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venerdì 11 giugno 2010
Falsi amici
Se traduci Vernal equinox con Equinozio d'inverno, come ha fatto l'elboniano che ha messo mano a TWW S04E20, il tuo problema non è che non sai bene l'inglese, bensì che sei proprio un coglione.
lunedì 7 dicembre 2009
Metriche trascendentali
Della bizzarra banda di elboniani cui hanno affidato il doppiaggio italiano di West Wing abbiamo detto abbastanza. a volte perfino abbiamo esagerato, addossando a loro colpe che in effetti sono solo il portato del nostro culturame borghese: come nel pippone a suo tempo affastellato per spiegare come si ordina un Martini degno di questo nome.
Qui, però, la cosa è differente. Il Presidente degli Stati Uniti viene eletto per quattro anni. Lo sanno anche i sassi. Lo sanno le troie, lo sanno i lenoni i cazzi lo sanno, lo sanno i coglioni!*. Lo sa anche chi ha creato la serie, dato che la campagna per rielezione avviene, to', proprio alla quarta serie annuale, il che dovrà pur avere un senso, o no?
E allora, razza di elboniani, come diavolo vi è venuto in mente di doppiare «Four more years! Four more years!» con «Altri otto anni! Altri otto anni»?
*trattasi di citazione colta, beninteso.
Qui, però, la cosa è differente. Il Presidente degli Stati Uniti viene eletto per quattro anni. Lo sanno anche i sassi. Lo sanno le troie, lo sanno i lenoni i cazzi lo sanno, lo sanno i coglioni!*. Lo sa anche chi ha creato la serie, dato che la campagna per rielezione avviene, to', proprio alla quarta serie annuale, il che dovrà pur avere un senso, o no?
E allora, razza di elboniani, come diavolo vi è venuto in mente di doppiare «Four more years! Four more years!» con «Altri otto anni! Altri otto anni»?
*trattasi di citazione colta, beninteso.
domenica 22 novembre 2009
Due olive e una ciliegia (wonkish)

Il Vodka Martini è una cosa un po' troppo da educande per me: l'unico modo serio di bere la vodka, anche la Flagman comperata al supermercatino sotto casa nell'estrema periferia di San Pietroburgo a un euro a bottiglia (e che è molto più buona di tutte quella che ci propinano per russe qui in Italia, tipo Stoliza o Moskoviza), è: fredda (moderatamente fredda, anzi per meglio dire fresca); liscia; in piccoli bicchierini (magari di cristallo lavorato).
Il Martini richede il profumo del gin che involgarisca la nota secca e allo stesso tempo morbida del vermut. Il Martini non è la contessa di Guermantes: è Vivian Ward che, vestita a festa, va nel ristorante chic e sbanca tutto con il suo stile pur restando, dentro, una troia da strada.
Un Martini on the rocks (e tanto più quindi un Vodka Martini on the rocks) è poi un gradino più sotto nella scala del perbenismo: il ghiaccio che si scioglie lentamente nel bicchiere diluisce il cocktail facendolo apparire meno rude; ma in realtà, come sa bene l'intenditore, quell'acqua incarognisce la purezza del distillato e conferisce al tutto un retrogusto di topo morto non molto apprezzato. Certo, se si tratta di far colpo su Amy tutto è lecito, per carità, ma qui stiamo parlando di cose da uomini.
E' quindi con un certo stupore che ieri sera il mio barista preferito, quando dopo aver bevuto un paio di classici (un Milano-torino, un Long Island che-come-lo-fa-lui-non-lo-fa-nessuno e un White Lady) gli ho chiesto qualcosa di *molto* secco, mi ha propinato un French Martini: vale a dire un Martini on the rocks corretto all'Angostura. Mentre me lo serviva, mi ha avvertito che si trattava di una composizione *molto* impegnativa, ed in effetti così è stato.
Con quel bicchiere in mano (uno di svariati) mi sarebbe piaciuto sentirmi un po' Josh, ma non ho potuto: per ammorbidire il tutto, infatti, la guarnizione viene fatta con una ciliegia al maraschino, non con le olive.
venerdì 9 ottobre 2009
La bocciofila del Ritz-Carlton

Ehi tu, elboniano:
so bene che nel tuo paese c'è solo fango. Non importano il Martini. Non importano la vodka. Non crescono gli ulivi.
Sono solidale con te, ti sono vicino, so che è una vita difficile.
Ma qui, in Italia, il Martini lo facciamo. Dalla Finlandia ci spediscono enormi quantitativi di liquore; e quanto alle olive, se tu avessi una connessione a internet potresti guardarti qualche foto della Puglia.
Quindi, pezzo d'idiota, quando hai tradotto in S03E09 la frase «Absolut martini on the rocks. Two olives», come ha potuto passarti anche solo per l'anticamera del cervello di metterci «Un aperitivo con ghiaccio, olive e salatini»? Ma lo fai apposta per farmi incazzare o sei proprio completamente, inguaribilmente e incommensurabilmente cretino?
Vedi, pezzo d'idiota, lascia che ti spieghi come funziona il mondo.
Josh ha appuntamento con Amy alle undici. Che non sono le undici del mattino, anzitutto perché Amy è appena andata a un balletto e poi, deficiente, perché fuori è buio. Anche in Elbonia alle 11 del mattino c'è la luce, per cui è un concetto al quale puoi arrivare.
E tu lo riesci a capire, minorato che non sei altro, che ordinare un "aperitivo" alle undici è quanto più fuor di luogo possa esistere?
Ma non solo: Josh non ordina un Martini. Non ordina un Vodka Martini. Non ordina neppure un Absolute Martini. Ordina un Absolute Martini on the rocks. Con due olive, per di più. Vuol dire che quel tipo lì è uno che sa cosa sta facendo, è uno che ne frequenta di bar, che ha dei gusti che possono essere giudicati o meno raffinati (un Absolute Martini on the rocks, santo cielo!, direi io; solo un ammmericano!), ma sono gusti precisi.
Egli è un uomo potente e un uomo di mondo. Gestisce affari di stato e fa ordinazioni da habitué del Ritz-Carlton.
Fargli ordinare un "aperitivo con ghiaccio, olive e salatini" lo trasforma completamente: neppure un quindicenne sceso dalla Val Trompia oggi sparerebbe fuori una simile cagata: ordinerebbe una Red Bull & Vodka.
Un aperitivo con ghiaccio, olive e salatini è l'ordinazione che avrebbe potuto fare Tom Hanks, se fosse stato sull'isola deserta di Cast Avay dieci anni anziché solo cinque.
C'era un film degli anni Cinquanta (o addirittura dei Trenta), e non ricordo proprio più quale, in cui a un certo punto il protagonista, in un locale, ordinava dello Champagne; poi mentre il cameriere si stava allontanando gli gridava «buona marca, mi raccomando!»
Nella colonna originale probabilmente il protagonista diceva «Dom Pérignon 1937»; ma giustamente il doppiaggio di allora tradusse «Buona marca», dato che nell'Italia di quel tempo dire Dom Pérignon sarebbe stato come spiegare a un convegno di allevatori il funzionamento di una nuova mungitrice meccanica ultrautomatica paragonandola a un DHCP server.
Ma l'Italia di oggi non è quella di allora, e il pubblico di West Wing oltretutto è un sottoinsieme particolare degli italiani, un filino più istruito, e fors'anche più modaiolo, della media.
Con quel dialogo, elboniano, hai preso Josh e dal bar Ritz-Carlton, dove stava, l'hai trasferito di peso in una bocciofila. E' una puttanata, te ne rendi conto?
martedì 6 ottobre 2009
Citare, puttana di quella grandissima zoccola di tua madre: citare!
(The West Wing, S03E07)
Tu, elboniano traduttore per avventura, mettitelo bene in quella minuscola appendice, e vuota, che porti in cima al collo.
To sue in italiano si traduce nel 99% dei casi con citare, non con denunciare, cazzo.
Tu, elboniano traduttore per avventura, mettitelo bene in quella minuscola appendice, e vuota, che porti in cima al collo.
To sue in italiano si traduce nel 99% dei casi con citare, non con denunciare, cazzo.
mercoledì 23 settembre 2009
Lost in translation /2
La mia professoressa di Inglese 2, ai tempi in cui imparavo faticosamente l'idioma nei corsi serali di Scienze Politiche, spiegava che per la prova d'esame (traduzione dall'inglese all'italiano) avrebbe messo a disposizione il vocabolario, ma d'italiano!
Qualche tempo dopo ho cominciato a capire il perché, leggendo certe castronerie scritte da persone che magari l'inglese lo sapevano comprendere meglio di me, ma dimostravano di avere una conoscenza pari a zero della propria lingua madre, e di conseguenza non riuscivano a esprimere i più banali concetti del testo straniero.
Il problema certo non tange i traduttori di West Wing: un gruppo di elboniani che non conoscendo né la lingua di partenza né quella di arrivo hanno sparato una ridda di parole a caso, e per puro culo sono riusciti a dar loro un senso compiuto.
Certo, il loro capocapanna sarà stato contento quando, arrancando nella mota, il drudo di turno gli avrà portato la traduzione di S02E16 (Somebody's going to Emergency, Somebody's going to Jail) facendogli notare, tronfio, di non essere caduto nel tranello del falso amico pardon, che un linguista meno scaltro avrebbe impropriamente trasformato in perdono, no!
Il bravo Elboniano*, andatosi a prendere un vocabolario e confrontatosi con il lontano cugino ***, l'assessore trezzanese di cui abbiamo parlato qualche tempo fa, ha pensato bene di usare il termine "indulto".
Ora, lo sanno anche i sassi che i Re concedono le grazie, e che tale privilegio sovrano spetta nelle repubbliche ai Presidenti. Ma senza voler andare così lontano, converrete che, d'istinto, il primo sostantivo che viene in mente a un qualsiasi cretino, con riferimento all'atto del graziare qualcuno è "grazia", non certo "amnistia" né "indulto". Bisogna quindi pensarci su con molta attenzione, per sbagliarsi.
Si vede che una volta deciso di sbagliarsi, l'Elboniano si è detto: -"fatto 30, facciamo 31", e quindi dei due termini rimanenti ha scelto "indulto". Che non ha il minimo senso, dato che il graziando, nella finzione del telefilm, era morto una cinquantina d'anni addietro, e quindi in galera non poteva più starci, per evidenti ragioni. Fosse stato italiano, il traduttore avrebbe saputo dalle reminiscenze di educazione civica delle elementari che l'indulto estingue la pena mentre l'amnistia estingue il reato; e che ad un morto l'estinguere la pena non può servire a una fava, a differenza dell'estinzione del reato, che smacchia l'onta della condanna. Ma l'elboniano no, testardo, ha deciso di far l'Elboniano fino in fondo.
Qualche tempo prima suo cognato era stato incaricato di tradurre S01E20 (Mandatory Minimum): letteralmente "minimo obbligatorio". Il cognato, furbo anch'esso come un cervo, si dev'essere messo nei panni del poco smaliziato spettatore italiano quarantenne, nel quale la parola "minimo" nuda e cruda avrebbe evocato la vite zigrinata di regolazione del carburatore del Ciao (del Garelli quattro marce per i più abbienti): e ha deciso di specificargli di che cosa si stesse trattando rititolando "il minimo della pena".
E così, in tutto l'episodio sentiamo dire che applicare "il minimo della pena" per i consumatori di crack è razzista perché la maggior parte di essi sono neri, mentre i consumatori di cocaina sono bianchi.
E io stavo lì ad arrovellarmi: perché il presidente di WW, per chi non lo sapesse, non è mica abbronzato: né lo è alcun membro dello staff: e allora di che diavolo di razzismo stiamo a parlare, se si parla di applicare il minimo della pena alla droga consumata dai neri e non a quella consumata dai bianchi?
Fortunatamente in rete si trovano le trascrizioni delle puntate, e così vengo a scoprire che nel testo in realtà si parlava di pena minima obbligatoria, non di minimo della pena: che sono espressioni che sembrano simili solo ad un evisceratore di polli al termine di una dura giornata di lavoro**.
Vale comunque la pena, tutto ciò: perché finisce che alcune puntate me le vedo due volte: la prima senza capire una mazza, e la seconda capendola.
* trattasi di maiuscola da superfetazione, casomai qualcuno volesse eccepire
** se non avete idea di come sia la giornata di lavoro di un evisceratore di polli, non avete idea di cosa sia un lavoro duro
Qualche tempo dopo ho cominciato a capire il perché, leggendo certe castronerie scritte da persone che magari l'inglese lo sapevano comprendere meglio di me, ma dimostravano di avere una conoscenza pari a zero della propria lingua madre, e di conseguenza non riuscivano a esprimere i più banali concetti del testo straniero.

Certo, il loro capocapanna sarà stato contento quando, arrancando nella mota, il drudo di turno gli avrà portato la traduzione di S02E16 (Somebody's going to Emergency, Somebody's going to Jail) facendogli notare, tronfio, di non essere caduto nel tranello del falso amico pardon, che un linguista meno scaltro avrebbe impropriamente trasformato in perdono, no!
Il bravo Elboniano*, andatosi a prendere un vocabolario e confrontatosi con il lontano cugino ***, l'assessore trezzanese di cui abbiamo parlato qualche tempo fa, ha pensato bene di usare il termine "indulto".
Ora, lo sanno anche i sassi che i Re concedono le grazie, e che tale privilegio sovrano spetta nelle repubbliche ai Presidenti. Ma senza voler andare così lontano, converrete che, d'istinto, il primo sostantivo che viene in mente a un qualsiasi cretino, con riferimento all'atto del graziare qualcuno è "grazia", non certo "amnistia" né "indulto". Bisogna quindi pensarci su con molta attenzione, per sbagliarsi.
Si vede che una volta deciso di sbagliarsi, l'Elboniano si è detto: -"fatto 30, facciamo 31", e quindi dei due termini rimanenti ha scelto "indulto". Che non ha il minimo senso, dato che il graziando, nella finzione del telefilm, era morto una cinquantina d'anni addietro, e quindi in galera non poteva più starci, per evidenti ragioni. Fosse stato italiano, il traduttore avrebbe saputo dalle reminiscenze di educazione civica delle elementari che l'indulto estingue la pena mentre l'amnistia estingue il reato; e che ad un morto l'estinguere la pena non può servire a una fava, a differenza dell'estinzione del reato, che smacchia l'onta della condanna. Ma l'elboniano no, testardo, ha deciso di far l'Elboniano fino in fondo.
Qualche tempo prima suo cognato era stato incaricato di tradurre S01E20 (Mandatory Minimum): letteralmente "minimo obbligatorio". Il cognato, furbo anch'esso come un cervo, si dev'essere messo nei panni del poco smaliziato spettatore italiano quarantenne, nel quale la parola "minimo" nuda e cruda avrebbe evocato la vite zigrinata di regolazione del carburatore del Ciao (del Garelli quattro marce per i più abbienti): e ha deciso di specificargli di che cosa si stesse trattando rititolando "il minimo della pena".
E così, in tutto l'episodio sentiamo dire che applicare "il minimo della pena" per i consumatori di crack è razzista perché la maggior parte di essi sono neri, mentre i consumatori di cocaina sono bianchi.
E io stavo lì ad arrovellarmi: perché il presidente di WW, per chi non lo sapesse, non è mica abbronzato: né lo è alcun membro dello staff: e allora di che diavolo di razzismo stiamo a parlare, se si parla di applicare il minimo della pena alla droga consumata dai neri e non a quella consumata dai bianchi?
Fortunatamente in rete si trovano le trascrizioni delle puntate, e così vengo a scoprire che nel testo in realtà si parlava di pena minima obbligatoria, non di minimo della pena: che sono espressioni che sembrano simili solo ad un evisceratore di polli al termine di una dura giornata di lavoro**.
Vale comunque la pena, tutto ciò: perché finisce che alcune puntate me le vedo due volte: la prima senza capire una mazza, e la seconda capendola.
* trattasi di maiuscola da superfetazione, casomai qualcuno volesse eccepire
** se non avete idea di come sia la giornata di lavoro di un evisceratore di polli, non avete idea di cosa sia un lavoro duro
Quindici fermate
Visto che nei giorni scorsi ho parlato di West Wing, tanto vale che racconti come ho conosciuto la fortunata serie.
Diciamo anzitutto che tra tutti i mille problemi che i traduttori italiani le hanno creato, la scelta del titolo riveste un'importanza non secondaria. West Wing - tutti gli uomini del Presidente fa schifo, puramente e semplicemente; ma non è questo il punto: è proprio che per le serie non ci faccio, come dire, una malattia. Certo, è un argomento che ho visto tornare a più riprese nelle chiacchiere in rete, e quasi sempre in toni elogiativi, ma ciò non è bastato a farmene interessare.
Io abito a un paio di centinaia di passi dalla Baggina, storica e benemerita istituzione milanese fondata nei tempi in cui Giorgio Washington era ancora un suddito di Sua Maestà Britannica Re Giorgio III, e il secondo articolo della Costituzione degli Stati Uniti ancora nella penna di Madison. Un ulteriore paio di centinaia di passi più in là abitava una storica e benemerita esponente della blogosfera italiana la quale, a seguito dell'impacchettamento della casa e di tutta una serie di motivi ampiamente descritti sui suoi blog, ha recentemente deciso di cambiare aria, rendendo tutti i lettori partecipi delle sue vicissitudini (dico questo solo per chiarire che non sto certo rivelando chissà quale segreto!)
Alla fine Aurelia (useremo un nome di fantasia, per rendere del tutto impossibile al lettore il capire a chi ci riferiamo) ha trovato casa: come ovvio non ne conosco l'indirizzo, ma ho capito che la nuova abitazione si trova a una quindicina di fermate circa del metrò rispetto alla precedente.
Ora, quindici fermate possono sembrare un'inezia per chi ogni giorno si fa trenta chilometri di macchina o magari un'ora di treno per andare al lavoro; e così trasferirsi in un altro quartiere appare persino banale, per chi vive in questo grande mondo globalizzato di manager che si svegliano a Mosca, pranzano a Londra e vanno a teatro la sera a New York.
Sta di fatto che i milanesi, che pur si vantano d'essere i più metropolitani tra gli italiani, hanno in realtà un fondo di provincialismo duro a togliersi come la crosta di un arrosto attaccato alla casseruola.
Io, per dire, piuttosto che spostarmi dal mio quartiere per l'Isola, Città Studi o Niguarda, preferirei abitare a Lione, a Saragozza o a Düsseldorf (e notate che non ho detto Parigi, Madrid o Berlino, ché: -"bella forza", mi avreste risposto!)
Mia sorella, per dire ancor più, ha vissuto in Oregon, a San Diego e a Lecce: ma quando si è trattato di tornare a Milano ha preso casa in via Forze Armate, pur lavorando ad Agrate: e se andate su Google Maps capirete che non sembra un'idea furbissima, a prima vista. Il mio più caro amico ha abitato in Mongolia per un paio d'annetti, ma non riusciva a sopportare quei tre-quattro anni che ha dovuto trascorrere dalle parti di piazzale Loreto.
Non so se Aurelia condivida questo modo di sentire: magari le liquiderebbe come sciocchezze, dato che forse il modo di pensare mio e dei miei amici è vecchio e sorpassato. Tuttavia, non foss'altro per il gran parlare che ella aveva fatto del suo trasloco, e per la vicinanza che si crea d'istinto con persone di cui si sa vita morte e miracoli pur non avendole mai viste di persona, non potevo non soffermarmi a pensare a quel trasferimento con un velato senso di compassione, nel senso squisitamente etimologico del termine, quel paio di volte che nelle mie passeggiate serali d'agosto passavo sotto quella casa tutta imbacuccata e ormai vuota.
E' così che un giorno su FF vedo comparire questa riga: "casa è dove risuona, enfin, la sigla di West Wing"; e mi dico: accipicchia, se la sigla di questa trasmissione è capace di far sentire a casa chi è andato ad abitare dall'altra parte del mondo conosciuto, a quindici fermate di metrò, tra i leoni, insomma; allora dev'esserci proprio qualcosa di buono.
E quindi sono arrivato a casa, ho preso il Mulo e ho iniziato a farlo lavorare un po'; e così adesso ho finito la seconda serie, e mi accingo alla terza.
Diciamo anzitutto che tra tutti i mille problemi che i traduttori italiani le hanno creato, la scelta del titolo riveste un'importanza non secondaria. West Wing - tutti gli uomini del Presidente fa schifo, puramente e semplicemente; ma non è questo il punto: è proprio che per le serie non ci faccio, come dire, una malattia. Certo, è un argomento che ho visto tornare a più riprese nelle chiacchiere in rete, e quasi sempre in toni elogiativi, ma ciò non è bastato a farmene interessare.
Io abito a un paio di centinaia di passi dalla Baggina, storica e benemerita istituzione milanese fondata nei tempi in cui Giorgio Washington era ancora un suddito di Sua Maestà Britannica Re Giorgio III, e il secondo articolo della Costituzione degli Stati Uniti ancora nella penna di Madison. Un ulteriore paio di centinaia di passi più in là abitava una storica e benemerita esponente della blogosfera italiana la quale, a seguito dell'impacchettamento della casa e di tutta una serie di motivi ampiamente descritti sui suoi blog, ha recentemente deciso di cambiare aria, rendendo tutti i lettori partecipi delle sue vicissitudini (dico questo solo per chiarire che non sto certo rivelando chissà quale segreto!)
Alla fine Aurelia (useremo un nome di fantasia, per rendere del tutto impossibile al lettore il capire a chi ci riferiamo) ha trovato casa: come ovvio non ne conosco l'indirizzo, ma ho capito che la nuova abitazione si trova a una quindicina di fermate circa del metrò rispetto alla precedente.
Ora, quindici fermate possono sembrare un'inezia per chi ogni giorno si fa trenta chilometri di macchina o magari un'ora di treno per andare al lavoro; e così trasferirsi in un altro quartiere appare persino banale, per chi vive in questo grande mondo globalizzato di manager che si svegliano a Mosca, pranzano a Londra e vanno a teatro la sera a New York.
Sta di fatto che i milanesi, che pur si vantano d'essere i più metropolitani tra gli italiani, hanno in realtà un fondo di provincialismo duro a togliersi come la crosta di un arrosto attaccato alla casseruola.
Io, per dire, piuttosto che spostarmi dal mio quartiere per l'Isola, Città Studi o Niguarda, preferirei abitare a Lione, a Saragozza o a Düsseldorf (e notate che non ho detto Parigi, Madrid o Berlino, ché: -"bella forza", mi avreste risposto!)
Mia sorella, per dire ancor più, ha vissuto in Oregon, a San Diego e a Lecce: ma quando si è trattato di tornare a Milano ha preso casa in via Forze Armate, pur lavorando ad Agrate: e se andate su Google Maps capirete che non sembra un'idea furbissima, a prima vista. Il mio più caro amico ha abitato in Mongolia per un paio d'annetti, ma non riusciva a sopportare quei tre-quattro anni che ha dovuto trascorrere dalle parti di piazzale Loreto.
Non so se Aurelia condivida questo modo di sentire: magari le liquiderebbe come sciocchezze, dato che forse il modo di pensare mio e dei miei amici è vecchio e sorpassato. Tuttavia, non foss'altro per il gran parlare che ella aveva fatto del suo trasloco, e per la vicinanza che si crea d'istinto con persone di cui si sa vita morte e miracoli pur non avendole mai viste di persona, non potevo non soffermarmi a pensare a quel trasferimento con un velato senso di compassione, nel senso squisitamente etimologico del termine, quel paio di volte che nelle mie passeggiate serali d'agosto passavo sotto quella casa tutta imbacuccata e ormai vuota.
E' così che un giorno su FF vedo comparire questa riga: "casa è dove risuona, enfin, la sigla di West Wing"; e mi dico: accipicchia, se la sigla di questa trasmissione è capace di far sentire a casa chi è andato ad abitare dall'altra parte del mondo conosciuto, a quindici fermate di metrò, tra i leoni, insomma; allora dev'esserci proprio qualcosa di buono.
E quindi sono arrivato a casa, ho preso il Mulo e ho iniziato a farlo lavorare un po'; e così adesso ho finito la seconda serie, e mi accingo alla terza.
martedì 22 settembre 2009
Note to self: no more dubbed movies!
Premessa:
Fatta questa lunga premessa, potete ben capire come io sia tutt'altro che pregiudizialmente contrario al tradurre il più possibile dei termini inglesi quando si doppia un film: e tradurli nel vero senso della parola, che non significa scimmiottare.
I traduttori della versione italiana di West Wing tutto ciò non l'hanno minimamente capito, e hanno fatto un tale scempio di una splendida serie televisiva: così piena di qualità da riuscire, nonostante il disastro del loro lavoro, a meritare comunque di essere vista.
Certo, direte, potresti guardartela in inglese: sfortunatamente la mia conoscenza di tale lingua, che pur mi consente di leggere la sceneggiatura, non mi permette di capire una sola parola di tutto ciò che si dice, e i sottotiloli non rappresentano una soluzione dal momento che gli attori parlano con la velocità del fulmine. Mi tocca quindi la versione italiana, e i travasi di bile che essa comporta.
Un esempio, su tutti. Quasi in ogni episodio qualcuno presenta a qualcun altro Leo McGarry come "capo del personale" della Casa Bianca. Chiunque abbia mai lavorato -e ciò spiega perché i traduttori della serie ne siano ignari- sa che un capo del personale è colui che seleziona, assume e licenzia gli impiegati, ne cura le retribuzioni, i rapporti sindacali, segue i procedimenti disciplinari e via discorrendo. E' un ruolo di responsabilità, ma non ha nulla a che vedere con il potere vero.
Leo McGarry è il Chief of Staff: il che vuol dire che è il capo dello Staff, cioè dell'insieme delle persone che formano la più immediata e stretta cerchia dei consiglieri del Presidente. E', insomma, quello che comanda alla Casa Bianca, e certo non si occuperà delle retribuzioni e dei sindacati, la cui gestione lascerà a... un capo del personale!
Cos'avrei fatto io se fossi stato il traduttore? Avrei valutato anzitutto come si chiama in Italia l'analogo del Chief of Staff, scoprendo che esistono il Segretario Generale alla Presidenza della Repubblica e il Segretario Generale alla Presidenza del Consiglio: e avrei chiamato McGarry Segretario Generale, senza alcun dubbio.
Certo, si sarebbe perso quel "capo" che può impressionare il pubblico di Buona Domenica. Ma, obiettivamente: credete davvero che il pubblico di West Wing, una delle serie più carente di gnocca nella storia della televisione, sia lo stesso di Buona Domenica? L'attrattiva di West Wing sono i meccanismi del potere e l'applicazione dei principi montesquiviani: il suo pubblico non si sarebbe impressionato a non sentire un termine "capo" per designare il Capo: avrebbe accettato "segretario", e l'aggettivo "generale" l'avrebbe convinto, in caso di dubbio, che con tale appellativo non si volesse indicare il capo dei dattilografi.
Non andava ancora bene? Si voleva proprio lasciare il termine "capo"? Allora si poteva andare su Wikipedia, che traduce Chief of Staff con Capo di Gabinetto. Si tratta di una traduzione buona ma non eccellente, perché il termine evoca perfettamente il ruolo della carica per l'ascoltatore italiano (salvo per il pubblico di Buona Domenica, al quale Gabinetto evoca il gabinetto), ma pone poi il problema dell'esistenza, nel sistema di governo degli USA, di un Cabinet che è tutt'altra cosa rispetto allo Staff, e del quale il capo dello Staff non è minimamente capo. Né il Cabinet è il nostro Governo, dal momento che il Governo negli USA è incarnato nel Presidente, che delega al Cabinet che risponde a lui solo.
Pericoloso, quindi, quel "Capo di Gabinetto", e fuorviante. Che fare, allora?
Ma, buon Dio, perché diavolo non lasciare "Capo dello Staff"? Certo, Staff non è una parola italiana, ma di tutte le castronerie inglesi che si sentono, staff è una di quelle che è entrata nell'uso più quotidiano; al punto che chi si rifiutasse di dire "staff" in nome della purezza della lingua non potrebbe certo adoperare il termine "computer", che dovrebbe sostituire con "elaboratore elettronico".
In conclusione: dato che in West Wing i computer vengono correntemente chiamati "computer", allora Leo McGarry avrebbe dovuto essere chiamato Capo dello Staff, se non addirittura Segretario Generale.
Chi frequenta da un po' queste paginette sa bene di avervi letto ben pochi termini inglesi, inseriti nel discorso solo nei casi in cui non se ne poteva proprio fare a meno, per inesistenza o manifesta inferiorità del corrispondente termine italiano (provateci, voi, a tradurre directory con raccolta ordinata di archivi elettronici senza farvi ridere dietro! e non provateci, invece, a dire direttorio, che di Direttorio io ne conosco solo uno.)
La mia idiosincrasia verso l'inutile uso di prestiti e calchi (definizioni per la decodifica delle quali vi rimando all'ottima Licia Corbolante) è nota; e ancor più quella verso la supina introduzione nel lessico di parole inglesi che vengono sfruttate per mera pigrizia intellettuale da chi voglia esprimere un concetto scopiazzato altrove, o addirittura da colui che voglia aderire a un modello stilistico ritenuto vincente in ambito professionale.
Come scrivevo in un post di qualche tempo fa, è per me una sorta di punto d'onore scrivere in italiano, anche qualora i tecnicismi della materia potrebbero rendere più facile l'importazione di terminologia inglese: e potete ben capire quanto inglese si possa sentire in una banca d'affari!
Non è però che tale mio atteggiamento sia dettato da una presunzione di superiorità dell'italiano sull'inglese: mi indigno infatti allo stesso modo quando coloro stessi che non esitano a scrivere deal al posto di accordo e loan al posto di finanziamento, tutto d'un tratto diventano più nazionalisti di Starace, e ti piazzano un bancarotta in luogo dell'inglese bankruptcy: traduzione che non solo è profondamente sbagliata, se si sta parlando di un Chapter 11 americano, in quanto la parola italiana indica un reato, ma di cui non si sentiva minimamente il bisogno e che appare anzi ridicola quando esce dalla penna del medesimo imbrattacarte che poco prima non si è peritato di scrivere stakeholders, e oltretutto per indicare gli azionisti!
Fatta questa lunga premessa, potete ben capire come io sia tutt'altro che pregiudizialmente contrario al tradurre il più possibile dei termini inglesi quando si doppia un film: e tradurli nel vero senso della parola, che non significa scimmiottare.
I traduttori della versione italiana di West Wing tutto ciò non l'hanno minimamente capito, e hanno fatto un tale scempio di una splendida serie televisiva: così piena di qualità da riuscire, nonostante il disastro del loro lavoro, a meritare comunque di essere vista.
Certo, direte, potresti guardartela in inglese: sfortunatamente la mia conoscenza di tale lingua, che pur mi consente di leggere la sceneggiatura, non mi permette di capire una sola parola di tutto ciò che si dice, e i sottotiloli non rappresentano una soluzione dal momento che gli attori parlano con la velocità del fulmine. Mi tocca quindi la versione italiana, e i travasi di bile che essa comporta.
Un esempio, su tutti. Quasi in ogni episodio qualcuno presenta a qualcun altro Leo McGarry come "capo del personale" della Casa Bianca. Chiunque abbia mai lavorato -e ciò spiega perché i traduttori della serie ne siano ignari- sa che un capo del personale è colui che seleziona, assume e licenzia gli impiegati, ne cura le retribuzioni, i rapporti sindacali, segue i procedimenti disciplinari e via discorrendo. E' un ruolo di responsabilità, ma non ha nulla a che vedere con il potere vero.
Leo McGarry è il Chief of Staff: il che vuol dire che è il capo dello Staff, cioè dell'insieme delle persone che formano la più immediata e stretta cerchia dei consiglieri del Presidente. E', insomma, quello che comanda alla Casa Bianca, e certo non si occuperà delle retribuzioni e dei sindacati, la cui gestione lascerà a... un capo del personale!
Cos'avrei fatto io se fossi stato il traduttore? Avrei valutato anzitutto come si chiama in Italia l'analogo del Chief of Staff, scoprendo che esistono il Segretario Generale alla Presidenza della Repubblica e il Segretario Generale alla Presidenza del Consiglio: e avrei chiamato McGarry Segretario Generale, senza alcun dubbio.
Certo, si sarebbe perso quel "capo" che può impressionare il pubblico di Buona Domenica. Ma, obiettivamente: credete davvero che il pubblico di West Wing, una delle serie più carente di gnocca nella storia della televisione, sia lo stesso di Buona Domenica? L'attrattiva di West Wing sono i meccanismi del potere e l'applicazione dei principi montesquiviani: il suo pubblico non si sarebbe impressionato a non sentire un termine "capo" per designare il Capo: avrebbe accettato "segretario", e l'aggettivo "generale" l'avrebbe convinto, in caso di dubbio, che con tale appellativo non si volesse indicare il capo dei dattilografi.
Non andava ancora bene? Si voleva proprio lasciare il termine "capo"? Allora si poteva andare su Wikipedia, che traduce Chief of Staff con Capo di Gabinetto. Si tratta di una traduzione buona ma non eccellente, perché il termine evoca perfettamente il ruolo della carica per l'ascoltatore italiano (salvo per il pubblico di Buona Domenica, al quale Gabinetto evoca il gabinetto), ma pone poi il problema dell'esistenza, nel sistema di governo degli USA, di un Cabinet che è tutt'altra cosa rispetto allo Staff, e del quale il capo dello Staff non è minimamente capo. Né il Cabinet è il nostro Governo, dal momento che il Governo negli USA è incarnato nel Presidente, che delega al Cabinet che risponde a lui solo.
Pericoloso, quindi, quel "Capo di Gabinetto", e fuorviante. Che fare, allora?
Ma, buon Dio, perché diavolo non lasciare "Capo dello Staff"? Certo, Staff non è una parola italiana, ma di tutte le castronerie inglesi che si sentono, staff è una di quelle che è entrata nell'uso più quotidiano; al punto che chi si rifiutasse di dire "staff" in nome della purezza della lingua non potrebbe certo adoperare il termine "computer", che dovrebbe sostituire con "elaboratore elettronico".
In conclusione: dato che in West Wing i computer vengono correntemente chiamati "computer", allora Leo McGarry avrebbe dovuto essere chiamato Capo dello Staff, se non addirittura Segretario Generale.
lunedì 21 settembre 2009
Filibustiere
Se c'è un inferno dei doppiatori, coloro che hanno partecipato allo scempio di West Wing meritano di finire nella Giudecca.
E colui che in 2x17 ha osato tradurre «filibuster» con «filibustiere» è, egli sì, un filibustiere.
Update: e «bipartisan» con «bipartitico»
E colui che in 2x17 ha osato tradurre «filibuster» con «filibustiere» è, egli sì, un filibustiere.
Update: e «bipartisan» con «bipartitico»
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