lunedì 30 novembre 2009

Concorso esterno

Si parla tanto in questi giorni del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, per il fatto che taluno dice (e talun altro smentisce) che il Presidente del consiglio e uno dei suoi più fidi collaboratori sarebbero -o starebbero per essere- indagati a tale titolo.
I giornali hanno scritto tanto, raccontando perlopiù che si tratta di un reato inventato dalla giurisprudenza, che tuttavia è costante nel riconoscerne l'esistenza. Non so se quelli che leggo io sono tutti cattivi giornali, o se io, preso da altri affari, abbia capito male ciò che leggevo. Sta di fatto che detta così, quella del concorso esterno sarebbe una bufala clamorosa, e ben farebbe Ferrara a scagliarsi contro questa corbelleria.
Difatti nel nostro sistema costituzionale esiste una cosa chiamata riserva di legge: l'art. 25 cost. stabilisce che "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso": ciò significa non solo che le leggi penali non sono retroattive, ma anche che solo per mezzo di una legge (e non quindi di un'altra fonte normativa di rango inferiore, come un regolamento) può essere definita una fattispecie penale.
Non è contemplata da nessuna parte la creazione di un reato da parte della magistratura, in ossequio al principio della divisione dei poteri e all'art.101 Cost, secondo il quale "I giudici sono soggetti soltanto alla legge".

Com'è allora questo fatto, del concorso esterno? E' vero che non esiste nel codice e se lo sono inventato i giudici? Se avete voglia, cerco di spiegarvelo in modo (spero) semplice.
Dobbiamo partire dall'art. 110 del Codice penale, il quale dispone: "Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita": ciò significa che se due persone si accordano per commettere un delitto (ad esempio il marito ingaggia un sicario per ammazzare la moglie), entrambi rispondono in egual modo del reato di omicidio, dato che hanno concorso nel provocare la morte della tapina.
Ci si può chiedere se per incorrere nel concorso sia necessario fare qualcosa o meno: e la giurisprudenza, del tutto costante, ha stabilito che non è necessario fare: il concorso può anche essere morale qualora il comportamento del concorrente sia tale da rafforzare (il che è meno che  determinare) il proposito delittuoso dell'agente. E' il caso, per dire, di uno che di fronte al proposito del marito di ammazzare la moglie adultera lo sproni e lo rafforzi in tale convincimento, anche senza necessità di aiutarlo a trovare le armi necessarie.

L'art. 110 si applica a qualunque reato. Quindi non è che si possa concorrere solo nell'omicidio o nella rapina: si può concorrere in tutto (possiamo dire che non esiste un "concorso tipico").
Si può pertanto concorrere anche nel reato di cui all'art. 416 del Codice penale, che recita:
Associazione per delinquere
Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a sette anni.
Per il solo fatto di partecipare all'associazione, la pena è della reclusione da uno a cinque anni.
I capi soggiacciono alla stessa pena stabilita per i promotori.
Se gli associati scorrono in armi le campagne o le pubbliche vie si applica la reclusione da cinque a quindici anni.
La pena è aumentata se il numero degli associati è di dieci o più.
Se l'associazione è diretta a commettere taluno dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602, si applica la reclusione da cinque a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da quattro a nove anni nei casi previsti dal secondo comma.
e così pure in quello previsto dall'art. 416-bis, che ne è una specificazione:
Associazione di tipo mafioso
Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da sette a dodici anni.
Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da nove a quatordici anni.
L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
Se l'associazione è armata si applica la pena della reclusione da nove a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da dodici a ventiquattro anni nei casi previsti dal secondo comma.
L'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell'associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.
Notate che per rientrare nell'associazione a delinquere e nell'associazione mafiosa non è necessario aver commesso qualche azione criminale specifica: l'essersi associati al fine di commettere dei delitti è già per sé solo un delitto, e grave.

Orbene, questo fa nascere un problema, che la giurisprudenza ha dovuto affrontare: è possibile concorrere in un reato associativo? Vale a dire: se qualcuno aiuta i componenti di un'associazione a delinquere, egli risponde del reato in quanto fa parte dell'associazione, o ne risponde a titolo di concorso?
Immaginiamo una banda di rapinatori che si uniscano al fine di rapinare banche: poniamo caso che ci siano l'autista, il solista del mitra, il basista e un paio di pistoleri sciammannati. Questi signori hanno bisogno di una base dove riunirsi e magari tenere le armi, ed è possibile che utilizzino uno scantinato affittato da un pensionato, il quale è perfettamente consapevole di cosa fanno quei signori, tanto che chiede loro di pagare 2.000 euri al mese invece dei 200 euri che sarebbero congrui. Notate, per maggior chiarezza, che i rapinatori sono talmente sfigati che vengono beccati ancor prima di fare la prima rapina, e quindi dovranno rispondere solo del reato associativo, e non delle rapine.
Ora, il problema che i giudici si sono trovati a dover risolvere è: il pensionato in questione:
1) fa parte a pieno titolo dell'associazione;
2) concorre con gli associati nel reato di associazione per delinquere (o associazione mafiosa), pur non facendo parte dell'associazione;
3) non concorre nel reato di associazione in quanto la struttura del medesimo non consente di concorrervi (o si fa parte dell'associazione, o non ne si fa parte, e lui non è abbastanza coinvolto da farne parte).

Ecco: la giurisprudenza ha stabilito che la soluzione giusta è la numero 2. Non è stata una decisione facile: una corrente non minuscola riteneva che le possibili scelte potessero essere solo la 1 o la 3, vale a dire: o dentro o fuori. E' stata una decisione non certo semplice, come succede per molte decisioni assunte dalla Corte di Cassazione, ma è stata una decisione motivata e molto interessante dal punto di vista tecnico.
Notate però una cosa: se la decisione fosse stata diversa, il vecchietto di cui sopra probabilmente sarebbe stato condannato in quanto associato: e ciò in quanto, pur avendo concorso esternamente all'associazione, è indubbio che vi abbia concorso.
Lo stesso principio varrebbe per il concorso esterno in associazione mafiosa: è molto probabile che tra il "concorrere" e l'"esterno", sarebbe stato il primo a prevalere.

sabato 28 novembre 2009

Il prossimo Presidente del Consiglio

Suvvia, sappiamo tutti che Berlusconi non è eterno e che tempo un paio d'anni dovrà ritirarsi: diciamo fine 2011 o inizio 2012.
Ci sarà ancora davanti un anno e mezzo di legislatura, e benché taluno creda (o affermi) che Napolitano dovrebbe sciogliere le camere, è assai improbabile che egli lo faccia senza aver tentato una soluzione parlamentare alla crisi.

Io sono in grado di anticipare il nome del prossimo Presidente del Consiglio.

Già, perché oggi sono andato a vedere 2012; e se storcete la bocca è perché non avete un figlio decenne con amico coetaneo, e non sapete la gioia che danno i salti di gioia quando proponete loro di andare a vedere 2012.
Comunque, sono andato, ho apprezzato la fauna che riempiva la sala, che mi ha rinfrancato nella mia convinzione che il suffragio universale sia profondamente sbagliato, e che comunque bisognerebbe dare il voto solo dai 29 anni in su.
E ho anche visto le famose scene in cui si parla del Presidente del Consiglio italiano, che anziché andare a salvarsi con gli altri potenti, si raccoglie in preghiera.
Il fatto è che quel presidente non è Berlusconi, non ci assomiglia punto. volete sapere a chi assomiglia? Nell'aspetto, nell'incedere, nel portamento? A Tabacci.
E' lui (magari un po' smagrito) quando viene ripreso in video, ed è lui, pienamente, quando la camera gli zooma addosso, in mezzo a Piazza San Pietro, raccolto in preghiera.
E dato che queste profezie si avverano sempre (la forza dei Maya e la forza di Hollywood, tutto in un colpo solo!), eccovi svelato il nome del successore del Cavaliere

venerdì 27 novembre 2009

Makkox

Io non conosco abbastanza il fumetto italiano per sapere se Makkox sia o meno il miglior autore in circolazione sulla piazza, anche se in effetti lo penso.
E non credo nemmeno che sia un uomo d'onore: perché se somiglia ai suoi lettori (e deve per forza somigliar loro, per la precisione con cui li ha descritti), allora non è che lo sia tanto. Ma ci consoliamo, noi e lui, pensando che gli uomini d'onore alla fine fanno una brutta figura e una brutta fine; e noi preferiamo essere uomini normali, con le nostre debolezze e le nostre vigliaccherie.
Ma Makkox è un uomo di parola, ne ho avuto la prova. E quindi, cazzo, è un uomo.

mercoledì 25 novembre 2009

Sindrome bipolare

Un editoriale di angelo Panebianco sul Corriere preconizza oggi la fine del bipolarismo. E che Panebianco si esprima in questi termini, considerata la storia sua e del giornale su cui scrive, è in effetti un segno che la fine del bipolarismo medesimo si è ormai già consumata.
Non sappiamo cosa arriverà, in seguito, ma possiamo oggi fare qualche riflessione sullo sfortunato destino che questo Paese ha subìto negli ultimi quindici anni, nel corso dei quali abbiamo vissuto un sistema politico importato dall'estero senza logica e senza criterio, sulla base di astratte concezioni politologiche di opinionisti pagati per esprimere pensieri un tanto al chilo i quali hanno trovato sponda fertile alle loro idee raccogliticce in una classe politica dominata dalla sete di potere per il potere.
Mi guardo indietro e penso alla classe politica di quando ho iniziato a interessarmi delle cose, e mi figuro non dico un Moro o un Berlinguer o un Lama, ma anche solo uno Zaccagnini, un Natta, un Carniti.
E' impietoso il confronto con la classe politica di oggi, non c'è bisogno di sottolinearlo perché lo sappiamo tutti, ma credo sia oggi l'occasione giusta per ribadire che buona parte di questo degrado è dovuto al fatto che il meccanismo di selezione della classe politica è stato villanamente falsato dall'importazione di un modello di selezione della rappresentanza popolare che non ha nulla a che vedere con noi e le nostre tradizioni. I mischioni in cui si sono infilati tutti e il contrario di tutti, unendo sotto lo stesso simbolo i Mastella e i Rizzo, sono evidentemente figli di un sistema elettorale che, premiando il voto marginale (quello che avrebbe consentito di raggiungere l'agognata meta del 50% più uno dei voti) faceva scegliere chi ci avrebbe governato per cinque anni proprio a coloro a cui non ne fregava un cazzo.
Mi spiego meglio, per coloro che non avessero ben chiaro il concetto di marginalità: allineiamo su di un'ipotetica retta tutti gli elettori in funzione della loro maggiore o minore aderenza alle idee del partito che hanno votato, mettendo all'estrema destra i forzitalioti duri e puri, all'estrema sinistra gli unionisti duri e puri, e via via verso il centro gli indecisi. Ecco, proprio nel mezzo ci sono coloro che scelgono chi votare a seconda dell'abbinamento cromatico tra la scheda e il simbolo, la forma degli occhiali del rappresentante di lista o il sapore del primo caffè della mattina. I ventiquattromila elettori che hanno dato la vittoria a Prodi nel 2006 questo erano: la parte peggiore del Paese (se peggiore è, come credo, la parte occupata a guardare anzitutto la propria pancia e solo dopo la realtà circonvicina).
Credere, come ha fatto il Puffo Triste, che il meccanismo di selezione delle candidature e dei quadri intermedi partitici potesse influire in senso positivo sulla qualità della proposta politica è stata una scellerata sciocchezza, che non ha fatto altro che aiutare la ulteriore diluizione dei contenuti anche all'interno degli schieramenti. Il risultato: un'omeopatizzazione delle idee, sempre più affogate nel diluente di parole-slogan buone per contenere qualunque cosa.
Vogliamo parlare di Riformismo? Ma che caspita significa riformismo? tutto si può riformare: l'importante è capire in che senso lo si vuol fare. Vuoi liberalizzare ulteriormente il mercato del lavoro o vuoi tornare a regolarlo in modo più rigido? sono riformismi ambedue, ma di segno opposto; e a meno che voi, quando andate in un ristorante costoso, non siate abituati a ordinare "un cibo, prego", la mancanza di contenuti non dovrebbe starvi punto bene.
Vogliamo vedere ora il mito della governabilità, quello per il quale bisogna che in Parlamento vi sia una maggioranza forte perché il Paese ha bisogno di decisioni e non di chiacchiere e mercanteggiamenti tra correnti, e per raggiungere tal fine si ritiene di drogare il risultato delle elezioni premiando chi prende un po' più voti? Bene, io credo che dopo questi diciotto mesi di governo Berlusconi, chiunque in futuro dovesse parlare di governabilità meriterebbe di essere sputato in faccia, salvo che non dia prova dell'essere stato ibernato o rinchiuso in isolamento senza accesso ad alcun mezzo d'informazione.
Poi, per carità, nessun sistema è perfetto; ma credo proprio che rispetto a ciò che abbiamo adesso, anche il tiro dei dadi sarebbe un sostanziale miglioramento.

domenica 22 novembre 2009

Ceffoni

Correva l'anno 2004, e io mi ero fidanzato, abbastanza felicemente, con una signora che aveva un che di diverso dalla norma. Il 90% delle mie relazioni infatti ha avuto luogo con donne passate sotto le sgrinfie dello psicanalista, e pur se Milano è una città che si discosta dalla media nazionale, capite bene che io devo avere un certo magnete, per attrarre ed essere attratto sempre da quel tipo di persone. Nel caso specifico, invece, questa signora non solo era passata dallo psicanalista, ma faceva anche la psicanalista di suo, seppur tirocinante; e al contempo la neuropsichiatra infantile.
I nostri riposi notturni erano spesso interrotti dall'infermiera che telefonava per dire che una delle bambine della comunità da lei diretta si era bevuta una bottiglia di shampoo, o aveva dato fuoco al materasso, o ancora si era impiccata o tagliata le vene. A volte, a cena, squillava il telefono e lei per un'oretta se ne stava fuori dal ristorante a parlare con la sorvegliante o la matta di turno, convincendola a farsi fare un'iniezione, mentre io facevo il commesso viaggiatore, solo al tavolo, con la candela tristemente accesa solo per me.
Una volta, dopo che una delle bambine aveva rovesciato il carrello del pranzo per ripicca contro uno degli educatori, lasciando tutta la comunità a mangiar panini, avevo espresso l'opinione che forse forse un paio di sani ceffoni avrebbero fatto molto più di ore passate a convincere le matte che i carrelli debbono stare sui pavimenti e gli shampi nelle bottiglie: tanto più che buona parte di quelle ore erano trascorse fuori dell'orario di lavoro, lei all'addiaccio e io a rimirare la (costosissima) candela che si accorciava, meditando sui vantaggi delle osterie di paese e dei ristoranti a prezzo fisso.
La prima volta che tirai fuori quest'argomento, quello dei ceffoni, ricevetti tale e tanta lavata di capo da farmi desiderare non solo di non aver mai avviato quel discorso, ma perfino di non essere nato. La Violenza, la Responsabilità, la Crescita, il Libero Arbitrio, la Costruzione del Sé. Tutte robe bellissime, per carità; ma quando poi mi trovavo a parlare del cibo con la candela, o peggio a passare le nottate in macchina sotto l'ospedale di ***, tutte queste Parole Maiuscole mi sembravano vane; e non sono tuttora certo che le iniezioni, l'unico strumento efficace una volta esclusi i ceffoni, non siano un rimedio peggiore.

Nell'ottobre di quell'anno lei partecipò a un congresso a Pisa: Pisa infatti è la sede della principale scuola di specialità in neuropsichiatria infantile, e lei aveva passato lì gli anni di studio dopo la laurea.
Decidemmo di fare una vacanzina e andare con Nichita, che all'epoca aveva cinque anni, e che aveva in grandissima simpatia la mia compagna, che sapeva sempre come prenderlo, grazie ad anni di mestiere. Naturalmente in quei giorni frequentammo perlopiù neuropsichiatri infantili: colleghi e soprattutto colleghe che avevano studiato insieme e che erano tornati in città dalle varie parti d'Italia apposta per quel congresso.
Tutta gente espertissima di bambini e di adolescenti; e -ohibò, che caso- un solo genitore: io.
Mi sentivo sotto esame, non lo nego; e non avevo ancora sviluppato certi aspetti un po' egotici del mio carattere, tali da farmene fregare dell'opinione di un consesso di esperti.
Fui quindi molto trattenuto: quando Nichita faceva qualcosa di sbagliato non ponevo in atto tutti quei complessi rituali che avevo sviluppato con il tempo, con i quali gli indicavo che era ora di smetterla di fare ciò che stava facendo bensì, in omaggio allo spirito del tempo e della compagnia, cercavo di farlo ragionare.
In tempi normali, qualora Nichita avesse cominciato, chessò, a provare il filo del coltello sulla sua giacca, gli avrei detto dapprima "piantala", poi "se non la pianti ti spezzo le ditina", poi ancora "adesso ti arriva un ceffone": annuncio serio (a differenza del precedente), al quale lui sapeva che sarebbe immancabilmente seguito il ceffone, se avesse deciso di persistere.
In quell'occasione, invece, non facevo nulla di tutto ciò. cercavo di far sì che Nichita non si tagliuzzasse la giacca, o i pantaloni del vicino, declinandogli per filo e per segno come e qualmente la giacca costasse molto, e sarebbe stato un vero peccato non potersi coprire adeguatamente una volta usciti. In ciò avevo manforte dagli altri convitati, i quali aggiungevano alle mie tante argomentazioni di buon senso, così che il tutto sembrava più un congresso del PD che una cena tra amici.
Nichita, semplicemente, se ne strafregava. Il punto è che un bambino di cinque anni non ha un'idea abbastanza chiara della linea del tempo e delle relazioni di causa ed effetto. Si annoia? Si taglia la giacca: e nessuna argomentazione razionale potrà far sì che la paura del freddo possa avere la meglio sulla distrazione del momento.

Passarono tre o quattro giorni. Era domenica, eravamo su una terrazza, in un bar sul Lungarno; c'erano un paio di colleghi tra cui la primaria di neuropsichiatria infantile di un grandissimo ospedale. Nel corso di quei tre giorni, Nichita aveva capito che era successo qualcosa: come uno scassinatore tenta la combinazione per vedere se riesce a cogliere il rumore degli scatti, lui aveva dapprima tentato di prendersi delle piccole libertà, per poi allargarsi via via sempre di più, non trovando la mia consueta resistenza.
Nel momento che sto ora narrando, Nichita è in piedi, sul tavolo, i bicchieri rovesciati. Un panino nella mano, dal quale ha estratto la bresaola che brandisce sopra di sé, come l'uva per un Bacco, e canta. La primaria, alla quale debbo riconoscere un'enorme coerenza nelle proprie idee e una calma olimpica (e che naturalmente è priva di figli, ci mancherebbe!) a un tratto cede, e tra sé borbotta «eh, certo, forse a questo punto ci vorrebbe un intervento correttivo».
Io un secondo più tardi sarei comunque scattato, avendone abbastanza; ma lei mi aveva preceduto e a quel punto, liberato del mio senso di soggezione psicologica, tiro giù il mostro dal tavolo, e con la voce più cattiva che riesco ad impostare gli intimo di piantarla di fare lo stronzo. In tempi normali tale minaccia sarebbe bastata a farlo smettere immediatamente, ma quelli non erano tempi normali, e lui non poteva essersi accorto che ra tornata in auge l'aria di un tempo: per cui riprende, sereno e fiducioso nel fatto che la punizione non arriverà. Un altro richiamo, inutile, dopodiché, adeguatamente preannunciato, parte un ceffone, che si sente fino a Lucca e che gli fa rivoltare la testa.
In quel preciso momento succedono due cose: Nichita, sbalordito, si rende conto che la pacchia è finita, e si chiude in un mutismo rancoroso, liberando tutta la compagnia della sua ingombrante presenza; la primaria, borbottando, accenna a qualcosa sul fatto che "bisognerebbe dare delle sculacciate perché lo schiaffo umilia". Io la fisso, occhi negli occhi, e le dico: - "vedi, *** capisco che per te possa essere difficile intenderlo, ma sappi che per farlo smettere con le sculacciate avrei dovuto dargliene tante da strappargli la pelle del culo, mentre con un solo ceffone, proprio perché lo umilia, ha capito e ha smesso. Questa io la chiamo educazione, quella tortura".

Non pretendo di essere il migliore dei padri possibili: perché fare il genitore non è cosa che si impari e non ci sono esami che tengano; so anche che ci sono bambini che mai si permetterebbero di comportarsi come si comporterebbe mio figlio in un ipotetico stato di natura. Io, per dire, ero un bambino buonissimo, talmente buono che ho dovuto arrivare a quasi vent'anni per svegliarmi un po' e liberarmi dalla mia indicibile timidezza. Quanto io ero chiuso e triste, e quindi buono, tanto lui è aperto e espansivo, e quindi vivace.
Io ringrazio Dio tutti i giorni, che non sia com'ero io, ma allo stesso tempo ho un preciso dovere di contrastare le tendenze più anarchiche del carattere, e ricondurlo nell'ambito dei comportamenti socialmente accettabili.
Per non rompere i coglioni al vicino d'aereo o di ristorante: ma soprattutto per far sì che un giorno sia un uomo e non un cretino.

Due olive e una ciliegia (wonkish)


Il Vodka Martini è una cosa un po' troppo da educande per me: l'unico modo serio di bere la vodka, anche la Flagman comperata al supermercatino sotto casa nell'estrema periferia di San Pietroburgo a un euro a bottiglia (e che è molto più buona di tutte quella che ci propinano per russe qui in Italia, tipo Stoliza o Moskoviza), è: fredda (moderatamente fredda, anzi per meglio dire fresca); liscia; in piccoli bicchierini (magari di cristallo lavorato).
Il Martini richede il profumo del gin che involgarisca la nota secca e allo stesso tempo morbida del vermut. Il Martini non è la contessa di Guermantes: è Vivian Ward che, vestita a festa, va nel ristorante chic e sbanca tutto con il suo stile pur restando, dentro, una troia da strada.
Un Martini on the rocks (e tanto più quindi un Vodka Martini on the rocks) è poi un gradino più sotto nella scala del perbenismo: il ghiaccio che si scioglie lentamente nel bicchiere diluisce il cocktail facendolo apparire meno rude; ma in realtà, come sa bene l'intenditore, quell'acqua incarognisce la purezza del distillato e conferisce al tutto un retrogusto di topo morto non molto apprezzato. Certo, se si tratta di far colpo su Amy tutto è lecito, per carità, ma qui stiamo parlando di cose da uomini.
E' quindi con un certo stupore che ieri sera il mio barista preferito, quando dopo aver bevuto un paio di classici (un Milano-torino, un Long Island che-come-lo-fa-lui-non-lo-fa-nessuno e un White Lady) gli ho chiesto qualcosa di *molto* secco, mi ha propinato un French Martini: vale a dire un Martini on the rocks corretto all'Angostura. Mentre me lo serviva, mi ha avvertito che si trattava di una composizione *molto* impegnativa, ed in effetti così è stato.
Con quel bicchiere in mano (uno di svariati) mi sarebbe piaciuto sentirmi un po' Josh, ma non ho potuto: per ammorbidire il tutto, infatti, la guarnizione viene fatta con una ciliegia al maraschino, non con le olive.

venerdì 20 novembre 2009

Tempi (mica tanto duri)

Potrei annoiarvi sulla relatività del tempo, le teorie degli universi paralleli, la Gestalt; e ho anche qualche competenza in materia di psicologia analitica, non per mio merito né per mia scelta, con cui potrei fiorire un discorso che al termine risulterebbe inutilmente complicato e mortalmente noioso.
Ed ho già detto quanto questa città possa essere brulla e morta, in certe occasioni; e magari solo il giorno o l'ora dopo, quando cominciavi a non sopportarla più, ti offra su di un piatto d'argento il pegno del suo riscatto, e ti faccia ricominciare ad amarla.
In effetti, a voler essere obiettivi, non è tanto la città: il fulcro sono le persone, le situazioni che si creano tra di esse, gli strumenti che hanno creato le situazioni, le condizioni che ti hanno permesso di accedere a quegli strumenti: alla fine in tutto questo gioco Milano conta ben poco.
Ma quando un giorno ti succede di passare un paio d'ore al termine delle quali ti accorgi di esserti dimenticato dello scorrere del tempo e di tutto il resto (la città, gli strumenti, le situazioni, le condizioni e giù giù, fino al motore immobile); allora devi pur ringraziare qualcuno: e dato che sei un tipo timido, ringrazi Milano.

mercoledì 18 novembre 2009

BikeMi proroga

Carissimo Marco,
sei stato fra i primi iscritti al progetto BikeMi e pertanto t'informiamo che il tuo abbonamento annuale è quasi terminato.
La scadenza è prevista per il 03/12/2009.
Per ringraziarti del supporto e della tempestività abbiamo però deciso di posticipare la scadenza al giorno 17/01/2010.
Così facendo potrai usufruire della proroga gratuita del servizio per tutto il periodo festivo aiutando anche a decongestionare il traffico particolarmente intenso in quel periodo.
Ti invieremo a breve una comunicazione con la procedura da seguire per rinnovare il tuo abbonamento a partire dal 18 gennaio 2010.
Restiamo a tua completa disposizione cogliamo l'occasione per porgerti i nostri più cordiali saluti .
Customer Care BikeMi
BikeMi è gestito da ATM e da ClearChannel: una paludata, elefantiaca azienda pubblica permeata di clientelarismo e una società privata che vende spazi pubblicitari. L'una guarda alla gestione del potere come un ministero sovietico d'epoca brezneviana, e lo sanno bene coloro che abitano in questa citta dove gli incidenti e i disservizi dovuti all'obsolescenza del materiale e alla massimizzazione del profitto d'esercizio sono sempre più frequenti; l'altra guarda, come è giusto che sia, a fare utili.
Soci che si sono guardati in cagnesco, in questi mesi, anche perché il Comune di Milano -vale a dire il papà di ATM- non ha rispettato con rigore e puntualità gli impegni assunti.

Il regalare (perché di puro e semplice regalo, si tratta) un mese e mezzo d'abbonamento ad un servizio che non conosce la minima crisi mi sembra un ottimo segno: non mi chiedono di rinnovare fin d'ora, non mi chiedono neanche di compilare un questionario: mi regalano 45 giorni senza chiedermi nulla in cambio.
Mi incuriosisce solo una cosa: a chi è venuta, l'idea?

E quando.

E quando un giorno l'aria pulita scarseggerà, e -per ottimizzare l'utilizzo efficiente della risorsa scarsa e quindi contingentabile- vi attaccheranno alle narici un contatore, e vi faranno pagare un microcentesimo per ogni respiro, penserete di averne abbastanza?

E quando un giorno decideranno che mantenere nelle galere i detenuti fornendo loro acqua, cibo e calore è antieconomico, e li metteranno a lavorare sui cigli delle strade, incatenati, e lasceranno morire di fame e di sete chi non sarà in grado di procurarsi il pane, penserete di averne abbastanza?

E quando un giorno chiuderanno le scuole perché nessuno pagherà più gli insegnanti, e i genitori potranno scegliere se mandare i bambini a imparare nelle scuole dei ricchi, o avviarli alle fabbriche o alle miniere, penserete di averne abbastanza?

E quando la sindrome di Down, la dislessia, l'ADHD appariranno inutili eufemismi per designare mongoloidi, deficienti e teppisti, per i quali è inutile spendere denaro pubblico tranne quello sufficiente a rinchiuderli nei manicomi e nei riformatori, penserete di averne abbastanza?

O vi troverete, domani come oggi, a incassare come pugili suonati i colpi delle prime pagine dei giornali: incapaci di rialzarvi, impotenti a reagire?

Milano Si-Cura

Domani parte una tre giorni di incontri che rischiano di essere molto interessanti; e allo stesso tempo noiosi e tristi come si addice alle cose serie.
Io ne ho sentito parlare giovedì scorso; e se non fossi stato costretto a stare ad assistervi, a quella presentazione, certo per mia scelta non vi avrei presenziato e non ne sarei rimasto entusiasta.
In effetti sia il tema che il contorno sono lontani assai dai miei interessi e dalle mie simpatie: ma questo post oltre che fornire una segnalazione è anche l'ammissione che il pregiudizio è sempre in agguato, anche in chi crede di essere aperto a tutto.

Parliamo della Casa della Carità, cioè di un'istituzione fondata da Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, per dare accoglienza alle persone in situazioni di disagio. Fin qui niente di nuovo, ma questa Casa cerca di fornire accoglienza di qualità: niente a che vedere con i dormitori quindi, bensì più con le case dello studente, per dire. Ed è un'istituzione ecclesiastica dove ci sono i crocefissi, ci mancherebbe, ma nessuno chiede a nessuno di farsi i segni della croce o di partecipare alla messa quale corrispettivo del letto e del pasto. E le famiglie possono stare unite: anche le coppie, non solo la mamma con i figlioletti; nella stessa stanza.

Questa Casa della Carità ha organizzato una tre giorni di incontri dal titolo "Milano si-cura" e dal sottotitolo "dialoghi di riconciliazione": in apparenza (e volutamente) catechetico, quest'ultimo; ma in realtà la riconciliazione di cui si parla è quella della città invisibile con quella rutilante, e viceversa. Non c'è storia invece su quel si-cura, che vuole trasformare l'ansia di esclusione e controllo sociale che permea questa città nel suo contrario; e qui si potrebbero dire tante belle cose sul senso di Responsabilità; sulla Carità intesa in senso non paternalistico bensì di prossimità verso l'altro; sulla natura del patto di Cittadinanza.
Insomma: il programma è qui, ciascuno ne faccia quel che ne vuol fare.

martedì 17 novembre 2009

Barocchismi

Dobbiamo significarVi che, in difetto, daremo corso alle azioni giudiziali per il recupero del credito tramite escussione dei cespiti ipotecati a garanzia del medesimo.

A volte non viene voglia di pensare, e ci si rifugia nelle formule.
Quando ci si prepara a togliere il campo a un contadino, il ristorante a un oste o, per fortuna di rado, la casa a un insegnante: ecco che l'unica cosa da fare è nascondersi dietro la formula cristalizzata: usare lo stampone con i buchini dove mettere solo i nomi e l'importo.
L'importo, già: sono quasi vent'anni che lo faccio, e nonostante ciò il mio disagio nello scrivere le lettere è ancora lo stesso: inversamente proporzionale al numero di cifre dell'importo.

Il muro fuori, il muro dentro

Nel mare magnum dei cretini che popolano i socialcosi non mancano mai quelli che vogliono scatenare flame wars: ogni giorno vede la sua bella guerricciola, e spesso anche più d'una.
Io, che sono sufficientemente cretino di mio, non disdegno di lanciare di quando in quando qualche provocazione inutile, stare a vedere l'effetto che fa e ogni tanto buttare un po' di carbonella sulle braci: del resto la finestra che si aggiorna è lì proprio per stemperare la serietà del mondo in generale; e quello in cui mi muovo io durante la giornata è ancor peggio, per la necessità di calibrare i propri passi con attenzione e non lasciarsi mai scappare una sbavatura.

Ben vengano i socialcosi quindi per sbavare: prendersi per il culo, anche pesantemente, va bene: e chi non ci sta, sbottando come Michael Douglas in Falling Down, dimostra di non avere il senso della misura, o peggio di non avere vita propria, sostituita in tutto dalla frequentazione dello schermo luminescente.
Ci sono però dei limiti: ciascuno ne ha di propri e io credo di essere uno di quelli di manica più larga; ma anch'io ho dei limiti.
Così, quando ho letto la frase che riporto: apprende che sono stati trovati 20.000€ tra hashish, marijuana e cocaina destinati allo spaccio nell'appartamento di Stefano Cucchi: se li avesse venduti ai vostri figli, lo rimpiangereste ancora? mi sono trattenuto dal comunicare all'autore, puramente e semplicemente, quanto lo ritenessi stronzo, vigliacco e spregevole: avrei alimentato l'ego malato del residuo della digestione conferendogli uno zillionesimo in più di visibilità.

Ne parlo tuttavia qui, perché questo atteggiamento è, ahimè e ahinoi, meno infrequente di quanto si possa immaginare.
Qualche sera fa ero a una serata in cui, fra altri, c'era Lucia Castellano, che è la direttrice del carcere di Bollate: Lucia è una donna straordinaria, e credetemi se vi dico che questo aggettivo, ormai svalutato per consunzione, nella sua persona riprende appieno il proprio significato. La conosco ormai da molto tempo, ho visto molti progetti pensati e soptattutto attuati, che fanno di quel carcere -non solo per merito di Lucia, ma in gran parte sì- un'isola relativamente felice nel tristo panorama italiano.
Certo, ci sono delle condizioni al contorno: Bollate è una Casa di reclusione destinata a detenuti condannati a pene relativamente brevi per reati relativamente lievi: niente a che vedere né con San Vittore (che è una Casa circondariale, destinata quindi ai detenuti sottoposti a custodia cautelare) né con Opera (che è pure Casa di reclusione, ma in cui sono rinchiusi Totò Riina e Sandokan, per dire, e dove quindi si vivono tutt'altri problemi).
Be', l'altra sera a un tratto Lucia ha detto questa frase, che andrebbe scritta su tutti i muri perimetrali e sul monitor di tutti gli editorialisti:
La cosa difficile è far capire all'opinione pubblica che nel nostro ordinamento la pena è il muro, e solo il muro
Non credo che vi sia mai capitato di scorrere la legge sull'Ordinamento penitenziario, sfogliando la quale sembrerebbe che il nostro Paese si ponga ai più altri livelli di civiltà; e invece le nostre galere sono ad un livello non molto lontano da quelle di Fuga di mezzanotte.
Scandaloso? No!, perché comunque vi è sempre che si alza e urla che i detenuti stanno in galera meglio che negli hotel a cinque stelle, che godono di troppi lussi e troppi vezzi. Nel nostro Uomo della Strada si fa strada l'idea che non basti chiudere uno tra quattro mura, ma sia necessario anche dargli poco spazio, poca luce, poco cibo, poco calore (non parliamo poi del sesso, che viene legittimamente praticato in quasi tutte le carceri d'Europa, mentre da noi fa scandalo anche solo il sentirne parlare; e non so se ciò non abbia in qualche modo a che fare con i crocefissi nelle scuole).
A volte poi si arriva all'Uomo del Vicolo, che pensa che dato che Cucchi spacciava in fondo non è un gran male che sia morto.
Ecco: io vorrei che la deriva di questo paese si fermasse alla Strada (che già è un bello schifo, intendiamoci) e non arrivasse al Vicolo. Non credo che coloro che l'hanno ormai imboccato, il vicolo, possano essere fatti tornare indietro: ma vorrei costruire un bel muro, all'imbocco, in modo da tenerli tutti di là, e impedire che gli altri li raggiungano.

lunedì 16 novembre 2009

Multitasking

E' sempre difficile rendersi conto dei propri limiti: il proverbio della pagliuzza e della trave è una di quelle cose che bisognerebbe trasmettere ai bambini insieme al latte materno.
Certo, è facile vedere i difetti degli altri, dall'esterno: e a volte certi comportamenti ti fanno una rabbia dell'anima: non riesci a capacitarti che qualcuno possa essere tanto inconsapevole rispetto alle proprie azioni o alle proprie capacità.
Con gli anni impari a tue spese i tuoi limiti: ad esempio io, dopo aver bocciato tre volte la mia macchina in parcheggio rigando intere fiancate, ho capito che non riesco a parcheggiare e ascoltare la musica insieme. Ciò fa di me una persona diversamente normale, è vero, ma meglio questo che violentare le bambine, in fondo (non tanto meglio per i proprietari delle altre macchine, perlomeno finché non ho imparato a spegnere la radio). E non riesco neppure a lavorare ascoltando la musica, a scrivere ascoltando la musica e a fare l'amore ascoltando la musica (ciò fa sì che, nel complesso, io ascolti pochetta musica, salvo che quando cucino, ma solo robe che conosco già).

Non sono un multitasker, insomma, qualunque cosa ciò voglia dire: sono uno di quelli all'antica, che fa una cosa per volta, perché di cervello ne ha uno solo. In qualche occasione su FriendFeed ci si trova con un po' di amici e conoscenti a commentare in diretta certe trasmissioni televisive (i Floris, i Santoro): è richiesto un minimo di malizia biologica, nel senso che le orecchie debbono ascoltare la TV e occhi e dita guardare il PC e la tastiera: cosa che non sembra difficile, ma spesso mi accorgo che perdo del tutto il filo della trasmissione e di fatto la seguo tramite i commenti.
La fregatura è che i socialcosi, come vengono confidenzialmente chiamati, sono di quelle cose un po' carne e un po' pesce che non si sa mai bene come classificare: ci puoi esprimere un pensiero astratto all'universo mondo, come si faceva con l'attacchinaggio di manifesti sui muri del liceo, e ci puoi fare una conversazione a due, come ai tempi del "Mi pensi? ma quanto mi pensi?" che i veterani della rete ben ricorderanno, dato che Yvonne Sciò pubblicizzava la famigerata TUT.
C'è chi in questo blob contenutistico ci si muove bene, e riesce a fare contemporaneamente otto cose: chattare con tre persone diverse, seguire il flusso pubblico, guardare un telefilm e laccarsi le unghie. C'è chi, quando apre una chat (ocomediavolosichiama) crede di essere al telefono, o al tavolo di un ristorante apparecchiato per due.
A me è capitato solo una volta, nella vita, di andare a pranzo con una signorina la quale, mentre stava seduta con me, ha fatto cinque o sei telefonate, che non riguardavano né l'anziana madre ricoverata d'urgenza in unita coronarica (ci mancherebbe!) né l'allagamento del salotto a seguito dell'esondazione del Lambro (ci mancherebbe, di nuovo!) né question di lavoro (il che non sarebbe una scusa, comunque). E' stata forse l'unica volta nella mia vita in cui ho proposto di dividere il conto, alla fine.
Certo, dovrei rendermi conto che i socialcosi non sono ristoranti: ma forse sono ormai troppo anzYano, per queste cose.

domenica 15 novembre 2009

Quel che mi piace della Rete

Che le cose restano, e si ritrovano facilmente.

Facile, oggi, parlare di Veltroni e scaricargli sopra badilate di merda. Che se le merita, per carità.
Ma talora ti fa più innervosire il fatto che uno sia passato dalla tua parte, piuttosto che se ne resti dalla sua: perché oggi son bravi tutti, a dire quant'è coglione, il Puffo Triste, e quanto sono stati imbecilli quelli che hanno creduto in lui, e quanto il minestrone binettiano fosse una puttanata, e il maggioritario "io son io e voi non siete un cazzo" vada bene solo per il Marchese del Grillo.

Quanti 26 luglio deve ancora vivere, questo paese?

sabato 14 novembre 2009

La Belle et le Bad Boy

Ci sono quelle mattine, che nel dormiveglia cominci ad avvertire dapprima nell'inconscio, e poi ahimè con piena coscienza, una sensazione che sale dallo stomaco, si intensifica, diviene un odore e infine un sapore. Sa di <LongIsland-MilanoTorino-Cosmopolitan-WhiteLady-Martini-Martini-Martini-Birretta[Birretta? Birretta! Doh!]-GewurtzTraminer-Gavi-Lambrusco[con la frittura, il Lambrusco, già]-Teroldego-Moscato-Sambuchino[Averna, what else?]-Fernettino-Fernettino-Sambuchino-Grappino-Limoncello[e dillo, che sei un cretino!]-MississippiMule-Stinger-Birretta[Doh!]>
E ad ogni nuova vampata di quella sensazione, tu rammenti ciascuno dei bicchieri, ciascuno dei sorsi, ciascuna goccia di ciascun sorso; ti penti, ti insulti e prometti di non farlo più, maimaimaimai più.
Poi monta il mal di testa: prendi un Brufen: ormai hai imparato la lezione. I sintomi passano e dopo una ventina di minuti, bel bello, riesci ad alzarti portandoti dentro solo il divertimento della sera prima, in una giornata che volge al bello.

Ci sono quelle altre mattine, che nel dormiveglia cominci ad avvertire dapprima un senso di vago disagio, come se avessi una sensazione di aver fatto qualcosa di male, ma non sai bene cosa possa mai essere, quella sciocchezza che hai commesso, finché i contorni del problema cominciano a delineartisi con più chiarezza, e rammenti di aver scritto delle cose, provocando e rispondendo a provocazioni.
E ti ripassa nella memoria ciascuna frase, ciascuna proposizione e ciascuna parola; ti penti, t'insulti, ti dai del cretino.
Vai a rileggere poi, abbattuto, e ti rendi conto di quanto tu possa essere apparso idiota e fanfarone; e inetto nel non cogliere significati e nel non riuscirne a trasmetterne.
Ti rendi conto che forse forse sarebbe ora che ti comperassi uno di quei manuali galanti per facilitare il dialogo tra gli uomini e le donne d'oggi: tipo quello della Blasi*, per dire (certo, anche la Soncini* ha scritto qualcosa, ma quello è un'altro campionato, e non potrai mai arrivare a capirci dentro nulla: è troppo intelligente e sofisticato per te, che sei un ragazzo di campagna ed ogni tanto sbagli gli apostrofi** e scrivi faccine :-((()
Ti rileggi, ti turbi, ti penti, ti maledici. Poi a un tratto, verso il fondo, trovi scritto «ok, andata»: ti accorgi che per quanto banale, scontato e presuntuoso tu sia stato, alla fine le cose non sono andate per niente male, anzi! E se ti rileggi una seconda volta ti convinci anche che prima di arrivarci, a quell'«ok, andata» che hai anelato e per il quale hai speso le tue energie, sei anche riuscito a segnare un paio di punticini, assolvendo un compito tutt'altro che banale con un'interlocutrice mille volte più smaliziata di te, che ora ti senti un po' meno ragazzo di campagna (ma lo sei, rammentalo sempre: non montarti la testa!)
Ti viene in mente di rileggere un pensiero che avevi scritto poche ore prima e concludi, sbalordito, che ogni tanto ci pigli. Sei ancora un discreto giocatore, ti hanno ammesso al tavolo; ora devi vincere.
La giornata volge al bello.

* nessuna scrittrice è stata maltrattata nella produzione di questo post.
** fa pendant con «un'altro campionato». spiegare le battute, uff.

venerdì 13 novembre 2009

Cose di lavoro

Poco fa, dopo avere scritto una mail nella quale davo una strizzata di coglioni a un po' di banche, ho partecipato a una conference call. Che è una telefonata, con tanti partecipanti, ma dirlo in inglese fa più fico.
Per quei due lettori che non sanno come si svolge una conference call, spiegherò che è un po' come avere due televisioni accese contemporaneamente che trasmettono l'una Anno Zero e l'altra Ballarò, e tutti litigano con tutti. E tu sei bendato. Con un tappo di cerume nelle orecchie, e la lavatrice che fa la centrifuga.
Il tutto, poi in inglese; e se io non capisco West Wing in inglese, cosa diavolo posso capire, di una conference call?

Comunque la mia posizione era molto semplice: dato che tutti dicevano "rosso" e io poco prima avevo scritto "verde", me ne sono stato zitto, ho premuto il tasto e ho russato sonoramente, salvo un paio di pause per un caffè e una pisciatina.
Alla fine di questo delirio, uno dei partecipanti, letta la mia strizzata di coglioni color del prato, mi manda una mail nella quale mi dice, in businessese, che sono uno stronzo; e un fancazzista.
Dieci anni o quindici fa gli avrei risposto immediatamente per le rime; ma dopo tanti anni uno impara che non bisogna mai rispondere sull'onda dell'emotività: per cui vado dalla mia capa per farmi ordinare di usare le buone maniere e il guanto di velluto, ché io da solo non avrei saputo contenermi. Costei legge la mail, diventa furente e profferisce alcune parole, all'indirizzo del mittente, che a suo dire io dovrei scrivere e che non starebbero bene neppure in bocca ad un camallo ubriaco caduto in un barile di merda.
La prendo per la manina (ci vogliamo bene noi, costì), e la porto dal Grande Capo, sperando che lui ci faccia un cazziatone e ci ordini di abbassare i toni sotto pena dei peggiori castighi.
Faccio dire a lei il contenuto di ciò che vorrebbe scrivergli, e vedo lui che diventa via via più rosso: - "meno male -mi dico- adesso ci rovescia come un calzino e ci fa scrivere una mail da gattino bagnato in cerca di rifugio".
E invece, alla fine, se ne sbotta con un: - "no, ragazzi, non avete capito niente. Non è più tempo di essere gentili: a questo qui (il famoso mittente, se vi foste persi per istrada) dobbiamo insegnargli a vivere"
Insomma: ho il week-end intero per scrivere un papiro di insulti. La prossima settimana promette bene.

Il giusto processo

E rubiamoli, questi due o venti minuti al lavoro, e scriviamo un po' qualcosa di più analitico, su questa farsa di disegno di legge!

La proposta, che potete leggere qui, è furbetta: di quella furbizia del bambino che crede di scampare alla punizione nascondendo i cocci del barattolo di marmellata rotto sotto il tappeto.
Essa si situa infatti nell'ambito delle norme sull'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, al quale introduce un nuovo e pomposo richiamo all'art. 111 Cost. (rammentatelo, questo numero: ci servirà ancora!).
Dopo aver sparato questa salva di cannone, il DDL prevede che «Non sono considerati irragionevoli, nel computo di cui al comma 3, i periodi che non eccedono la durata di due anni per il primo grado, di due anni per il grado di appello e di ulteriori due anni per il giudizio di legittimità». Una doppia negativa che statuisce che sopra i due anni, la durata può essere irragionevole, mentre sotto i due anni di certo non lo è. Ma perché, direte voi, questo arzigogolo? Be', perché, se andate a rileggere bene, nella proposta non c'è mica scritto "processo penale": c'è scritto "processo". Che può essere penale, civile o amministrativo.
Infilare nella legge sull'equa riparazione una norma che statuisse che qualunque processo -anche in corso- di durata superiore a due anni farebbe sorgere il diritto a un risarcimento, sarebbe stata la bancarotta dello Stato, come ben sa chiunque abbia avuto a che fare con un tribunale per il risarcimento di un incidente automobilistico o per una lite condominiale.
Abbiamo quindi, nel DDL, una norma che limita l'applicabilità dell'equa riparazione, stabilendo un limite minimo di durata che prima non esisteva. E subito dopo, all'art. 2 del DDL, un'altra norma che stabilisce il limite massimo per la durata del processo penale, decorso il quale esso si estingue. Capite anche voi che le due cose fanno a pugni, vero? Vedendola da un punto di vista sistematico, non è difficile arguire che i due anni sarebbero destinati a diventare, anche in civile, una soglia fissa: o di qua o di là.
Il che dà luogo a questo paradosso: se tutti noi che leggiamo questo blog oggi ci facessimo causa l'un l'altro, per un milione di euri, coltivassimo tutte queste azioni e attendessimo semplicemente i tempi del Tribunale di Milano, tra un paio d'anni avremmo tutti titolo per pretendere dallo Stato il risarcimento per il tempo trascorso, a spese del contribuente. Capite bene che si tratta di un sistema destinato a non funzionare, vero?

Proseguendo nell'esame dell'art. 2, altri strafalcioni (oltre che di sintassi) balzano all'occhio. Nel 2005, come forse ricorderete, è stata introdotta nell'ordinamento una norma che differenzia i termini di prescrizione (o meglio, per essere tecnici, i termini massimi di aumento del termine a seguito di interruzione della medesima) secondo che l'imputato sia o meno recidivo ("ex Cirielli"). Ciò ben si giustifica, da un punto di vista sistematico, dato che il termine di prescrizione è basato sulla pena massima edittale, vale a dire la pena prevista per il reato senza tener conto della recidiva, la quale ha tuttavia l'effetto di aumentare la pena edittale medesima. In altre parole: se la legge prevede una pena edittale di otto anni, il temine di prescrizione viene calcolato sugli otto anni, anche se per effetto della recidiva ne prenderei, in realtà, 12. Ecco perché il legislatore ha previsto che comunque il termine massimo della prescrizione interrotta venga pure esso aumentato.
Orbene, nel nuovo DDL viene introdotta surrettiziamente una "prescrizione processuale", istituto del quale non si era mai sentito parlare e che viene giustificato dalla necessità di adeguare il nostro ordinamento al principio di giusta durata del processo. Ma come si fa a giustificare il fatto che il recidivo non abbia diritto a un processo di giusta durata? Nel nostro ordinamento chiunque, anche il criminale più incallito, ha diritto ad essere giudicato con un "giusto processo": lo dice la Costituzione, all'art. 111 (to'!): e si tratta di una norma che dovrebbe essere ben nota ai firmatari del DDL: non solo perché la richiamano all'inizio del disegno, ma anche perché fu proprio Berlusconi ad introdurla, nel 1999, per i motivi che forse rammenterete.
Dire che tutti, tranne i recidivi, hanno diritto a un "giusto processo" è, come dire, una stortura: una fesseria: e dirlo nella stessa proposta di legge che attacca alle norme sull'equa riparazione proprio (lo ricordate?) il cappello dell'art. 111 significa essere non solo fessi, ma anche in malafede.

In città è un'altra cosa

Certo, la provincia è autentica: le persone sono vere, esprimono la voglia di divertirsi, di bere, di scopare: in concreto.

Qui no: tutto è coperto da una patina di ottone dorato, tutto è regolato, i sentimenti nascosti. Le forme hanno la meglio.
La gente crede che questa in questa città si sia ciò che si appare; si ribella, resiste, e poi cede alla logica della forma: c'è chi si adegua e c'è chi si estrania, con ciò adeguandosi pure lui, in fondo.
Ti chiedi perché tu ci stia, perché non te ne vada altrove, cosa diavolo ti leghi a questa fogna: una fogna dalla quale non riesci a distaccarti.
Finché non ti capitano quelle serate che ti ricordano quello che sai e che spesso -o sempre- dimentichi: non è vero, che in questa città sei ciò che appari.
Per capirla, questa città, devi renderti conto che qui tu sei ciò che potresti essere: che anche quando in qualunque altro posto saresti abbastanza vecchio e bolso da non poterti aspettare più nulla dalla vita, qui -se lo vuoi- hai ancora una vita davanti.
E puoi farne ciò che vuoi. Tu.

giovedì 12 novembre 2009

Il giusto processo

Ho da lavorare tanto in questi giorni, ebbene sì, ma ho dato un'occhiata al DDL tagliaprocessi, nel testo pubblicato dal Corriere .
La prima impressione, prettamente tennica, è che un tale ammasso di sciempiaggini e corbellerie non è un caso isolato (deputate sorelle di note show-girl avevano già aperto la strada).
Il rischio qui è che quest'affastellamento di parole in libertà passi la prova del voto, per i motivi d'interesse privato che sappiamo.

I motivi d'incostituzionalità sono tali, tanti e manifesti che ben difficilmente il Presidente della Repubblica potrebbe abpporvi una firma: il che è ben comprensibile, se consideriamo che per il Lodo Alfano gli estensori si sono presi molto tempo per ragionarvi sopra, mentre questo parto di menti perverse è stato impapocchiato in quattro e quattr'otto: e si vede.
Che tempi, signora mia!

For Mac eyes only

Non so neppure a cosa serva questa roba, ma segnalo che fino alla mezzanotte di oggi (ora ammericana), MacHeist dà via gratis sei applicazioni:
- ShoveBox
- Twitterrific
- Hordes of Orcs
- Tiny Grab
- WriteRoom
- Mariner Write (quest'ultima se sarà raggiunto un certo numero di download.
Affrettatevi!(?)

mercoledì 11 novembre 2009

Il macaco sulla spalla

Ier sera mi apprestavo a cucinare. Non il risotto alla milanese con le salsicce al vino bianco, come mi ero ripromesso, bensì le Galettes (crêpes di grano saraceno) variées. Metto su anche Night and Day II, per tenermi compagnia nella preparazione, e dato che in cucina non ho la musica, uso allo scopo il portatile.
L'occasione fa l'uomo ladro, e così avendo un portatile acceso, tanto vale aprire FF per vedere che si racconta: da qui il fatto che ho cominciato a prendere l'abitudine di annunciare cosa cucino e cosa ascolto mentre lo faccio.
Ma FF non mi si apre; né null'altro. Resetto la scheda wireless, senza pensare che se sto sentendo la musica, che risiede sul server sotto il tavolo da tè, la connessione è operativa, ma niente.
Vado al modem/router, lo resetto; si accendono le lucine che si devono accendere tranne quella dell'internet. E mi rendo conto che mi si è rotta l'internet.
Vabbé, dico: lascio riposare un po' l'apparecchio (che non serve a nulla, dato che dovrebbe poter stare acceso ininterrottamente per anni: ma sono gesti scaramantici) e intento preparo la pasta per la galettes, i formaggi (Emmental, Parmigiano e Gorgonzola); la cipolla appassita nel vino; i pomodorini; la rucola; i due prosciutti.
Mentre la pasta riposa (almeno mezz'ora) mi riaffaccio al modem/router, che si ostina a rifiurarmi l'accensione della lucetta. Telefono all'operatore, già svedese e ora (giallo)rosso, e mi appresto alla lunga trafila del servizio clienti.
Una signorina, cortese, mi chiede chi sono, come mi chiamo, dove abito (tutte cose che io so benissimo essere già comparse sul suo video!), e poi inizia a dirmi che devo scollegare il router, spegnere il computer... cerco di resistere e non fare il cagone, ma alla fine le dico che mi guadagno il pane amministrando reti, e che quindi se dico che la portante è giù vuol dire che la portante è giù. Una pietosa bugia ma lei, colpita, abbozza; e così dopo un po' d'altra attesa (mentre la pasta riposa e s'ispessisce) arriva dai tennici la conferma che la portante è giù.
«Le apro la chiamata: tenga conto che ci vorranno cinque giorni lavorativi, sabati e domeniche escluse». «Cinque giorni lavorativi, sabati e domeniche escluse?!?!?»
Comincio a sudare, mi gira la testa, la salivazione s'azzera. Un crampo sale, lieve, dallo stomaco fino alla bocca, che si riempie d'amaro.

«Posso smettere quando voglio», mi ero detto. Dicono tutti così.

lunedì 9 novembre 2009

Piccole amarezze

Ricevo una mail:
La Dott.ssa XXXXX YYYYY è una collega del Legale e mi ha consigliato di rivolgermi a Lei per avere un ulteriore conferma al fatto che non ci fossero situazioni di contenzioso o di crediti non performing sulla controparte.
Le sarei grata se mi potesse dare un feedback in merito.
Pochi minuti dopo, ricevo da tutt'altra persona un'altra mail:
Ciao Marco,
in relazione all'oggetto dovresti farmi avere - entro il giorno 11 c.m. - un'aggiornamento sulle seguenti sofferenze: [...]

In provincia è un'altra cosa

Sì, certo, Milano. La metropoli, le opportunità, la vita culturale. I salotti, i teatri, i cinemà. I bar patinati, le fighe che non te le danno e che poi però te la vorrebbero dare quando non gliela chiedi e magari manco più t'interessa.
Gli eventi interessanti, quelli a cui non puoi non partecipare e non partecipi e quelli a cui non dovresti partecipare, e ti ci trovi in mezzo.
Una città, insomma.

Però: il gusto di andare in un bar di periferia, con un congelatore zeppo fino all'orlo di birre gelate, una band che suona del buon (IL buon) vecchio rock, il barman che ti abbraccia stritolandoti e salta di là dal bancone quando ti vede entrare; il pavimento masarento sul quale rotolano le ragazze tiratissime da fighe che arrivano alla fine della serata con le calze smagliate; Mirko che dietro il bancone si toglie gli occhiali e l'orologio per scatenare i suoi centoventi chili contro un avventore reso particolarmente molesto dal vino e dai cori da stadio. I vetri spaccati, i mozziconi; gli abbracci di saluto e i baci sulla bocca.
In provincia è un'altra cosa.

venerdì 6 novembre 2009

Francesco Alberoni ha lasciato il Corriere per Repubblica

Questo è il primo, interessante, articolo scritto sulla prestigiosa testata.

Ancora un po'

Ieri sera sono stato a cena con Beppino Englaro: in effetti abbiamo parlato poco, perché non eravamo vicini e perché non è un signore che parli molto; e non abbiamo comunque parlato della vicenda che tutti conoscono che lo ha reso, malgré soi, un simbolo delle battaglie per la laicità.
Tornando a casa mi dicevo che c'è qualcosa che mi è rimasto in canna, quando ieri parlavo del crocefisso.
Coloro che pensano che la battaglia per toglierlo dalle aule sia inutile (dato che c'è sempre stato e a nessuno gliene è mai fregato granché), o dannosa (dato che ha richiamato l'attenzione sull'oggetto e rischia di farne apporre anche dove adesso non ci sono), o inopportuna (dato che ben altri sono i problemi che abbiamo, oggi) sono certo in buona fede.
Ma riflettano, per un secondo solo. Sul fatto che se oggi la chiesa si permette di condannare a vivere una donna, in ispregio alle sentenze di uno Stato formalmente laico, e con il pieno sostegno del governo in carica; se i ginecologi si permettono di contravvenire alle leggi boicottando, su mandato della chiesa, la distribuzione delle pillole che consentirebbero di abortire senza dolore; se i sindaci si permettono di rifiutare i permessi per aprire un locale di pubblico ritrovo in uno scantinato di periferia, perché i porporati affermano che la nostra società non è pronta per moschee e minareti; e -infine- se quel governo, quei ginecologi e quei sindaci non vengono rimossi dalle loro poltrone: be', riflettano costoro sul fatto che fore un po' di tutto ciò è dovuto anche a quei due pezzi di legno onnipresenti.
E quando vedranno in televisione il volto sorridente e sofferente del signor Englaro, si chiedano se sono ancora nella condizione di esprimergli tutta la solidarietà che gli hanno espresso.

giovedì 5 novembre 2009

Di navi, d'aerei e di razzi /2

(segue da questo post)

Continuando la serie dei casi giuridici americani, in un'altra lezione ci è stato sottoposto il seguente, giudicato dalla Corte federale del Soutern District of New York nel 1999.
Guardatevi anzitutto lo spot, che pubblicizza la nuova raccolta punti Pepsi:

Ecco: succede che un tipo ameno, tale John Leonard, ha effettivamente raccolto 7 milioni di punti e li ha inviati alla Pepsi, dicendo loro di mandargli l'aereo. Non che si sia dovuto bere due milioni e mezzo di litri di bevanda gassata: in effetti nel catalogo Pepsi c'era un'offerta per la quale, avendo almeno 15 punti, si sarebbero potuti comperare i punti rimanenti per conquistare il premio, al prezzo di 10 cents l'uno.
Il nostro John quindi ha raccolto 15 punti, ha messo in una busta un assegno di 700.000 dollari* e ha preteso il caccia. La Pepsi, gentile, gli ha rimandato indietro l'assegno, spiegando che si trattava di uno scherzo; ma lui niente: l'ha rispedito dicendo che lo spot non è per nulla uno scherzo, bensì un'offerta vincolante, che aspettava solo l'accettazione di qualcuno: nel nostro caso, la sua.
Dopo un po' di tira e molla, il nostro eroe ha fatto causa alla Pepsi, chiedendo l'esecuzione in forma specifica (vale a dire la consegna dell'aereo) o in alternativa la condanna per inadempimento contrattuale, per truffa, per pratiche commerciali scorrette e per pubblicità ingannevole.
C'è anche un voce su Wikipedia.

* per la precisione, 700.008,50 dollari: ci aveva anche messo i 10 dollari per le spese di consegna.

Crocefisso, sbattezzo e Vittoria

La storia del crocefisso non merita di essere affrontata in un blog serio, e quindi ne parlo qui: non per dire la mia opinione, che si confonderà nel rumore di tutte le milllemila opinioni espresse da altri, quanto per ricordare a me stesso cosa ho pensato.
Il crocefisso nelle aule non ha da starci. E non certo perché turbi la libertà religiosa dei bambini: altri hanno fatto notare che i bambini e i ragazzini manco se ne accorgono della sua presenza, e io stesso, come altri, non rammento se nella mia classe c'era o non c'era.
Neppure perché turbi il "diritto dei genitori al rispetto delle loro convinzioni religiose e filosofiche", ché questa è una vera puttanata (voglio vederlo, il genitore che insegna ai figli che i negri sono teste di cazzo, filosoficamente).
Né tantomeno vale il concetto che se uno non ci crede quelli sono solo due pezzi di legno, e quindi che male c'è ad averli sulla parete. Ché il crocefisso non è lo sbattezzo, il quale è, nuovamente, una puttanata: un rito parareligioso per togliersi il marchio di due gocce d'acqua, che possono marchiare qualcuno solo se questi attribuisce loro un qualche potere trascendente dimostrando, pertanto, di credere in una qualche trascendenza. No, il crocefisso non è un marchio, è un oggetto ben concreto: lo si tocca, lo si appende, lo si nasconde persino.

Il punto è un altro: è che nei luoghi pubblici debbono esserci simboli pubblici. Il crocefisso non lo è: anche a volervi vedere un simbolo culturale, esso non ha comunque valenza pubblica.
Negli uffici pubblici c'è la fotografia del Presidente della Repubblica, che è il Capo dello Stato e rappresenta la Nazione: rappresenta la Nazione e quindi l'appenderlo al muro significa che quel muro, e quindi quell'ufficio e quindi il funzionario che ivi siede, sono tutti espressione della Nazione e al suo esclusivo servizio, come recita la Costituzione.
Vediamo un po' quali sono le cose che si possono esporre in un pubblico ufficio per rappresentarne il carattere pubblico: il Capo dello Stato, appunto, poi? A me vengono in mente: la bandiera, lo stemma nazionale (per quanto sia così bruttino che è meglio tenerlo nascosto), una copia della Costituzione. Per quanto mi sforzi, non mi viene in mente altro, salvo ripristinare l'Italia Turrita Vittoriosa del 4 Novembre (ma nel frattempo di guerra ne abbiamo persa un'altra).
Se accettiamo il crocefisso, che è un simbolo della nostra cultura e delle nostre radici, allora converrete che anche una piccola lupa non sarebbe fuori luogo: salvo che non siamo più figli di Roma, ma allora perché imporre l'Eneide a scuola?.
E pure un Partenone, dacché Graecia capta ferum victorem cepit. E non vorremo mica dimenticare una corona ferrea, no? Né una daga franca, una corazza medievale, una celata spagnola o una coccarda tricolore, per ovvi motivi (ovvi per coloro che sanno un po' di Storia, con l'S maiuscola). Che?, la lupa sì e la coccarda tricolore no? e che messaggio daremmo ai piccoli italiani che studiano faticosamente le gesta del nostro Risorgimento? Come farebbero a capire i film di Luigi Magni? No, no: la coccarda ci vuole, punto.
Ah, dimenticavo: ci sarebbe anche il fascio littorio, che ha non poca influenza sulle nostre tradizioni anche d'oggidì, ma converrete che sarebbe il caso di affiancarvi una stecca di sigarette e qualche goldone, tanto per mostrare chi ha poi vinto: e magari un pezzettino di muro di Berlino.
Se poi andiamo sul culturame di sinistra, di cui siamo specialisti, pensate a quanta roba potremmo simboleggiare. Non credete che Gutemberg abbia avuto un'influenza paragonabile a quella del Cristo nella nostra società? E allora non sarebbe il caso di celebrarla con un bel torchietto da stampa? E una riproduzioncella della Torre di Pisa con due gravi che cadono, magari vicino ad un pendoletto in miniatura e ad un cannocchiale, tanto per ribadire l'importanza del Metodo?
Ma non di sola scienza vive l'Uomo, e quindi bisognerà inserire nell'elenco qualcosa delle arti letterarie e figurative: una Commedia dantesca, una Gioconda (così tutti vedranno che mostra le mani e non le orecchie) e anche una copia dei Promessi Sposi, l'unico Romanzo italiano delle grande tradizione occidentale.

Certo, a questo punto gli alunni dovrebbero uscire dall'aula, ormai strapiena e pericolante: ma sono certo che alla Gelmini ciò non dispiacerebbe troppo, perché dovrebbero andarsene anche gli insegnanti, quei fannulloni.

lunedì 2 novembre 2009

Due o tre cose che ho imparato sull'amicizia

Fin dai tempi del liceo ho imparato che nell'amicizia valgono alcune regole.
Roba imparata fors'anche perché facevo il capetto politico, o forse perché vivevo un quartiere che qualche volta poteva essere men che tranquillo. O magari c'entrano le esperienze fatte durente le vacanze in Grecia, in quell'isola dove poteva succedere di tutto quando meno te l'aspettavi.
Sono regole che non pretendono di essere giuste né morali; anzi sono profondamente ingiuste e assai discutibili dal punto di vista etico: ma sono regole che vanno rispettate perché si possa parlare di amicizia.
- se qualcuno tira un pugno a un tuo amico, tu prima gliene tiri due e lo stendi a terra, e poi chiedi cosa stava succedendo;
- se un tuo amico tira un pugno a qualcuno, tu prima ne tiri un altro anche tu, e poi gli chiedi il perché;
- se un tuo amico chiede aiuto o conforto, tu prima lo aiuti o lo conforti senza giudicarlo e dopo, se del caso, lo giudicherai.