lavorare!), ma questa notarella volevo proprio buttarla giù di getto.

lunedì 8 marzo 2010

Diritto e rovesci

Arrivo buon ultimo a fare un ragionamento sulla questione dell'ammissione alla competizione elettorale delle varie liste che fanno riferimento all'area della maggioranza di governo. Ho una vita anch'io, e probabilmente sono fuori tempo massimo, ma spendo comunque due parole.
Avevo scritto al riguardo due post: uno per dire che comunque Polverini e Formigoni avrebbero partecipato alle elezioni, e la cosa interessante sarebbe stata capire non se bensì come sarebbero state riamesse; l'altro, in risposta a chi riteneva che un banale timbro non fosse una questione sulla quale perdere troppo tempo, che dava conto di come timbri e termini siano molto importanti, e pertanto di come il problema della mancanza di uno o del ritardo nel rispetto degli altri fossero sostanza e non mera forma.
E' ora il caso di tirare le fila.

Chi opera ogni giorno nel campo del diritto ha ben presente la differenza tra diritto sostanziale e diritto procedurale; sa che il rispetto delle procedure è essenziale per far valere la sostanza delle cose e sa che il rispetto di termini e adempimenti è almeno altrettanto importante del rispetto dei doveri e dei diritti sostanziali. L'avvocato che perde un termine perde la causa, e quindi il suo cliente perde il proprio diritto sostanziale per un errore procedurale.
Dal punto di vista del giurista, quindi, la mancata presentazione di una lista entro il minuto stabilito dalla legge, o la mancanza di un'autentica fatta nelle dovute forme, sono motivi sufficienti e cogenti per l'esclusione di quella lista dalla competizione.

Cerchiamo però di allargare lo sguardo dalla teoria alla realtà, e chiediamoci cosa sarebbe successo se quelle liste fossero state escluse. E non ponendoci dal punto di vista dell'elettore di destra, "privato del proprio diritto di voto" (questa è una cazzata, in quanto nessuno avrebbe pensato a impedire all'elettore di votare: semplicemente avrebbe dovuto scegliere tra liste meno facilone rispetto a quelle che avrebbe scelto).
No: mettiamoci dal punto di vista del Penati o della Bonino di turno, e chiediamoci cosa avremmo fatto una volta vinte le elezioni regionali a tavolino. Avremmo potuto veramente governare la nostra regione per cinque anni? O dal giorno dell'insediamento ogni e qualsiasi nostra decisione, perfino il contributo alla festa patronale di una lontana comunità montana, sarebbe stato contestato in quanto il nostro governo regionale sarebbe stato sostanzialmente privo di una vera legittimazione? Cosa sarebbe venuto fuori dalle urne? Un governo destinato a traccheggiare nell'ordinaria amministrazione; e anche in questo campo tra enormi difficoltà.
Sappiamo bene quanto chi governa debba prendere scelte talora impopolari, e quanto spesso in questi casi si appelli (talora a sproposito) al fatto che il suo esecutivo "ha il consenso degli elettori". Ecco: pensate cosa sarebbe un governo che non ha neppure il consenso degli elettori, e capite bene che non vi sarebbe modo di governare efficacemente. Sarebbe stato un disastro di proporzioni epiche: e questo ci fa capire che è diversa l'esclusione dalle elezioni del partito dell'automobilista, forte del suo 0,02%, rispetto al partito della libertà che può ragionevolmente contare su un 40-50%: l'esclusione anche ingiusta del primo non delegittima il risultato del voto, mentre l'esclusione pur giusta del secondo sì. E, ciò che è più grave, mette il vincitore uscito dalle urne in posizione di tale debolezza politica da fargli rimpiangere di non aver perso.

E però: una volta fatto il pasticcio delle presentazioni, come far sì che la legge fosse rispettata, e allo stesso tempo il governo regionale fosse rappresentativo del popolo?? L'unica soluzione che mi viene in mente è fare come succede sul campo di pallone, quando un giocatore s'infortuna: la squadra in possesso di palla butta il pallone fuori per fermare il gioco e consentire all'avversario di essere soccorso; dopodiché alla ripresa la squadra che deve rimettere passa il pallone a coloro che hanno buttato la palla fuori. Le regole sono rispettate e la sostanza pure.
Nello specifico, l'unica soluzione formalmente e politicamente corretta sarebbe stata quella di celebrare le elezioni senza le liste escluse, e che immediatamente dopo la proclamazione dei vincitori questi si dimettessero per indire una nuova tornata. Il problema è che la soluzione è politicamente e giuridicamente corretta, ma costa un fracco di soldi: e chi li avrebbe sentiti quelli de lavoce.info, questa volta?
No, bisognava trovare un'altra soluzione.
La peggiore di tutte sarebbe stata quella di affidare alla magistratura il compito di riammettere le liste escluse: questo -perlomeno nel caso della lista PdL laziale- avrebbe potuto essere fatto solo con una tale stortura delle norme da gridare vendetta. La magistratura sarebbe stata connivente di una grande truffa: non per aver fatto partecipare la lista, bensì per aver dovuto impapocchiare una giustificazione del tutto campata in aria. e così facendo avrebbe perso, anche per il futuro, qualunque credibilità.
E allora, credo sia stato cento volte meglio il decreto-legge. Con quest'atto il governo si è preso la piena responsabilità della manipolazione del dettato della legge, salvando la magistratura da una pericolosa e indebita connivenza.
Ora è chiaro a tutti, da qualunque parte essi si schierino, chi ha fatto le sciocchezze e chi ci ha messo una pezza; ed è pure chiaro che fa rispettare le regole e chi le forza a proprio piacimento.
Certo, l'elettore della Polverini sarà dalla parte di chi forza le regole, ma perlomeno si avrà la consapevolezza (da ambo le parti) che le regole sono state forzate, e che è stato commesso un vero e proprio abuso giuridico, sia pure con un (più o meno) nobile fine.
In tal quadro, è inutile, sciocco e un po' in malafede dare addosso al povero Napolitano: cosa avrebbe dovuto fare? avrebbe dovuto veramente impuntarsi e far giocare una competizione falsata per poi dover smontare tutto daccapo, di lì a poco tempo? No, anche lui ha dovuto prendere atto della cazzata fatta dalle destre, e accettare di buon grado la pezza a colore cucita dalle destre stesse, lasciando che la responsabilità della cazzata e della pezza ricadessero sulla medesima parte politica.
E, francamente, anch'io sono lieto: chi mi conosce può ben immaginare quanto ci tenga ad avere altri cinque anni di Formigoni in Regione; ma credo proprio che un governo Penati (o chichessia) eletto dal 35% dei lombardi e destinato a durare un annetto scarso si sarebbe poi risolto in una mazzata dalla quale la sinistra non si sarebbe ripresa per decenni.

Un'ultima considerazione sul cosiddetto "popolo viola", i Travagli e i Gilioli. La lista di Formigoni -almeno a quanto ho capito- è stata riammessa dal TAR sulla base di un motivo squisitamente procedurale. In partica il TAR ha detto che la corta d'appello aveva già ammesso la lista, e quindi non era legittimata a escluderla successivamente. E' questo un principio basilare del nostro ordinamento procedurale, quello che un giudice decide una volta sola e una volta deciso non è che possa ripensarci e tornare indietro. Questione di lana caprina, se vogliamo, ma anche l'assenza di un timbro pure lana caprina è.
Chi vuol atteggiarsi a garante dello Stato di diritto e delle forme non è che lo possa fare a senso unico, e appigliarsi ai cavilli solo allorquando conviene alla propria parte, salvo dimenticare la cavillosità quando un cavillo di segno contrario smonta il cavillo precedente.
Far prevalere la forma sulla sostanza, lo ripeto, sarebbe stato giuridicamente giusto ma politicamente poco lungimirante. Pretendere invece che la forma che ci piace prevalga sulla forma denota semplicemente malafede o, peggio, mancanza della capacità di interpretare il mondo che ci circonda.

giovedì 4 marzo 2010

Principi di aritmetica applicata

Molti credono che il solo fatto di avere una tastiera e una connessione a Internet legittimi a scrivere qualunque puttanata passi in mente e a tranciare giudizi su qualunque parte dello scibile umano.
Come se io mi mettessi qui a discettare di scale tonali e modali, e vi illustrassi compiutamente la differenza tra le due. Ecco: non è così che funziona.
Nulla impedisce di avere un blog dove si racconta al prossimo dell'amore verso il proprio fidanzato o si mostrano le foto del proprio gattino, e il bello è che c'è anche chi le andrà a guardare, quelle foto; e a leggerli quei pensieri. Ma si dovrebbe avere la compiacenza, più verso sé stessi che verso il prossimo, di limitarsi a quello.

Dunque: Omar e Erika. L'uno condannato a 14 anni e l'altra a 16. E' giù gente (non solo blogger, anche giornalisti!) a disquisire del fatto che 97 coltellate, e che il bambino di 12 anni, e che "muori, muori", e così via.
Vediamo un po' come stanno le cose.

  • In Italia non c'è più la pena di morte: è rimasto l'ergastolo. Gli artt. 576 e 577 c.p. dispongono che per l'omicidio dell'ascendente o discendente, anche con crudeltà (caso di Erika), come pure per l'omicidio premeditato (caso di Omar) si applica la pena dell'ergastolo.
  • L'art. 98 c.p. dispone che il minore degli anni diciotto, che abbia compiuto i quattordici anni, sia imputabile; ma la pena è diminuita.
  • L'art. 65 c.p. dispone che in caso di diminuzione, alla pena dell'ergastolo è sostituita la pena della reclusione da venti a ventiquattro anni.
  • L'art. 442 c.p.p. c.2 dispone che in caso di condanna con rito abbreviato la pena sia ridotta di un terzo.
    Facciamo un po' di conti, e vediamo che il GUP ha condannato Erika a 24 anni (vale a dire il massimo secondo quanto previsto dall'art. 65 c.p.), che ridotti di un terzo diventano 16 anni.
    Ha condannato poi Omar a 21 anni, che ridotti di un terzo diventano 14 anni.
    Alle condanne come sopra inferte si applica l'indulto della Legge 31 luglio 2006, n. 241 (che non esclude per i casi di omicidio).
    Si applicano poi le riduzioni di pena previste dall'art. 54 dell'Ordinamento penitenziario secondo il quale "Al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione, e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata."
    Ecco, questi i fatti. Poi possiamo disquisire su ciascun singolo punto; ma prima i punti bisogna conoscerli.


  • mercoledì 3 marzo 2010

    Termini e decadenze

    «La sostanza prevalga sulla forma»

    Così si esprime il Presidente del Senato (la seconda carica dello Stato!) sul pasticcio delle liste elettorali in Lazio e in Lombardia.
    Adesso facciamo un po' di diritto civile.
    Secondo l'art. 2043 c.c. chi causa un danno ingiusto ad altri ha l'obbligo di risarcirlo. L'art. 2947 c.c. tuttavia stabilisce che il diritto a questo risarcimento si prescrive in cinque anni.
    Pertanto, se io subisco un danno, tipo una macchia d'umidità per una perdita d'acqua condominiale, o la distruzione della mia casa per lo scoppio della raffineria limitrofa, ho tempo cinque anni per chiedere i danni. Se lil chiedo dopo 4 anni e 364 giorni sono ancora in tempo; se aspetto un giorno in più, invece, ho perso il mio diritto.
    Ora, la prescrizione è un istituto giusto e fondamentale: se non esistesse la prescrizione, io potrei essere chiamato un giorno a rispondere del fatto che il mio bisnonno ha fatto morire un cavallo che gli era stato affidato, per incuria; o che il mio quadrisavolo (ammesso che fosse muratore) aveva costruito male un edificio, poi crollato uccidendo una famiglia. E' evidente che tale prospettiva è inaccettabile: non si può vivere nel dubbio di dover rispondere per sempre delle azioni proprie e di coloro di cui siamo eredi: e pertanto esiste la prescrizione (nota: stiamo parlando di prescrizione civile, beninteso).
    Se quindi la prescrizione è un istituto naturale, il termine di cinque anni, quello è puramente arbitrario. Non esiste una ragione ontologicamente determinata per stabilire il termine in cinque anni piuttosto che in sette. E del resto lo stesso termine di cinque anni non è costante, in quanto a seconda dei casi può decorrere in 1826 o in 1827 giorni. Una cosa certa è che a cavallo della mezzanotte del trecentosessantaquattresimo giorno del quinto anno non accade nulla di nulla, nel mondo fisico e reale, ma dal punto di vista giuridico accade qualcosa di molto importante.
    Perché il diritto, vedete, non è una rappresentazione fedele del mondo reale: è una costruzione astratta di regole, in parte logiche e naturali e in parte del tutto artificiali; che però sono necessarie al pari delle prime. Se io chiedessi il danno alle otto del mattino del primo giorno del sesto anno, potrei ben dire che dal punto di vista sostanziale il mio buon diritto sussiste: in fondo rispetto al giorno prima non è cambiato nulla. Ma allora cosa cambierebbe se lo chiedessi una settimana dopo? E se lo chiedessi dopo dieci anni? o dopo cent'anni?
    Certo, tra cent'anni e otto ore c'è una bella differenza: ma dov'è il limite dell'elasticità? Potrebbe deciderlo il giudice, ma questo da un lato gli conferirebbe un potere arbitrario, e dall'altro non farebbe che moltiplicare i motivi di contenzioso, che già sono tanti.
    No: il termine di cinque anni è di cinque anni, e se uno sfora anche solo di un minuto sono solo problemi suoi; se così non fosse, non avrebbe neppur senso porre un termine.

    Immaginiamo adesso che io, scioccamente, abbia chiesto il danno alla famosa raffineria, dopo sei anni dall'accadimento. Faccio notificare una bella citazione con la quale chiedo che la raffineria sia condannata a pagarmi il valore della casa distrutta. La raffineria, dal canto suo, deve scrivere in un atto chiamato comparsa di risposta tutte le sue difese. Secondo l'art. 167 c.p.c. infatti "Nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni. A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio". Quell'a pena di decadenza vuol dire che se la raffineria non scrive nella comparsa di risposta che il mio diritto si è prescritto, non lo può fare mai più: si è bevuta la prescrizione, e mi dovrà pagare il danno.
    L'art. 166 c.p.c. poi stabilisce che la comparsa di risposta deve essere depositata in cancelleria almeno venti giorni prima dell'udienza di comparizione: il che significa che se all'avvocato della raffineria gli si buca la ruota della macchina, e non fa in tempo a depositare la comparsa se non il diciannovesimo giorno prima, anche in questo caso la prescrizione ormai non vale più nulla.
    Anche qui si può obiettare che tra il ventesimo e il diciannovesimo giorno non ci sia questa gran differenza; che il foramento della ruota non è colpa dell'avvocato; che magari l'avvocato era un'avvocata ed è andata a partorire prematuramente, e questo certo è un fatto grave e meritevole di tutela. Ma comunque quel termine del ventesimo giorno è stabilito, e se viene sforato il diritto (o in questo caso l'eccezione) è persa; ed è giusto così: perché se ammettessimo la validità di un deposito al diciannovesimo giorno prima perché l'avvocatessa è andata a partorire, via via per approssimazioni e flessibilizzazioni dovremmo pure ammettere un deposito il giorno prima dell'udienza perché la figlia della cugina aveva il saggio di danza.

    Nelle cose di diritto, insomma, la forma è sostanza, perché se così non fosse si sconfinerebbe nell'arbitrio. Ed è per questo che non importa se un deposito di firme sia avvenuto solo mezz'ora dopo il termine stabilito, né se il depositante avesse fame, sete o gli scappasse improvvisamente la cacca. Se il termine è decorso è decorso, non ci sono tante storie da fare.

     

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