giovedì 25 febbraio 2010

Qualche nota a margine della sentenza contro Google

La filosofia di questo blog è che non si parla di cose serie se non le si conosce abbastanza da peter esprimere un parere meditato e motivato.
Quello che scrive qui non ha letto le motivazioni della sentenza (che non sono state ancora scritte) né ha avuto accesso agli atti processuali, e quindi dovrebbe tacersi): tuttavia una certa irritazione per aver letto tanti commentatori improvvisati fa sì che anch'io desideri sviluppare qualche ragionamento.
Possiamo partire da un documento pubblico: il decreto di citazione diretta a giudizio emanato dalla Procura della Repubblica di Milano nei confronti di cinque imputati, che contiene tre capi d'imputazione:

il primo, nei confronti di quattro imputati, per concorso in diffamazione: l'accusa è quella di aver concorso nell'offendere la reputazione del malcapitato soggetto brutalizzato nel filmino postato su Youtube e dell'associazione Vivi Down, alla quale sono state attribuite frasi ingiuriose (che non ritrascrivo, ma potete leggere nell'atto d'accusa);
- il secondo, nei confronti di tre imputati, per aver trattato illecitamente e a fini di profitto dati personali in violazione degli artt. 23, 17 e 26 della legge 196/2003;
- il terzo riguarda una vicenda meramente processuale e non ne parleremo.

Vediamo un po' il primo capo d'accusa: quello per diffamazione. L'accusa afferma che la responsabilità in capo a Google discende dall'art. 40 c.2 c.p., il quale a sua volta afferma che non impedire un evento che si ha l'obbligo di impedire equivale a cagionarlo.
Il concorso nel reato (che come ovvio è stato commesso da chi ha postato il filmino e ha scritto il commento infame) è attribuita a Google in base all'art. 40 2° comma c.p., vale a dire "per non aver impedito un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire"; e tale obbligo giuridico viene fatto risalire proprio alla normativa sul trattamento dei dati personali.
La legge sulla privacy entra quindi due volte nell'accusa: una volta, per sanzionare il fatto che Google si è strafregato del fatto che tramite la propria piattaforma tratta dati personali; la seconda, perché se non se ne fosse strafregato, Google avrebbe impedito la commissione di un reato (la diffamazione).

Il giudice, di questi due reati, ne ha riconosciuto solo uno: vale a dire l'essersi strafregato della normativa sul trattamento dei dati. Egli ha condannato Google a tale titolo, e quindi ha espressamente riconosciuto che Google avrebbe dovuto seguire la normativa in questione. Ma poi si è fermato: non ha cioé riconosciuto anche che da tale mancanza discenda anche la responsabilità per il reato di diffamazione, attraverso il meccanismo dell'art. 40 c.2 c.p.: e ha mandato assolti i dirigenti per tale capo d'imputazione.
Cosa può significare ciò? Ci sono varie possibilità sul tavolo: può essere anzitutto che il video non sia stato ritenuto diffamatorio: ma quest'ipotesi è così assurda che non la prendiamo neppure in considerazione.
Può essere che il giudice non abbia riconosciuto il concorso colposo in un delitto doloso, ma dato che non stiamo parlando di un concorso semplice nel reato, bensì di un concorso mediato dall'art. 40 c.2, anche tale eventualità appare remota.
La possibilità che mi sembra più concreta (e che certo sarà smentita quando leggeremo le motivazioni, ma lasciatemi fantasticare un po') è che il giudice abbia riconosciuto che anche applicando pedissequamente la normativa sulla privacy, comunque non è detto che il reato sarebbe stato impedito.
In altre parole: è possibile che il giudice abbia affermato che non sta a Google controllare uno per uno i contenuti che vengono postati su YouTube: o perché ciò è materialmente impossibile, o perché Google è un mero aggregatore di contenuti prodotti da terzi.
Certo, in questi giorni state leggendo dovunque delle opinioni opposte da parte di commentatori che si empiono la bocca di "libertà della rete", "filosofia di internet" e via discorrendo, tutte cose -detto per inciso- che non sono previste dai nostri codici. Ecco, io chiedo a costoro: come diavolo potete spiegare l'assoluzione per il concorso in diffamazione? Io l'unica spiegazione che vedo è che il giudice abbia ritenuto che Google non debba o non possa vagliare uno per uno i contenuti pubblicati; ma se qualcuno ne ha un'altra giuridicamente solida mi piacerebe leggerla.
Certo, c'è di contro la condanna per la violazione dell'art. 167 della legge 196: e anche questa condanna si spiega facilmente. Quella norma dispone che chi effettua a fine di profitto o di altrui danno (insomma: non per hobby) trattamenti di dati, sensibili o meno, debba assumere una serie di precauzioni e cautele.
Secondo l'accusa (e quindi con tutta probabilità secondo il giudice) Google non si è preoccupato dell'esistenza di una normativa del genere in Italia, e ha messo in piedi il servizio Google Video aprendolo a cani e porci senza alcun controllo preventivo: e non lo dico io bensì il capo d'accusa:
Trattamento omesso - anche in relazione alle concrete misure organizzative da apprestare, idonee alla sua successiva attuazione - fin dalla fase antecedente alla effettiva localizzazione del servizio Google Video (…), non avendo né i due rappresentanti legali di Google Italy, né il responsabile del progetto Google Video (…) né tantomeno il Global Privacy Counsel di Google Inc. affrontato la problematica relativa alla protezione dei dati personali che sarebbero stati trattati in relazione a Google Video, che invece veniva volutamente lanciato come servizio ‘dì “libero accesso” dopo una attenta analisi del mercato italiano
Quali le conclusioni da trarre? non ne ho, in quanto stiamo discorrendo sul nulla o quasi: e difatti ho intitolato questo post "note a margine"; ma vorrei sottolineare due cose: una che forse sia un po' troppo presto per stracciarsi le vesti; l'altra, che commentare i dispositivi delle sentenze è un esercizio intellettuale che può anche essere divertente, ma che serve a ben poco in quanto al mero dispositivo si può far dire tutto e il contrario di tutto.

2 commenti:

Giacomo Cariello ha detto...

La legge sul trattamento dei dati personali è fatta male e secondo me questa sentenza farà scoppiare il bubbone.

Nel caso in questione, la 196/2003 prescrive che qualsiasi entità sia residente in Italia sia soggetta alla legge italiana per quanto riguarda tutti i trattamenti posti in essere, indipendentemente da dove avvengono. Al contrario la legge sulla privacy UK si applica solo qualora: "the data controller is established in the United Kingdom and the data are processed in the context of that establishment". Una bella differenza! In pratica in Italia abbiamo condannato delle persone che non c'entravano nulla coi trattamenti eventualmente illeciti, per il semplice fatto che erano la rappresentanza italiana di Google.

Anonimo ha detto...

Anche un tipografo trae profitto dalle riviste scandalistiche. E cosi' pure un giornalaio.
Pertanto quando una rivista o un giornale vengono condannati per violazione della privacy oppure per diffamazione, occorrera' condannare pure la tipografia e tutti i giornalai che hanno venduto.
Quindi tipografi e giornalai dovranno controllare le notizie scritte da altri?

 

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