martedì 21 settembre 2010
lunedì 20 settembre 2010
Colonnini
Di solito cito Repubblica, ma il colonnino infame del Corriere online di oggi merita di essere salvato per i posteri.
venerdì 17 settembre 2010
Società civile
Mi ero ripromesso di non occuparmi più del Puffo Fesso, ma talvolta non ci si può trattenere.
Ieri abbiamo avuto il tristo spettacolo di uno, che nella vita non ha mai fatto un lavoro diverso da quello del politico, raccontare che per le prossime elezioni bisogna apprestarsi a trovare un candidato leader della coalizione di centrosinistra rovistando tra i cassonetti della società civile.
Società civile è una buzzword il cui significato, scava scava, vuol dire: «coloro che non fanno il politico di professione». Questo mito della società civile noi lombardi ben lo conosciamo: sono vent'anni che ci sfracassano i marroni proponendoci candidati della società civile ai vari livelli di elezioni locali, e sono vent'anni che il candidato proposto perde miseramente. Certo, è probabile che in Lombardia un candidato di centrosinistra sia destinato a perdere a prescindere, però, avendoci fatto il callo, chi abita quassù è legittimato a pensare che il mito della «società civile» abbia fatto il suo tempo tanto quanto le calze di nylon come strumento per scoparsi le polacche.
L'idea di prender gente dalla società civile equivale a quella di prendere un avvocato per curarsi la gotta, o un veterinario per riparare lo sciaquone otturato del water: io conosco avvocati geniali e veterinari bravissimi, ma se mi si rompe lo scarico del cesso, guarda un po', preferisco affidarmi ad un idraulico.
Perché mai con la politica la cosa dovrebbe funzionare diversamente? Forse governare un paese è più semplice che sostituire un passo rapido?
Ieri abbiamo avuto il tristo spettacolo di uno, che nella vita non ha mai fatto un lavoro diverso da quello del politico, raccontare che per le prossime elezioni bisogna apprestarsi a trovare un candidato leader della coalizione di centrosinistra rovistando tra i cassonetti della società civile.
Società civile è una buzzword il cui significato, scava scava, vuol dire: «coloro che non fanno il politico di professione». Questo mito della società civile noi lombardi ben lo conosciamo: sono vent'anni che ci sfracassano i marroni proponendoci candidati della società civile ai vari livelli di elezioni locali, e sono vent'anni che il candidato proposto perde miseramente. Certo, è probabile che in Lombardia un candidato di centrosinistra sia destinato a perdere a prescindere, però, avendoci fatto il callo, chi abita quassù è legittimato a pensare che il mito della «società civile» abbia fatto il suo tempo tanto quanto le calze di nylon come strumento per scoparsi le polacche.
L'idea di prender gente dalla società civile equivale a quella di prendere un avvocato per curarsi la gotta, o un veterinario per riparare lo sciaquone otturato del water: io conosco avvocati geniali e veterinari bravissimi, ma se mi si rompe lo scarico del cesso, guarda un po', preferisco affidarmi ad un idraulico.
Perché mai con la politica la cosa dovrebbe funzionare diversamente? Forse governare un paese è più semplice che sostituire un passo rapido?
Stronzi
Quando leggo che si fanno classi di 51, di 40 o anche solo di 35 allievi, non posso far a meno di pensare che in giro ci sono sempre troppi stronzi. E stronze.
giovedì 16 settembre 2010
Vive les vacances!
Non so se essere più scioccato o più divertito dalla coazione a ripetere che porta la stampa italiana (e magari anche straniera, per quanto ne so) a concedere gratuitamente le proprie pagine al signor O'Leary, il comandante in capo di Ryanair.
Qualunque persona dotata di medio buonsenso ha ormai capito che la sua strategia di comunicazione è semplicissima: anziché telefonare alla concessionaria di pubblicità per acquistare paginoni a caro prezzo, il simpatico irlandese, quando vuole rinfrescare un po' la memoria dei potenziali passeggeri, s'inventa una sciocchezza qualsiasi e la butta lì al primo che la raccoglie, certo che l'enormità della cazzata assicurerà per sé stessa la più ampia diffusione della notizia e, con essa, del nome della compagnia.
Ben prima che O'Leary prendesse il controllo di Ryanair, e anzi ben prima che la compagnia aerea venisse fondata, altri avevano già preconizzato la direzione in cui il nostro geniaccio del marketing aveva preso.
Jean-Marc Reiser, un genio del fumetto, pubblicò nel 1979 Vive le vacances!, un libretto semplicemente delizioso.
In esso era contenuta la strip che vi propongo qui sopra, che ho trovato in rete nella traduzione inglese, dato che non tutti capiscono il francese e quello di Reiser non è esattamente scolastico.
Qualunque persona dotata di medio buonsenso ha ormai capito che la sua strategia di comunicazione è semplicissima: anziché telefonare alla concessionaria di pubblicità per acquistare paginoni a caro prezzo, il simpatico irlandese, quando vuole rinfrescare un po' la memoria dei potenziali passeggeri, s'inventa una sciocchezza qualsiasi e la butta lì al primo che la raccoglie, certo che l'enormità della cazzata assicurerà per sé stessa la più ampia diffusione della notizia e, con essa, del nome della compagnia.
Ben prima che O'Leary prendesse il controllo di Ryanair, e anzi ben prima che la compagnia aerea venisse fondata, altri avevano già preconizzato la direzione in cui il nostro geniaccio del marketing aveva preso.
Jean-Marc Reiser, un genio del fumetto, pubblicò nel 1979 Vive le vacances!, un libretto semplicemente delizioso.
In esso era contenuta la strip che vi propongo qui sopra, che ho trovato in rete nella traduzione inglese, dato che non tutti capiscono il francese e quello di Reiser non è esattamente scolastico.
lunedì 13 settembre 2010
venerdì 10 settembre 2010
Fischi e fischietti
Questo è un post mica tanto facile, perché tratta di una materia complessa e perché io stesso non ho le idee ben chiare: perciò butto giù un po' di argomenti senza la velleità di dar loro una forma organica.
Parliamo di fischi e di democrazia. Come tutti sapete, negli scorsi giorni vi sono state svariate apparizioni pubbliche di personaggi (Dell'Utri, Schifani, Bonanni) che, invitati a intervenire a iniziative di vario genere, sono stati interrotti e hanno dovuto rinunciare a terminare i loro discorsi. In tutti i casi tali contestazioni sono venute da gruppi numericamente poco numerosi, ma determinati nel loro agire, talché la rimanente parte del pubblico, largamente maggioritaria, non ha potuto assistere alle iniziative a cui intendeva partecipare.
Il primo pensiero che mi è venuto in mente, subito dopo il primo episodio, è stato che la libertà di parola ha come contraltare la libertà di critica, e pertanto chi accetta o pretende di parlare in una manifestazione pubblica deve anche accettare il fatto che il suo intervento non nnecessariamente sarà applaudito: può anche essere fischiato. Il fischiare è una delle tante forme con le quali si può esprimere il proprio disaccordo, e non riesco a trovare nulla di antidemocratico nella circostanza che di fronte a una mia affermazione qualcuno mi possa dare del cretino, indipendentemente dal fatto che egli abbia o meno ragione (anche perché, quando si tratta di punti di vista, e in ispecie di politica, la ragione e il torto non sono accertabili scientificamente, come si farebbe con la dimostrazione di un teorema matematico).
Già al secondo episodio mi sono però accorto che questa impostazione ha un grave limite: se bastano dieci o venti persone per rovinare la festa a mille persone impedendo loro di fruire di un'iniziativa, ben presto potrebbe divenire impossibile organizzare qualunque cosa un po' più importante di una cena tra amici in pizzeria: perché per qualunque argomento che possa richiamare una partecipazione minimamente numerosa, dalla cura delle malattie autoimmuni alla cucina cinese, ci sarà qualche cretino che vorrà contestare l'oratore di turno in nome del proprio ideale antivivisezionista o pro-tibetano. Notate, per inciso, che la cretineria del prevaricatore non è minimamente collegata alla validità della causa che egli intende supportare: l'essere antifascisti, per dire, non è un motivo valido per interrompere un conveglio di studi su De Felice, né l'essere pacifisti giustifica il boicottare un convegno sull'evoluzione storica della dottrina MAD.
Quindi si può affermare che l'esercizio del diritto di critica sia sì legittimo, ma non quando tale esercizio impedisce la manifestazione del pensiero: come giustamente ha fatto notare un commentatore, i loggionisti talora fischiamo il direttore d'orchestra, ma lo fanno dopo, e non prima, l'esecuzione dell'opera.
Ha poi avuto luogo la contestazione a Bonanni, che a differenza delle precedenti ha segnato un'ulteriore evoluzione: qui i contestatori non si sono limitati a interrompere con il loro vocìo, ma sono passati alle vie di fatto: e siamo pertanto trascesi dal campo della violenza verbale a quella fisica, il che è per definizione inaccettabile, trattandosi di comportamenti violenti e prevaricatori che costituiscono reato.
Potremmo finire qui ma la questione dicendo che quelli dei centro sociali dovrebbero passare qualche giorno in guardina, ma non è così semplice: e l'ho compreso leggendo il lancio della notizia sul Post. L'articolo infatti conclude così: Alle 17,22, quando pubblichiamo questa notizia, il dibattito è annullato e gli ospiti sembrano essersi allontanati. I contestatori stanno ancora urlando slogan e fronteggiando la polizia in un’immagine da anni Settanta nel centro di Torino. L'immagine degli anni Settanta nel centro di Torino mi ha fatto venire in mente che quelli sono stati sì anni in cui quotidianamente si è sperimentata violenza e prevaricazione; ma sono anche gli anni in cui i diritti civili e dei lavoratori in questo Paese si sono affermati.
Lo Statuto dei Lavoratori, che data proprio dal 1970, è il frutto di lotte operaie che non si sono svolte mediante la contrapposizione dialettica di operai e imprenditori su un palco, davanti a un tavolino con l'acqua minerale: si sono svolte invece con modalità squisitamente violente e prevaricatrici.
Non sto parlando degli anni di piombo e del terrorismo rosso o nero, fenomeni pur coevi: mi basta pensare ad un picchetto fuori da una fabbrica. I giovani lettori forse non hanno idea di cosa fosse un picchetto, ma chi ha qualche anno sul groppone sa bene che non era un esercizio di democrazia: c'erano i bastoni, c'erano le catene e quando mancavano c'erano -e bastavano- le mani nude di un gruppo di fresatori. Chi si fosse provato ad entrare oltre i cancelli si sarebbe guadagnato non un commento di riprovazione né un sonoro coro di fischi, bensì una corsa in ambulanza al traumatologico. Quello era il clima, ma quel clima ci ha dato dei diritti che a distanza di quarant'anni sono ancora attuali.
Il fatto è che ci sono momenti storici nei quali certuni devono lottare per conquistare nuovi diritti, fino ad allora negati. Non ci tengo a far la figura del pedante, ma mi prendo qualche altra riga per rammentarvi che la notte del 4 agosto 1789 (l'abolizione del feudalesimo) è stata preceduta, e non per caso, dal 14 luglio con la Presa della Bastiglia. E' pur vero che questo evento ha avuto un significato poco più che simbolico, dato che i prigionieri erano una mezza dozzina in tutto, e certo non si può paragonare quell'azione con i massacri della Vandea e le decine di migliaia di giustiziati del Terrore; ma non credo che ciò possa essere una gran soddisfazione per il sorvegliante della prigione, portato in trionfo per le vie di Parigi dalla folla, però solo dal collo in su e infilzato in cima a una picca. E vi risparmio le rivoluzioni inglese, americana e sovietica.
Insomma, ci sono momenti, che coincidono sempre con periodi di crisi, in cui il confronto delle idee si fa non solo con le parole ma anche con le mani: perché quando le cose vanno bene tutti sono soddisfatti, anche gli ultimi; ma quando vanno male gli ultimi cominciano a non farcela più, e le belle parole non bastano dato che non possono essere servite in tavola. Ammettiamo che sia vero, come ho letto, che Marchionne guadagni 400 volte un suo operaio. Ebbene tale moltiplicatore costituisce un problema tutto sommato astratto filosofico finché tutti possono fare la propria vita più o meno soddisfacente; ma diviene però serio e impellente nel momento in cui l'operaio per mettere in tavola la zuppa deve passare dal banco dei pegni.
Ora, noi oggi ci troviamo esattamente in tale condizione. Le disparità sociali sono incredibilmente aumentate, il Paese è diviso tra gente che spende, spande e ostenta e gente che ogni giorno si sforza di nascondere la propria miseria che si accresce. Il lavoro si precarizza, i salari reali diminuiscono, chi ha dei figli immagina per loro un futuro ancora più nero e ci si guarda indietro, agli anni Settanta e Ottanta, con lo stesso spirito di Francesca nel quinto canto. La debolezza dei sindacati, oltretutto divisi tra loro, evidenzia ancor più la protervia dei padroni, che non perdono l'occasione per attentare a diritti un tempo dati per scontati. Quando io ho studiato il diritto del lavoro, ed erano passati quasi vent'anni dallo Statuto, l'idea stessa che un imprenditore potesse immaginare di non far entrare in fabbrica un lavoratore reintegrato era semplicemente assurda, così come il baratto degli investimenti contro i diritti; mentre oggi Marchionne si permette di spedire telegrammi dicendo ai lavoratori di restare a casa, ché tanto li pagherà comunque, e ci sono sindacati che firmano accordi cedendo diritti acquisiti in cambio di macchinari produttivi.
Badate, questi che ho descritto sono dati di fatto, indiscutibili. Potremmo perdere giorni a spiegarci i motivi di queste tendenze, primo fra tutti il fatto che la globalizzazione comporta il livellamento dei diritti, dei salari e di tutto il resto, talché l'operaio italiano ci perde e quello cinese ci guadagna, esattamente come un corpo caldo si raffredda riscaldando un corpo freddo, ma qui non andiamo a cercare le ragioni, bensì misuriamo gli effetti. E gli effetti sono quelli che ho descritto.
Non credo sia troppo azzardato profetizzare che quelle che abbiamo visto in questi giorni siano solo le prime avvisaglie di una stagione in cui torneranno in auge le lotte vere, quelle toste. E non sarà certo Enrico Letta, del quale mi è rimasta impressa l'immagine, il golfino sulle spalle e la ripetizione ossessiva della medesima frase: "siete antidemocratici", a fermarle: perché qui il problema non è più la democrazia, che è un valore che si può permettere chi ha la pancia piena, bensì la sopravvivenza quotidiana.
E' una tendenza che si può invertire? Non lo so: molto dipenderà dalla capacità della classe dirigente di cogliere il cambio di passo e rispondere con azioni concrete in difesa delle classi (sì, classi) che scontano il maggior disagio sociale. Se questo avverrà, bene; se non avverrà, e alla richiesta di maggior giustizia sociale si continuerà a rispondere con dibattiti sterili, sorrisi da imbonitore e false promesse di futuri Bengodi, be' allora credo proprio che dovremo prepararci rivedere scene delle quali avevamo perso l'abitudine.
Parliamo di fischi e di democrazia. Come tutti sapete, negli scorsi giorni vi sono state svariate apparizioni pubbliche di personaggi (Dell'Utri, Schifani, Bonanni) che, invitati a intervenire a iniziative di vario genere, sono stati interrotti e hanno dovuto rinunciare a terminare i loro discorsi. In tutti i casi tali contestazioni sono venute da gruppi numericamente poco numerosi, ma determinati nel loro agire, talché la rimanente parte del pubblico, largamente maggioritaria, non ha potuto assistere alle iniziative a cui intendeva partecipare.
Il primo pensiero che mi è venuto in mente, subito dopo il primo episodio, è stato che la libertà di parola ha come contraltare la libertà di critica, e pertanto chi accetta o pretende di parlare in una manifestazione pubblica deve anche accettare il fatto che il suo intervento non nnecessariamente sarà applaudito: può anche essere fischiato. Il fischiare è una delle tante forme con le quali si può esprimere il proprio disaccordo, e non riesco a trovare nulla di antidemocratico nella circostanza che di fronte a una mia affermazione qualcuno mi possa dare del cretino, indipendentemente dal fatto che egli abbia o meno ragione (anche perché, quando si tratta di punti di vista, e in ispecie di politica, la ragione e il torto non sono accertabili scientificamente, come si farebbe con la dimostrazione di un teorema matematico).
Già al secondo episodio mi sono però accorto che questa impostazione ha un grave limite: se bastano dieci o venti persone per rovinare la festa a mille persone impedendo loro di fruire di un'iniziativa, ben presto potrebbe divenire impossibile organizzare qualunque cosa un po' più importante di una cena tra amici in pizzeria: perché per qualunque argomento che possa richiamare una partecipazione minimamente numerosa, dalla cura delle malattie autoimmuni alla cucina cinese, ci sarà qualche cretino che vorrà contestare l'oratore di turno in nome del proprio ideale antivivisezionista o pro-tibetano. Notate, per inciso, che la cretineria del prevaricatore non è minimamente collegata alla validità della causa che egli intende supportare: l'essere antifascisti, per dire, non è un motivo valido per interrompere un conveglio di studi su De Felice, né l'essere pacifisti giustifica il boicottare un convegno sull'evoluzione storica della dottrina MAD.
Quindi si può affermare che l'esercizio del diritto di critica sia sì legittimo, ma non quando tale esercizio impedisce la manifestazione del pensiero: come giustamente ha fatto notare un commentatore, i loggionisti talora fischiamo il direttore d'orchestra, ma lo fanno dopo, e non prima, l'esecuzione dell'opera.
Ha poi avuto luogo la contestazione a Bonanni, che a differenza delle precedenti ha segnato un'ulteriore evoluzione: qui i contestatori non si sono limitati a interrompere con il loro vocìo, ma sono passati alle vie di fatto: e siamo pertanto trascesi dal campo della violenza verbale a quella fisica, il che è per definizione inaccettabile, trattandosi di comportamenti violenti e prevaricatori che costituiscono reato.
Potremmo finire qui ma la questione dicendo che quelli dei centro sociali dovrebbero passare qualche giorno in guardina, ma non è così semplice: e l'ho compreso leggendo il lancio della notizia sul Post. L'articolo infatti conclude così: Alle 17,22, quando pubblichiamo questa notizia, il dibattito è annullato e gli ospiti sembrano essersi allontanati. I contestatori stanno ancora urlando slogan e fronteggiando la polizia in un’immagine da anni Settanta nel centro di Torino. L'immagine degli anni Settanta nel centro di Torino mi ha fatto venire in mente che quelli sono stati sì anni in cui quotidianamente si è sperimentata violenza e prevaricazione; ma sono anche gli anni in cui i diritti civili e dei lavoratori in questo Paese si sono affermati.
Lo Statuto dei Lavoratori, che data proprio dal 1970, è il frutto di lotte operaie che non si sono svolte mediante la contrapposizione dialettica di operai e imprenditori su un palco, davanti a un tavolino con l'acqua minerale: si sono svolte invece con modalità squisitamente violente e prevaricatrici.
Non sto parlando degli anni di piombo e del terrorismo rosso o nero, fenomeni pur coevi: mi basta pensare ad un picchetto fuori da una fabbrica. I giovani lettori forse non hanno idea di cosa fosse un picchetto, ma chi ha qualche anno sul groppone sa bene che non era un esercizio di democrazia: c'erano i bastoni, c'erano le catene e quando mancavano c'erano -e bastavano- le mani nude di un gruppo di fresatori. Chi si fosse provato ad entrare oltre i cancelli si sarebbe guadagnato non un commento di riprovazione né un sonoro coro di fischi, bensì una corsa in ambulanza al traumatologico. Quello era il clima, ma quel clima ci ha dato dei diritti che a distanza di quarant'anni sono ancora attuali.
Il fatto è che ci sono momenti storici nei quali certuni devono lottare per conquistare nuovi diritti, fino ad allora negati. Non ci tengo a far la figura del pedante, ma mi prendo qualche altra riga per rammentarvi che la notte del 4 agosto 1789 (l'abolizione del feudalesimo) è stata preceduta, e non per caso, dal 14 luglio con la Presa della Bastiglia. E' pur vero che questo evento ha avuto un significato poco più che simbolico, dato che i prigionieri erano una mezza dozzina in tutto, e certo non si può paragonare quell'azione con i massacri della Vandea e le decine di migliaia di giustiziati del Terrore; ma non credo che ciò possa essere una gran soddisfazione per il sorvegliante della prigione, portato in trionfo per le vie di Parigi dalla folla, però solo dal collo in su e infilzato in cima a una picca. E vi risparmio le rivoluzioni inglese, americana e sovietica.
Insomma, ci sono momenti, che coincidono sempre con periodi di crisi, in cui il confronto delle idee si fa non solo con le parole ma anche con le mani: perché quando le cose vanno bene tutti sono soddisfatti, anche gli ultimi; ma quando vanno male gli ultimi cominciano a non farcela più, e le belle parole non bastano dato che non possono essere servite in tavola. Ammettiamo che sia vero, come ho letto, che Marchionne guadagni 400 volte un suo operaio. Ebbene tale moltiplicatore costituisce un problema tutto sommato astratto filosofico finché tutti possono fare la propria vita più o meno soddisfacente; ma diviene però serio e impellente nel momento in cui l'operaio per mettere in tavola la zuppa deve passare dal banco dei pegni.
Ora, noi oggi ci troviamo esattamente in tale condizione. Le disparità sociali sono incredibilmente aumentate, il Paese è diviso tra gente che spende, spande e ostenta e gente che ogni giorno si sforza di nascondere la propria miseria che si accresce. Il lavoro si precarizza, i salari reali diminuiscono, chi ha dei figli immagina per loro un futuro ancora più nero e ci si guarda indietro, agli anni Settanta e Ottanta, con lo stesso spirito di Francesca nel quinto canto. La debolezza dei sindacati, oltretutto divisi tra loro, evidenzia ancor più la protervia dei padroni, che non perdono l'occasione per attentare a diritti un tempo dati per scontati. Quando io ho studiato il diritto del lavoro, ed erano passati quasi vent'anni dallo Statuto, l'idea stessa che un imprenditore potesse immaginare di non far entrare in fabbrica un lavoratore reintegrato era semplicemente assurda, così come il baratto degli investimenti contro i diritti; mentre oggi Marchionne si permette di spedire telegrammi dicendo ai lavoratori di restare a casa, ché tanto li pagherà comunque, e ci sono sindacati che firmano accordi cedendo diritti acquisiti in cambio di macchinari produttivi.
Badate, questi che ho descritto sono dati di fatto, indiscutibili. Potremmo perdere giorni a spiegarci i motivi di queste tendenze, primo fra tutti il fatto che la globalizzazione comporta il livellamento dei diritti, dei salari e di tutto il resto, talché l'operaio italiano ci perde e quello cinese ci guadagna, esattamente come un corpo caldo si raffredda riscaldando un corpo freddo, ma qui non andiamo a cercare le ragioni, bensì misuriamo gli effetti. E gli effetti sono quelli che ho descritto.
Non credo sia troppo azzardato profetizzare che quelle che abbiamo visto in questi giorni siano solo le prime avvisaglie di una stagione in cui torneranno in auge le lotte vere, quelle toste. E non sarà certo Enrico Letta, del quale mi è rimasta impressa l'immagine, il golfino sulle spalle e la ripetizione ossessiva della medesima frase: "siete antidemocratici", a fermarle: perché qui il problema non è più la democrazia, che è un valore che si può permettere chi ha la pancia piena, bensì la sopravvivenza quotidiana.
E' una tendenza che si può invertire? Non lo so: molto dipenderà dalla capacità della classe dirigente di cogliere il cambio di passo e rispondere con azioni concrete in difesa delle classi (sì, classi) che scontano il maggior disagio sociale. Se questo avverrà, bene; se non avverrà, e alla richiesta di maggior giustizia sociale si continuerà a rispondere con dibattiti sterili, sorrisi da imbonitore e false promesse di futuri Bengodi, be' allora credo proprio che dovremo prepararci rivedere scene delle quali avevamo perso l'abitudine.
mercoledì 8 settembre 2010
San Giuda Taddeo
Nel diuturno sforzo per presentare ogni giorno ai lettori una causa persa differente, Repubblica ha sfoderato l'ennesima trovata ad effetto: il boxino che aggiorna in tempo reale il numero di giorni, ore, minuti primi e minuti secondi da cui manca il Ministro dello Sviluppo Economico.
Il pubblico del noto tabloid è di bocca buona, e si fa stupire da trovatacce ad effetto, paragonabili a quelle degli imbonitori alle fiere di paese che dopo aver mangiato i cocci di vetro sputano fazzoletti e si risciaquano la bocca con il fuoco: robe che se tentate di proporle a bambini di otto anni vi guardano con aria di compatimento prendendovi per vecchi rimbecilliti.
Tempo addietro avevo scritto qualcosa riguardante il verbo fare, rimarcandone il carattere transitivo e rammentando che dire "io farò" non significa nulla, se non specifico che cosa farò. La fiducia è una cosa seria, diceva la nota pubblicità del salame: e colui che dà la propria fiducia a qualcuno che se la prende così, in cambio di nulla, ha lo stesso livello di accortezza di colui che, trovata in terra una cambiale, la firma e la consegna al primo che passa per la strada, raccomandandogli di tenerla da conto.
La nuova campagna di Repubblica non si discosta molto da questa logica: premere su Berlusconi perché nomini un Ministro dello Sviluppo Economico, pur sapendo perfettamente che il possibile candidato è ben peggio dell'attuale reggente, è un atteggiamento inutilmente sciocco, giustificato solo da quel populismo che giustifica in nome delle vendite qualsiasi campagna ad effetto.
Non riesco a vedere grandi differenze di levatura tra il boxino qui a fianco e la mesata di prime pagine con le quali Feltri chiede conto a Fini della dimensione dei tasselli utilizzati per montare i pensili nella casa a Montecarlo, ma non è solo questo il punto.
Il punto è che un ministero funziona perlopiù grazie ai suoi dirigenti e funzionari. Il Ministro imprime un'impronta politica all'azione dei medesimi, indirizzandola dall'una o dall'altra parte, ma non è che in sua assenza la macchina si fermi, quasi che il titolare del dicastero fosse l'analogo del Motore Immobile aristotelico. Certo, per dicasteri che hanno un ruolo squisitamente politico (pensiamo agli Affari Esteri, o l'Economia da un po' di tempo in qua) la presenza del titolare politico è essenziale; ma per i dicasteri tecnici non è così.
Per chi ha a cuore le residue sorti del Paese sarebbe quindi assai meglio continuare con Berlusconi che regge l'interim del ministero: perlomeno, essendo in mille altre faccende affaccendato, egli ha pochissimo tempo da dedicare a quella macchina che non può quindi indirizzare su una strada troppo sbagliata; ma immaginate quanti danni potrebbe farvi uno come Paolo Romani, che avrebbe l'intera giornata da dedicare al far girare la macchina nella direzione voluta dal padrone; e perdipiù in un momento in cui si prospetta la possibilità di una nuova campagna elettorale e quindi il controllo delle telecomunicazioni diviene uno strumento essenziale per l'indirizzamento dei consensi.
Il pubblico del noto tabloid è di bocca buona, e si fa stupire da trovatacce ad effetto, paragonabili a quelle degli imbonitori alle fiere di paese che dopo aver mangiato i cocci di vetro sputano fazzoletti e si risciaquano la bocca con il fuoco: robe che se tentate di proporle a bambini di otto anni vi guardano con aria di compatimento prendendovi per vecchi rimbecilliti.
Tempo addietro avevo scritto qualcosa riguardante il verbo fare, rimarcandone il carattere transitivo e rammentando che dire "io farò" non significa nulla, se non specifico che cosa farò. La fiducia è una cosa seria, diceva la nota pubblicità del salame: e colui che dà la propria fiducia a qualcuno che se la prende così, in cambio di nulla, ha lo stesso livello di accortezza di colui che, trovata in terra una cambiale, la firma e la consegna al primo che passa per la strada, raccomandandogli di tenerla da conto.
La nuova campagna di Repubblica non si discosta molto da questa logica: premere su Berlusconi perché nomini un Ministro dello Sviluppo Economico, pur sapendo perfettamente che il possibile candidato è ben peggio dell'attuale reggente, è un atteggiamento inutilmente sciocco, giustificato solo da quel populismo che giustifica in nome delle vendite qualsiasi campagna ad effetto.
Non riesco a vedere grandi differenze di levatura tra il boxino qui a fianco e la mesata di prime pagine con le quali Feltri chiede conto a Fini della dimensione dei tasselli utilizzati per montare i pensili nella casa a Montecarlo, ma non è solo questo il punto.
Il punto è che un ministero funziona perlopiù grazie ai suoi dirigenti e funzionari. Il Ministro imprime un'impronta politica all'azione dei medesimi, indirizzandola dall'una o dall'altra parte, ma non è che in sua assenza la macchina si fermi, quasi che il titolare del dicastero fosse l'analogo del Motore Immobile aristotelico. Certo, per dicasteri che hanno un ruolo squisitamente politico (pensiamo agli Affari Esteri, o l'Economia da un po' di tempo in qua) la presenza del titolare politico è essenziale; ma per i dicasteri tecnici non è così.
Per chi ha a cuore le residue sorti del Paese sarebbe quindi assai meglio continuare con Berlusconi che regge l'interim del ministero: perlomeno, essendo in mille altre faccende affaccendato, egli ha pochissimo tempo da dedicare a quella macchina che non può quindi indirizzare su una strada troppo sbagliata; ma immaginate quanti danni potrebbe farvi uno come Paolo Romani, che avrebbe l'intera giornata da dedicare al far girare la macchina nella direzione voluta dal padrone; e perdipiù in un momento in cui si prospetta la possibilità di una nuova campagna elettorale e quindi il controllo delle telecomunicazioni diviene uno strumento essenziale per l'indirizzamento dei consensi.
Sì, e poi chi ha il tempo di leggere?
Leggendo il coso di IpaziaS mi sono accorto che il mio blogroll giaceva lì, abbandonato e privo di senso logico. Roba morta, roba viva per miracolo, roba vivissima ma che non leggevo più da un pezzo.
E quindi, piuttosto che affrontare le fatiche delle pulizie d'autunno, ho preferito buttarlo via.
E quindi, piuttosto che affrontare le fatiche delle pulizie d'autunno, ho preferito buttarlo via.
lunedì 6 settembre 2010
Extra! Extra!
La notizia non è che la Regina d'Inghilterra abbia le scarpe bucate.
La notizia non è nemmeno che il Corriere della Sera e La Repubblica ritengano doveroso dare ai lettori una notizia che neppure la rubrica Royals di The Sun ha ritenuto di lanciare: e ce ne stupiamo un poco, dacché The Sun, seppur molto più serio e paludato dei due maggiori giornali di casa nostra, dovrebbe, non foss'altro per ragioni geografiche, essere più attento alle scarpe della Regina d'Inghilterra e di Scozia.
No: la notizia, quella vera, è che MLR non è in grado di distinguere un buco nella scarpa da una macchia, forse dovuta a un pezzo di cingomma attaccatasi alla Reale Suola. Io di buchi sotto i piedi sono abbastanza esperto: forse potrei propormi come consulente d'immagine per i due Grandi Quotidiani.
La notizia non è nemmeno che il Corriere della Sera e La Repubblica ritengano doveroso dare ai lettori una notizia che neppure la rubrica Royals di The Sun ha ritenuto di lanciare: e ce ne stupiamo un poco, dacché The Sun, seppur molto più serio e paludato dei due maggiori giornali di casa nostra, dovrebbe, non foss'altro per ragioni geografiche, essere più attento alle scarpe della Regina d'Inghilterra e di Scozia.
No: la notizia, quella vera, è che MLR non è in grado di distinguere un buco nella scarpa da una macchia, forse dovuta a un pezzo di cingomma attaccatasi alla Reale Suola. Io di buchi sotto i piedi sono abbastanza esperto: forse potrei propormi come consulente d'immagine per i due Grandi Quotidiani.
domenica 5 settembre 2010
Il processo breve
Sembra dunque che Berlusconi abbia deciso di non calcare la mano sul processo breve. Forse farà inventare a Ghedini nuovi metodi per sfuggire alla sentenza di primo grado, o forse no.
Sta di fatto che io tutto questo suo accanimento non l'ho mica compreso tanto bene. Infatti, malgrado tutte le sospensioni della prescrizione che finora si sono succedute, una cosa possiamo darla per certa: vale a dire che anche in caso di condanna in primo grado, il processo d'appello non potrebbe mai arrivare a concludersi prima della scadenza del termine oltre il quale i giudici dovrebbero pronunciare il non luogo a procedere.
Berlusconi pertanto potrebbe venir sì condannato, ma poi si avvarrebbe della prescrizione: come già è successo in altri casi (ad esempio nel processo per corruzione semplice relativo al Lodo Mondadori).
Ora, è vero che in un altro paese un capo del governo condannato in primo grado non avrebbe vita semplice e probabilmente dovrebbe rassegnare le dimissioni; ma non riesco ad immaginare che Berlusconi si farebbe molti problemi a far partire il cancan dei mezzi di comunicazione a lui asserviti per trasformare la prescrizione in un'assoluzione con formula piena.
Può essere quindi che il nostro semplicemente abbia fatto i suoi conti e abbia capito che piuttosto che rompere con i fininiani, e con quella parte del suo elettorato che certo non vedrebbe con troppo favore quella che giustamente è stata definita "amnistia mascherata", forse forse gli conviene ripetere il giochetto di sempre e scatenare i Minzolini e i Feltri per ripulirsi la fedina.
Sta di fatto che io tutto questo suo accanimento non l'ho mica compreso tanto bene. Infatti, malgrado tutte le sospensioni della prescrizione che finora si sono succedute, una cosa possiamo darla per certa: vale a dire che anche in caso di condanna in primo grado, il processo d'appello non potrebbe mai arrivare a concludersi prima della scadenza del termine oltre il quale i giudici dovrebbero pronunciare il non luogo a procedere.
Berlusconi pertanto potrebbe venir sì condannato, ma poi si avvarrebbe della prescrizione: come già è successo in altri casi (ad esempio nel processo per corruzione semplice relativo al Lodo Mondadori).
Ora, è vero che in un altro paese un capo del governo condannato in primo grado non avrebbe vita semplice e probabilmente dovrebbe rassegnare le dimissioni; ma non riesco ad immaginare che Berlusconi si farebbe molti problemi a far partire il cancan dei mezzi di comunicazione a lui asserviti per trasformare la prescrizione in un'assoluzione con formula piena.
Può essere quindi che il nostro semplicemente abbia fatto i suoi conti e abbia capito che piuttosto che rompere con i fininiani, e con quella parte del suo elettorato che certo non vedrebbe con troppo favore quella che giustamente è stata definita "amnistia mascherata", forse forse gli conviene ripetere il giochetto di sempre e scatenare i Minzolini e i Feltri per ripulirsi la fedina.
venerdì 3 settembre 2010
Metafisiche
Mi turba il fatto che, duecentoetrenta anni dopo Kant, ci sia ancora chi pretende di dimostrare che Dio esiste o che Dio non esiste.
Mi turba vieppiù il fatto che tra coloro che lo pretendono ci siano anche persone viste dalla stampa -e tramite essa dalle masse- come finissimi intellettuali e maestri di un pensiero universale, non limitato al proprio campo specialistico.
Da quel poco che ho letto, credo anche (e spero) che il professor Hawking non abbia mai affermato che "Dio non esiste", bensì che "Dio non è necessario per spiegare l'universo"; e mi piacerebbe che anche le persone di media e ima cultura fossero, tutte, in grado di capire la differenza tra queste affermazioni.
Quanto a Odifreddi e a Ferraris, ho pena per loro.
E non sono neppure credente.
Mi turba vieppiù il fatto che tra coloro che lo pretendono ci siano anche persone viste dalla stampa -e tramite essa dalle masse- come finissimi intellettuali e maestri di un pensiero universale, non limitato al proprio campo specialistico.
Da quel poco che ho letto, credo anche (e spero) che il professor Hawking non abbia mai affermato che "Dio non esiste", bensì che "Dio non è necessario per spiegare l'universo"; e mi piacerebbe che anche le persone di media e ima cultura fossero, tutte, in grado di capire la differenza tra queste affermazioni.
Quanto a Odifreddi e a Ferraris, ho pena per loro.
E non sono neppure credente.
mercoledì 1 settembre 2010
Matematica ricreativa
Pippo Civati, il noto filosofo prestato malgré soi alla politica, ha scritto un bel post sul Post.
Affogata tra una serie di frasi prive di alcun senso concreto («La rivoluzione, ci vuole. Una rivoluzione che riguardi prima di tutto noi stessi»; «Tutto quello che è successo in questi ultimi vent’anni, è sbagliato»; «Di fronte al crollo di questa Italia, non si può traccheggiare. Non ci si può abbandonare al politicismo. Non si può discutere come se il mondo si riducesse a tre palazzi romani e a due segreterie di partito»; «ci vuole una nuova politica estera, perché questa cosa di Gheddafi è avvilente») spicca l'unica vera proposta:
Giusto come ripasso, ricordiamo che bisogna distinguere tra deduzione, che diminuisce l'imponibile, e detrazione, che diminuisce l'imposta dovuta.
Se rendiamo detraibile dalle imposte una percentuale di tutte le spese che si fanno nella vita (il dentista, l'idraulico, l'elettrauto, e giù giù fino allo scontrino del supermarket), dobbiamo anzitutto fissare una percentuale di detraibilità, poniamo il caso al 19% come già adesso vigente per le spese sanitarie. Bene: vi arriva a casa l'idraulico, vi propone un conto di 200 euri (più IVA) con fattura, o 180 euri senza fattura. Voi vi fate due conti, vi accorgete che con la fattura andreste a spendere 240 euri (l'IVA non la potete recuperare), con una detrazione fiscale di 45 euri, per un netto di 195 euri. Confrontate 195 con 180, decidete che 180 è più conveniente, e pagate in nero, alla faccia di Ciwati.
Ammettiamo che si rendano invece deducibili dal reddito tutte le spese. Bene: in tal caso io guadagno, poniamo, 120.000 euri, ne spendo 40.000 per vivere e quindi pagherò le tasse su 80.000 euri; e grazie al fatto che ho fatto fatturare tutti quelli che mi hanno venduto un bene o un servizio, anch'essi dovranno pagare le tasse. All'idraulico diventa molto più difficile propormi un accordo vantaggioso: se pago un'aliquota marginale del 43%, egli dovrebbe propormi uno sconto almeno almeno del 50% sul lavoro che ha fatto, per rendermi la cosa allettante e superare il mio scrupolo morale di onesto cittadino.
La deducibilità quindi può funzionare? Certo, c'è un problema, ma minuscolo. Nell'esempio che ho fatto prima, la maggior parte del mio reddito la conservo per i miei figli e sono disposto a pagarci sopra le tasse. Ma per quei quattro gatti che spendono tutto quel che guadagnano l'effetto sarebbe che costoro non pagherebbero più una sola lira di imposte, il che potrebbe portare un bel problema ai conti pubblici.
Ma tutto sommato c'è da star tranquilli: è infatti notorio che in Italia coloro che sono così sfigati da spendere tutto per vivere (o addirittura da indebitarsi per tirare avanti) sono un'esigua minoranza: e certo non vi rientrano né i parlamentari in carica né i consiglieri regionali. Non saranno certo quei quattro pulciosi che arrivano giusti giusti alla fine della quarta settimana ad impensierire Tremonti.
Affogata tra una serie di frasi prive di alcun senso concreto («La rivoluzione, ci vuole. Una rivoluzione che riguardi prima di tutto noi stessi»; «Tutto quello che è successo in questi ultimi vent’anni, è sbagliato»; «Di fronte al crollo di questa Italia, non si può traccheggiare. Non ci si può abbandonare al politicismo. Non si può discutere come se il mondo si riducesse a tre palazzi romani e a due segreterie di partito»; «ci vuole una nuova politica estera, perché questa cosa di Gheddafi è avvilente») spicca l'unica vera proposta:
«Ti entra in casa un idraulico. Chiedigli la ricevuta, perché potrai scaricarla dalle tasse. E se facciamo pagare le tasse, poi, anziché creare un tesoretto e discuterne con Diliberto (che è tornato, anche lui), automaticamente le restituiamo a chi le tasse le ha sempre pagate e a chi si impegna a investire per davvero.»Questa è una cosa che si è sentita ennemila volte, e forse è il caso di dire, chiaro e forte, che è una cazzata: e non ci vuole un matematico per dimostrarlo.
Giusto come ripasso, ricordiamo che bisogna distinguere tra deduzione, che diminuisce l'imponibile, e detrazione, che diminuisce l'imposta dovuta.
Se rendiamo detraibile dalle imposte una percentuale di tutte le spese che si fanno nella vita (il dentista, l'idraulico, l'elettrauto, e giù giù fino allo scontrino del supermarket), dobbiamo anzitutto fissare una percentuale di detraibilità, poniamo il caso al 19% come già adesso vigente per le spese sanitarie. Bene: vi arriva a casa l'idraulico, vi propone un conto di 200 euri (più IVA) con fattura, o 180 euri senza fattura. Voi vi fate due conti, vi accorgete che con la fattura andreste a spendere 240 euri (l'IVA non la potete recuperare), con una detrazione fiscale di 45 euri, per un netto di 195 euri. Confrontate 195 con 180, decidete che 180 è più conveniente, e pagate in nero, alla faccia di Ciwati.
Ammettiamo che si rendano invece deducibili dal reddito tutte le spese. Bene: in tal caso io guadagno, poniamo, 120.000 euri, ne spendo 40.000 per vivere e quindi pagherò le tasse su 80.000 euri; e grazie al fatto che ho fatto fatturare tutti quelli che mi hanno venduto un bene o un servizio, anch'essi dovranno pagare le tasse. All'idraulico diventa molto più difficile propormi un accordo vantaggioso: se pago un'aliquota marginale del 43%, egli dovrebbe propormi uno sconto almeno almeno del 50% sul lavoro che ha fatto, per rendermi la cosa allettante e superare il mio scrupolo morale di onesto cittadino.
La deducibilità quindi può funzionare? Certo, c'è un problema, ma minuscolo. Nell'esempio che ho fatto prima, la maggior parte del mio reddito la conservo per i miei figli e sono disposto a pagarci sopra le tasse. Ma per quei quattro gatti che spendono tutto quel che guadagnano l'effetto sarebbe che costoro non pagherebbero più una sola lira di imposte, il che potrebbe portare un bel problema ai conti pubblici.
Ma tutto sommato c'è da star tranquilli: è infatti notorio che in Italia coloro che sono così sfigati da spendere tutto per vivere (o addirittura da indebitarsi per tirare avanti) sono un'esigua minoranza: e certo non vi rientrano né i parlamentari in carica né i consiglieri regionali. Non saranno certo quei quattro pulciosi che arrivano giusti giusti alla fine della quarta settimana ad impensierire Tremonti.
Maggioritario uninominale possibilmente a doppio turno
Come altre volte è accaduto nella storia del Grande Partito dei Riformisti, anche stavolta i vertici hanno indicato una strada da seguire, senza però dire in che direzione percorrerla.
E così il botto estivo del governo di transizione, con l'obiettivo minimalista di fare una legge elettorale e una legge sul conflitto d'interessi, si è infranto di fronte all'evidenza che nessuno sa come fare una legge elettorale: e figuriamoci una sul conflitto d'interessi!
Si sono riproposte, e non è certo un caso, le stese dinamiche che avevano impedito al Governo Prodi (che, pur risicata, una maggioranza ce l'aveva) di far approvare quelle due norme. Come si passa dal titolo del tema al suo svolgimento, difatti, la litigiositàdell'accozzagliadel Partito Democratico ha modo di esprimersi nelle sue forme migliori.
Da una parte un D'Alema che punta al proporzionale alla tedesca, dall'altra la Presidenta che afferma che il PD è vincolato a sostenere un «maggioritario uninominale possibilmente a doppio turno».
Non è che quest'ultimo tipo di legge elettorale non abbia illustri esempi all'estero, sia chiaro. Tuttavia almeno una cosa credo che vada detta, e con vigore.
Si imputa alla legge elettorale attuale di non consentire la scelta del parlamentare, che di fatto viene designato dalle segreterie di partito, rimanendo l'alea del risultato in capo a quella cinquantina di candidati che galleggiano negli elenchi tra coloro che sono assolutamente certi di ottenere il seggio e coloro che sono lì per mera presenza, dato che potrebbero entrare alle Camere solo ove il proprio partito facesse cappotto. L'elettore quindi con il suo voto di fatto designa dei personaggi di mezza tacca, né carne (i maggiorenti ben abbarbicati alle prime posizioni) né verdura (peones presenti solo per obbligo di militanza).
Orbene, non è che con l'uninominale le cose cambierebbero sensibilmente: mi piacerebbe che almeno questo fosse chiaro. Con l'uninominale infatti l'elettore si trova a dover scegliere tra quattro-cinque nomi, tutti designati dalle segreterie di partito; e con il doppio turno (non a caso tanto caro al PD) i nomi diventano solo due, tre al massimo in situazioni locali particolari, espressione diretta dei partiti maggiori.
Il che significa che, al posto della magra soddisfazione di poter scegliere tra una serie di elenchi di semisconosciuti, potrei scegliere tra due nomi. "Accipicchia, che vantaggio!", come mi dissi quella volta che dovetti scegliere tra quello che stava dall'altra parte (Michele Saponara della Casa della Libertà) e quello che stava dalla parte mia, a sinistra, e che era nientemeno che Vittorio Dotti, già capogruppo di Forza Italia, avvocato di Berlusconi e saltatore di quaglia causa litigio con il padrone per questione di femmina.
"Ma ci sono le primarie!", si dice. Le primarie, certo.
Chiariamo un punto anche sulle primarie. Ci sono due casi possibili: o vengono imposte per legge ai partiti, diventando un istituto di natura costituzionale che pertanto deve sottostare a una serie di garanzie e controlli (quali la garanzia della partecipazione dell'intero corpo elettorale, il controllo dei votanti e delle schede votate per evitare esclusioni o voti multipli, un sistema di scrutinio che garantisca la terzietà, etc. etc.), o rimangono istituti privatistici che ciascun partito è libero di organizzare come ritiene opportuno, aprendole o meno ai soli iscritti o alla popolazione intera e organizzando i seggi come meglio crede anche in considerazione del proprio bacino di elettori e, al limite, non organizzandole affatto.I casi sono solo questi due, dicevo: perché non è concepibile che una legge imponga ai partiti di fare le primarie e che i partiti stessi possano organizzarle con i gazebo e i fustini del bucato, lasciandosi la possibilità di buttare nel camino alla fine della giornata tutte le schede e facendo proclamare al segretario i nomi dei vincitori. Se c'è un obbligo di legge, bisogna garantire che l'obbligo venga rispettato, e che non si faccia del mero teatro di strada: quindi ci vogliono dei controlli, e dei controlli terzi rispetto alla dirigenza del partito organizzatore.
Dato che i partiti sono associazioni privatistiche, seppur di rilevanza costituzionale, io dovendo scegliere la frittata men peggiore mi schiero senza alcun dubbio dalla parte delle primarie libere, che chi vuole le fa e chi non vuole non le fa: ciò sia per motivi costituzionali, sia per il fatto che le primarie per legge sono un'idea del coglione supremo.
Ma, anche ammettendo che l'idiota possa aver avuto un'idea buona nella sua vita, sarebbe in grado di spiegarmi in che cosa, queste primarie fatte in forza di legge si discosterebbero da elezioni vere e proprie? La risposta è una sola: in nulla.
E così il combinato effetto del sistema invocato dalla Presidenta (maggioritario uninominale a doppio turno) e delle primarie cogenti ideato dal Puffo Scemo ci porterebbe sapete a cosa? A un sistema elettorale a triplo turno.
Roba da farsi ridere in faccia dagli elettori dell'Appenzello Interno.
E così il botto estivo del governo di transizione, con l'obiettivo minimalista di fare una legge elettorale e una legge sul conflitto d'interessi, si è infranto di fronte all'evidenza che nessuno sa come fare una legge elettorale: e figuriamoci una sul conflitto d'interessi!
Si sono riproposte, e non è certo un caso, le stese dinamiche che avevano impedito al Governo Prodi (che, pur risicata, una maggioranza ce l'aveva) di far approvare quelle due norme. Come si passa dal titolo del tema al suo svolgimento, difatti, la litigiosità
Da una parte un D'Alema che punta al proporzionale alla tedesca, dall'altra la Presidenta che afferma che il PD è vincolato a sostenere un «maggioritario uninominale possibilmente a doppio turno».
Non è che quest'ultimo tipo di legge elettorale non abbia illustri esempi all'estero, sia chiaro. Tuttavia almeno una cosa credo che vada detta, e con vigore.
Si imputa alla legge elettorale attuale di non consentire la scelta del parlamentare, che di fatto viene designato dalle segreterie di partito, rimanendo l'alea del risultato in capo a quella cinquantina di candidati che galleggiano negli elenchi tra coloro che sono assolutamente certi di ottenere il seggio e coloro che sono lì per mera presenza, dato che potrebbero entrare alle Camere solo ove il proprio partito facesse cappotto. L'elettore quindi con il suo voto di fatto designa dei personaggi di mezza tacca, né carne (i maggiorenti ben abbarbicati alle prime posizioni) né verdura (peones presenti solo per obbligo di militanza).
Orbene, non è che con l'uninominale le cose cambierebbero sensibilmente: mi piacerebbe che almeno questo fosse chiaro. Con l'uninominale infatti l'elettore si trova a dover scegliere tra quattro-cinque nomi, tutti designati dalle segreterie di partito; e con il doppio turno (non a caso tanto caro al PD) i nomi diventano solo due, tre al massimo in situazioni locali particolari, espressione diretta dei partiti maggiori.
Il che significa che, al posto della magra soddisfazione di poter scegliere tra una serie di elenchi di semisconosciuti, potrei scegliere tra due nomi. "Accipicchia, che vantaggio!", come mi dissi quella volta che dovetti scegliere tra quello che stava dall'altra parte (Michele Saponara della Casa della Libertà) e quello che stava dalla parte mia, a sinistra, e che era nientemeno che Vittorio Dotti, già capogruppo di Forza Italia, avvocato di Berlusconi e saltatore di quaglia causa litigio con il padrone per questione di femmina.
"Ma ci sono le primarie!", si dice. Le primarie, certo.
Chiariamo un punto anche sulle primarie. Ci sono due casi possibili: o vengono imposte per legge ai partiti, diventando un istituto di natura costituzionale che pertanto deve sottostare a una serie di garanzie e controlli (quali la garanzia della partecipazione dell'intero corpo elettorale, il controllo dei votanti e delle schede votate per evitare esclusioni o voti multipli, un sistema di scrutinio che garantisca la terzietà, etc. etc.), o rimangono istituti privatistici che ciascun partito è libero di organizzare come ritiene opportuno, aprendole o meno ai soli iscritti o alla popolazione intera e organizzando i seggi come meglio crede anche in considerazione del proprio bacino di elettori e, al limite, non organizzandole affatto.I casi sono solo questi due, dicevo: perché non è concepibile che una legge imponga ai partiti di fare le primarie e che i partiti stessi possano organizzarle con i gazebo e i fustini del bucato, lasciandosi la possibilità di buttare nel camino alla fine della giornata tutte le schede e facendo proclamare al segretario i nomi dei vincitori. Se c'è un obbligo di legge, bisogna garantire che l'obbligo venga rispettato, e che non si faccia del mero teatro di strada: quindi ci vogliono dei controlli, e dei controlli terzi rispetto alla dirigenza del partito organizzatore.
Dato che i partiti sono associazioni privatistiche, seppur di rilevanza costituzionale, io dovendo scegliere la frittata men peggiore mi schiero senza alcun dubbio dalla parte delle primarie libere, che chi vuole le fa e chi non vuole non le fa: ciò sia per motivi costituzionali, sia per il fatto che le primarie per legge sono un'idea del coglione supremo.
Ma, anche ammettendo che l'idiota possa aver avuto un'idea buona nella sua vita, sarebbe in grado di spiegarmi in che cosa, queste primarie fatte in forza di legge si discosterebbero da elezioni vere e proprie? La risposta è una sola: in nulla.
E così il combinato effetto del sistema invocato dalla Presidenta (maggioritario uninominale a doppio turno) e delle primarie cogenti ideato dal Puffo Scemo ci porterebbe sapete a cosa? A un sistema elettorale a triplo turno.
Roba da farsi ridere in faccia dagli elettori dell'Appenzello Interno.