Ricordate quel post che avevamo ricevuto da fonte anonima e del quale non sapevamo identificare l'autore? Questo qui, insomma?
Bene, è saltato fuori, non senza una certa nostra sorpresa, che l'autore era (o meglio, avrebbe voluto essere, trattandosi in realtà di un testo apocrifo) Beppe Severgnini, il noto interista cremasco che ha viaggiato il mondo. Noi francamente non potevamo figurarcelo, dato che c'erano troppo pochi indizi, e potete ben immaginare la nostra sorpresa apprendendolo.
Tanto più che il medesimo, divertito ma con una punticchia di pizzo in fondo al mento, ha commentato sul Corriere la cosa, sottolineando come per fare una buona parodia occorrano orecchio e penna, laddove all'autore del falso evidentemente la natura e il buon Dio non hanno voluto concedere né l'uno né l'altra.
Come pure taluni commentatori, qui sul blog, i quali hanno voluto sottolineare quanto lo scritto ricordi un temino di prima media, laddove che il Severgnini è noto per scrivere in un italiano corretto e scorrevole: sono tutte critiche che condivido appieno. In effetti in quella parodia c'era un profluvio di punti fermi e smozzicature, il che, tra l'altro, ben può dimostrare quanto io sia estraneo al fatto, dacché come, ben sa chi mi conosce, talvolta faccio sudare il lettore piazzando un punto ogni dieci righe.
Dev'essere quindi per imitazione dell'imitatore che il Severgnini, nella sua replica, è riuscito a scrivere quattro periodi in due righe e un terzo: ciò che per altri sarebbe un piccolo record.
martedì 31 agosto 2010
lunedì 30 agosto 2010
Pentesileide
Che poi, alla fine, il famoso battaglione di amazzoni dev'essere rimasto a casa, se tutte le gallerie fotografiche (Repubblica, il Corriere, La Stampa) riescono a pubblicare solo la stessissima foto, che ritrae due soldatesse, sempre le medesime, che per essere ancora più sicure di non esser scambiate l'una per l'altra si sono anche messe due mimetiche di colori diversi.
Ma oramai il lettore era in attesa, e cosa non si farebbe per accontentare il cliente?
Ma oramai il lettore era in attesa, e cosa non si farebbe per accontentare il cliente?
venerdì 27 agosto 2010
TG2
Sì, Minzolini è Minzolini, ma non bisogna mai perdere di vista il senso generale delle cose e dimenticare che non c'è solo Minzolini.
Oggi ho visto il TG2 delle ore tredici. Potrei scrivere molte righe per spiegarvi come sia potuto accadere e sono certo che riuscirei a convincere la maggior parte di voi, ma la verità è in fondo una sola: non esiste una sola giustificazione valida per vedere il TG2, eccezion fatta per essere lo spettatore legato ad una sedia in una cella del Camp Delta con una televisione accesa davanti utilizzata come strumento di tortura.
Comunque, l'ho fatto, e in fondo l'esperienza ne è valsa la pena.
Perché, verso la fine, è andato in onda un servizio su un bambino nato morto che ha preso a vivere grazie alle carezze della mamma, che non si è arresa.
Avete capito bene: per il TG2 non è nato "in gravissime condizioni", in "condizioni disperate" né è nato "senza dare alcun segno di vita".
No: per il TG2 è "nato morto". E la mamma ha continuato ad accarezzarlo e lui da morto è tornato vivo.
Di fronte a queste cose, rivaluto Minzolini, e perfino Giordano, quello che faceva Lucignolo: una trasmissione che ora mi sembra un diretto concorrente dei programmi educativi della BBC.
Oggi ho visto il TG2 delle ore tredici. Potrei scrivere molte righe per spiegarvi come sia potuto accadere e sono certo che riuscirei a convincere la maggior parte di voi, ma la verità è in fondo una sola: non esiste una sola giustificazione valida per vedere il TG2, eccezion fatta per essere lo spettatore legato ad una sedia in una cella del Camp Delta con una televisione accesa davanti utilizzata come strumento di tortura.
Comunque, l'ho fatto, e in fondo l'esperienza ne è valsa la pena.
Perché, verso la fine, è andato in onda un servizio su un bambino nato morto che ha preso a vivere grazie alle carezze della mamma, che non si è arresa.
Avete capito bene: per il TG2 non è nato "in gravissime condizioni", in "condizioni disperate" né è nato "senza dare alcun segno di vita".
No: per il TG2 è "nato morto". E la mamma ha continuato ad accarezzarlo e lui da morto è tornato vivo.
Di fronte a queste cose, rivaluto Minzolini, e perfino Giordano, quello che faceva Lucignolo: una trasmissione che ora mi sembra un diretto concorrente dei programmi educativi della BBC.
Che sarebbe da piangere, se non fosse da ridere
Il fatto che Beppe Grillo abbia preso posizione nella questione della pretesa evasione fiscale di Mondadori.
Beppe Grillo: quello che ha preso la residenza in Isvizzera perché "doveva trasferire là i server del suo blog".
Beppe Grillo: quello che ha preso la residenza in Isvizzera perché "doveva trasferire là i server del suo blog".
mercoledì 25 agosto 2010
Ismi
Questa volta lo scoop è solo a metà: abbiamo ricevuto in anteprima un altro editoriale che ci assicurano essere di un notissimo giornalista italiano, ma non sapremmo dire chi ne sia l'autore. Volete aiutarci voi?
L'ultima volta che ho intervistato Madonna era ai tempi di Material Girl (che in inglese non vuol dire "ragazza fatta di materia"). La fanciulla doveva ancora farsi ma già intravvidi quel talento che avrebbe conquistato intere generazioni.
Non ho ben capito perché sia stata scortese nei miei confronti, dato che il mio amico Al Gore mi aveva assicurato che lei era una ragazza molto alla mano.
Il suo accento tradiva le lontane origini dell'Italia del Sud, il che pose alcuni problemi di comunicazione quando le chiesi, in perfetto cremasco, che ne pensasse dei tortelli di zucca.
Il fisico emaciato, troppo sfruttato da tante ore di palestra, ben indossava gli abiti di due noti stilistri del nostro Paese: Stefano Dolce e Domenico Gabbana.
Per incontrarla ho dovuto prendere un aereo che partiva dall'aereoporto di Malpensa (hub milanese già da allora destinato ai voli intercontinentali).
La scarsa dose di simpatia dimostratami dalla signora è senz'altro comprensibile alla luce del suo livello culturale non eccelso.
Di ritorno da quest'esperienza colsi l'occasione di organizzare una pizzata con gli Italians di Londra (London, come si dice lassù). Nel corso della gradevole serata molti amici, tra le più brillanti menti, ciascuno nel suo campo, mi hanno espresso il loro rammarico per essere dovuti emigrare in cerca di quelle opportunità di carriera che qui nessuno avrebbe offerto loro.
Le stesse opportunità che uno dei nostri migliori talenti calcistici ha dovuto cercare in Inghilterra; ma Massimo mi ha confessato di aver dovuto lasciarlo andare affinché maturasse in un ambiente più sereno e amichevole. Del resto competitivi lo sono moltissimo, il nostro calcio e la sua ex-squadra, come dimostra il fatto che la finale dei Mondiali praticamente è stata un assolo della nostra beneamata Inter.
Ma tutto lo sport, se praticato all'insegna del fair-play (che significa gioco leale) ha una sua nobiltà. Ho avuto occasone di verificare ciò sul campo, quando sono stato invitato dal Governo cinese a Pechino, in occasione delle ultime Olimpiadi. Credo che anche grazie alle mie corrispondenze da laggiù i rapporti tra i nostri Paesi siano ora molto più solidi e amichevoli.
La popolazione locale, cordialissima nei miei confronti, era molto numerosa ed altrettanto operosa, il che mi ha dimostrato che sono molte più le cose che ci uniscono rispetto ai pregiudizi che ci dividono e al colore della pelle (la loro infatti è giallognola). L'aggressione notturna che ho subito, con conseguente ricovero in ospedale, del resto, avrebbe potuto capitarmi anche alla stazione di Codogno.
Il nostro Paese ospitò le Olimpiadi nei mitici anni '60: il PIL aumentò considerevolmente, Mina cantava "Il Cielo in una stanza" e lo stipendio di un operaio era di 47.000 lire al mese: non 45.000 né 50.000, badate bene quel che vi dico, che allora andavo già alle elementari.
Oggi godiamo della fortuna di vivere in tempo di pace, ma non è sempre stato così: questo è un Paese che ha visto una guerra e un regime. I nostri genitori hanno dovuto subire sacrifici e privazioni, solo in parte mitigati dalle splendide vittorie dell'Italia di Pozzo e Meazza.
Sono cose che mi ha confidato Enzo durante le numerose conversazioni intercorse tra noi due, io lombardo della bassa e lui francamente emiliano, sia prima che dopo la sua epurazione.
Il progresso ci ha messo a disposizione tanti strumenti per alleviare le nostre fatiche e rinfrancare lo spirito: la lavatrice, la televisione (dalla quale spesso potete vedermi)e soprattutto il personal computer (elaboratore elettronico ad uso personale).
Il mondo di Internet è un mondo più aperto, più libero, che ci offre milioni di opportunità: posso persino telefonare ai miei amici cinesi o guardare una partita di calcio, sebbene il vero tifoso dovrebbe andare allo Stadio Meazza.
Grazie al computer si possono anche scrivere e-mails (lettere in forma elettronica), che accorciano istantanemente le distanze e rendono questo pianeta piccolo come Il Duomo di Crema, che però tanto piccolo in fondo non è dato che c'è il famoso organo.
Ho discusso di questi incredibili progressi con Bill Gates, che inizialmente in Internet non ci credeva tanto, ma che dopo avermi ascoltato ha cambiato idea.
Purtroppo nel nostro Paese non siamo tutti Bill Gates, e quindi è necessario che i nostri giovani si applichino allo studio, imparino l'inglese, portino i capelli a testone come i miei e rammentino sempre che il portiere dell'Inter è Gigi Buffon.
L'ultima volta che ho intervistato Madonna era ai tempi di Material Girl (che in inglese non vuol dire "ragazza fatta di materia"). La fanciulla doveva ancora farsi ma già intravvidi quel talento che avrebbe conquistato intere generazioni.
Non ho ben capito perché sia stata scortese nei miei confronti, dato che il mio amico Al Gore mi aveva assicurato che lei era una ragazza molto alla mano.
Il suo accento tradiva le lontane origini dell'Italia del Sud, il che pose alcuni problemi di comunicazione quando le chiesi, in perfetto cremasco, che ne pensasse dei tortelli di zucca.
Il fisico emaciato, troppo sfruttato da tante ore di palestra, ben indossava gli abiti di due noti stilistri del nostro Paese: Stefano Dolce e Domenico Gabbana.
Per incontrarla ho dovuto prendere un aereo che partiva dall'aereoporto di Malpensa (hub milanese già da allora destinato ai voli intercontinentali).
La scarsa dose di simpatia dimostratami dalla signora è senz'altro comprensibile alla luce del suo livello culturale non eccelso.
Di ritorno da quest'esperienza colsi l'occasione di organizzare una pizzata con gli Italians di Londra (London, come si dice lassù). Nel corso della gradevole serata molti amici, tra le più brillanti menti, ciascuno nel suo campo, mi hanno espresso il loro rammarico per essere dovuti emigrare in cerca di quelle opportunità di carriera che qui nessuno avrebbe offerto loro.
Le stesse opportunità che uno dei nostri migliori talenti calcistici ha dovuto cercare in Inghilterra; ma Massimo mi ha confessato di aver dovuto lasciarlo andare affinché maturasse in un ambiente più sereno e amichevole. Del resto competitivi lo sono moltissimo, il nostro calcio e la sua ex-squadra, come dimostra il fatto che la finale dei Mondiali praticamente è stata un assolo della nostra beneamata Inter.
Ma tutto lo sport, se praticato all'insegna del fair-play (che significa gioco leale) ha una sua nobiltà. Ho avuto occasone di verificare ciò sul campo, quando sono stato invitato dal Governo cinese a Pechino, in occasione delle ultime Olimpiadi. Credo che anche grazie alle mie corrispondenze da laggiù i rapporti tra i nostri Paesi siano ora molto più solidi e amichevoli.
La popolazione locale, cordialissima nei miei confronti, era molto numerosa ed altrettanto operosa, il che mi ha dimostrato che sono molte più le cose che ci uniscono rispetto ai pregiudizi che ci dividono e al colore della pelle (la loro infatti è giallognola). L'aggressione notturna che ho subito, con conseguente ricovero in ospedale, del resto, avrebbe potuto capitarmi anche alla stazione di Codogno.
Il nostro Paese ospitò le Olimpiadi nei mitici anni '60: il PIL aumentò considerevolmente, Mina cantava "Il Cielo in una stanza" e lo stipendio di un operaio era di 47.000 lire al mese: non 45.000 né 50.000, badate bene quel che vi dico, che allora andavo già alle elementari.
Oggi godiamo della fortuna di vivere in tempo di pace, ma non è sempre stato così: questo è un Paese che ha visto una guerra e un regime. I nostri genitori hanno dovuto subire sacrifici e privazioni, solo in parte mitigati dalle splendide vittorie dell'Italia di Pozzo e Meazza.
Sono cose che mi ha confidato Enzo durante le numerose conversazioni intercorse tra noi due, io lombardo della bassa e lui francamente emiliano, sia prima che dopo la sua epurazione.
Il progresso ci ha messo a disposizione tanti strumenti per alleviare le nostre fatiche e rinfrancare lo spirito: la lavatrice, la televisione (dalla quale spesso potete vedermi)e soprattutto il personal computer (elaboratore elettronico ad uso personale).
Il mondo di Internet è un mondo più aperto, più libero, che ci offre milioni di opportunità: posso persino telefonare ai miei amici cinesi o guardare una partita di calcio, sebbene il vero tifoso dovrebbe andare allo Stadio Meazza.
Grazie al computer si possono anche scrivere e-mails (lettere in forma elettronica), che accorciano istantanemente le distanze e rendono questo pianeta piccolo come Il Duomo di Crema, che però tanto piccolo in fondo non è dato che c'è il famoso organo.
Ho discusso di questi incredibili progressi con Bill Gates, che inizialmente in Internet non ci credeva tanto, ma che dopo avermi ascoltato ha cambiato idea.
Purtroppo nel nostro Paese non siamo tutti Bill Gates, e quindi è necessario che i nostri giovani si applichino allo studio, imparino l'inglese, portino i capelli a testone come i miei e rammentino sempre che il portiere dell'Inter è Gigi Buffon.
Tormentoni estivi
Anche oggi abbiamo lo scoop del giorno: vi anticipamo un puntuto editoriale del direttore del Giornale ex-Nuovo. Il plurale non è lì per caso: l'indiscrezione è pervenuta a una persona che siede qui, a me vicino, e che conoscendo bene lo stile dell'autore, a differenza mia, si fa garante della sua autenticità
Il Ficarulu e perché deve dimettersi.
Cari lettori, è inutile che vi spieghi in dettaglio la questione di cui siete ben a conoscenza circa l'inganno che la Terza Carica dello Stato ha perpetrato ai danni del suo Paese. E' quindi inutile che vi racconti la storia dapprincipio, da quando cioè fummo i primi, insieme a Dagospia, a scoperchiare il pentolone di questa miseria tutta italiana.
Come ebbe a testimoniarci da queste colonne quel galantuomo di Vittorio Sgarbi, la protagonista di questa vicenda è una ragazza priva di qualunque interesse venale. La sua storia parla per lei: solo una donna che ha saputo spaziare tra poli opposti del gusto maschile (dal grasso imprenditore di successo al Fine politico) avrebbe potuto destare l'interesse di quest'estate sonnacchiosa e altrimenti priva di eventi degni di nota.
D'altra parte non avremmo manifestato un interesse così attento se non fossimo stati certi di riuscire ad agguantare le prove inconfutabili della menzogna e del tradimento posto in atto in ispregio alla memoria di una nobile e generosa donna, la cui unica leggerezza è stata quella di affidare parte del proprio patrimonio in mani credute specchiate e poi rivelatesi rapaci.
E non poteva esistere prova più lampante della la fattura emessa dal prestigioso mobilificio presso il quale i nostri, indubbiamente amanti del bello e del gusto, si sono rivolti per arredare il loro tinello -pardon- nido d'amore.
Abbiamo interrogato testimoni su testimoni, molti dei quali spaventati dal nostro senso di responsabilità e di amore per il vero si sono affrettati a smentire quelle che fino a poche ore prima erano limpide testimonianze. Del resto noi non abbiamo mai sbagliato un colpo: e ce ne avete sempre dato atto. Anche stavolta ci seguite, come dimostrano le centinaia di migliaia di firme che abbiamo raccolto per sollecitare le dimissioni d'un uomo che non merita più la fiducia del Paese e dei suoi elettori.
Non vi ribadirò ancora una volta le domande che gli abbiamo posto e alle quali ancor oggi attendiamo un riscontro: l'appartamento aveva o non aveva un bagno di servizio? L'armadio era un quattro stagioni di Aiazzone? Chi stirava la biancheria? C'era l'ADSL?
Anziché dipanare questi misteri, l'uomo continua imperterrito ad appalesarsi sulle spiagge italiane, ben dotato di abbronzatura, bermuda e braccialetti d'ordinanza, come un Costantino Vitagliano qualsiasi. E noi, sempre attenti alla sobrietà e morigeratezza dei costumi nel nostro Paese, tutto ciò non lo possiamo accettare. Anche perché costui, in ispiaggia, si intrattiene in sospetti conversari con dei negri probabilmente clandestini.
E' oramai chiaro il complotto che la Terza Carica ha intessuto per tendere l'ennesima trappola al nostro Premier, proprio nel momento in cui la legislatura stava entrando nella fase più fattiva delle indispensabili riforme.
Un'invidia incontrollabile verso l'uomo di successo che si è fatto da sé e il timore di scomparire dietro altre figure che acquisivano sempre maggiore importanza, provenienti dalla parte d'Italia più operosa e produttiva, ha gettato quest'uomo fra le braccia dei suoi degni compari democristiani: quel Casini campione di doppiezza, quel Rutelli, evanescente cicciobello, e il montezemolato latore dell'eterna promessa di una discesa in campo, nella quale non crede più neppur egli stesso.
Date le premesse, è inevitabile per noi reiterare l'invito alle dimissioni prima che Gianfranco Fini diventi il campione definitivo di una sinistra che, priva di riferimenti com' è oggi, razzola in qualunque cortile pur di trovare il proprio simbolo vincente.
Cari lettori, in conclusione capirete che la questione è scottante, passandoci di mezzo: una schedina del Superenalotto, alcune proprietà immobiliari e su, su, fino a rosee prospettive di carriera nell'Azienda televisiva di Stato.
Abbiate fiducia: non ci fermeremo dinanzi a niente.
Vittorio Feltri
Il Ficarulu e perché deve dimettersi.
Cari lettori, è inutile che vi spieghi in dettaglio la questione di cui siete ben a conoscenza circa l'inganno che la Terza Carica dello Stato ha perpetrato ai danni del suo Paese. E' quindi inutile che vi racconti la storia dapprincipio, da quando cioè fummo i primi, insieme a Dagospia, a scoperchiare il pentolone di questa miseria tutta italiana.
Come ebbe a testimoniarci da queste colonne quel galantuomo di Vittorio Sgarbi, la protagonista di questa vicenda è una ragazza priva di qualunque interesse venale. La sua storia parla per lei: solo una donna che ha saputo spaziare tra poli opposti del gusto maschile (dal grasso imprenditore di successo al Fine politico) avrebbe potuto destare l'interesse di quest'estate sonnacchiosa e altrimenti priva di eventi degni di nota.
D'altra parte non avremmo manifestato un interesse così attento se non fossimo stati certi di riuscire ad agguantare le prove inconfutabili della menzogna e del tradimento posto in atto in ispregio alla memoria di una nobile e generosa donna, la cui unica leggerezza è stata quella di affidare parte del proprio patrimonio in mani credute specchiate e poi rivelatesi rapaci.
E non poteva esistere prova più lampante della la fattura emessa dal prestigioso mobilificio presso il quale i nostri, indubbiamente amanti del bello e del gusto, si sono rivolti per arredare il loro tinello -pardon- nido d'amore.
Abbiamo interrogato testimoni su testimoni, molti dei quali spaventati dal nostro senso di responsabilità e di amore per il vero si sono affrettati a smentire quelle che fino a poche ore prima erano limpide testimonianze. Del resto noi non abbiamo mai sbagliato un colpo: e ce ne avete sempre dato atto. Anche stavolta ci seguite, come dimostrano le centinaia di migliaia di firme che abbiamo raccolto per sollecitare le dimissioni d'un uomo che non merita più la fiducia del Paese e dei suoi elettori.
Non vi ribadirò ancora una volta le domande che gli abbiamo posto e alle quali ancor oggi attendiamo un riscontro: l'appartamento aveva o non aveva un bagno di servizio? L'armadio era un quattro stagioni di Aiazzone? Chi stirava la biancheria? C'era l'ADSL?
Anziché dipanare questi misteri, l'uomo continua imperterrito ad appalesarsi sulle spiagge italiane, ben dotato di abbronzatura, bermuda e braccialetti d'ordinanza, come un Costantino Vitagliano qualsiasi. E noi, sempre attenti alla sobrietà e morigeratezza dei costumi nel nostro Paese, tutto ciò non lo possiamo accettare. Anche perché costui, in ispiaggia, si intrattiene in sospetti conversari con dei negri probabilmente clandestini.
E' oramai chiaro il complotto che la Terza Carica ha intessuto per tendere l'ennesima trappola al nostro Premier, proprio nel momento in cui la legislatura stava entrando nella fase più fattiva delle indispensabili riforme.
Un'invidia incontrollabile verso l'uomo di successo che si è fatto da sé e il timore di scomparire dietro altre figure che acquisivano sempre maggiore importanza, provenienti dalla parte d'Italia più operosa e produttiva, ha gettato quest'uomo fra le braccia dei suoi degni compari democristiani: quel Casini campione di doppiezza, quel Rutelli, evanescente cicciobello, e il montezemolato latore dell'eterna promessa di una discesa in campo, nella quale non crede più neppur egli stesso.
Date le premesse, è inevitabile per noi reiterare l'invito alle dimissioni prima che Gianfranco Fini diventi il campione definitivo di una sinistra che, priva di riferimenti com' è oggi, razzola in qualunque cortile pur di trovare il proprio simbolo vincente.
Cari lettori, in conclusione capirete che la questione è scottante, passandoci di mezzo: una schedina del Superenalotto, alcune proprietà immobiliari e su, su, fino a rosee prospettive di carriera nell'Azienda televisiva di Stato.
Abbiate fiducia: non ci fermeremo dinanzi a niente.
Vittorio Feltri
Guardare avanti
Ieri Veltroni ha scritto la sua lettera, e Bordone l'ha commentata punto per punto da par suo. L'avrei fatto anch'io, ne avevo voglia: ma sependo che Matteo ci sarebbe riuscito molto meglio di quanto io non avrei potuto fare, ho preferito limitarmi a scrivere un'altra lettera (a dire il vero si tratta di una cosa fatta a due mani, ma vabbe').
Insomma, ci siamo divertiti un po', e ringraziamo per questo l'Innominabile. Ora però è il momento di diventare seri.
Quella lettera al Corriere dimostra una serie di cose. Anzitutto, che Veltroni è malato. Grave.
Si chiama psicosi quel disturbo psichiatrico che, per prendere la definizione di Wikipedia, comporta alterazioni del flusso ideativo fino alla fuga delle idee e all'incoerenza, alterazioni dei nessi associativi come la tangenzialità, le risposte di traverso, i salti di palo in frasca. E ditemi voi se in una frase come "quasi sessanta [governi] in cinquanta anni, come l'andamento del debito pubblico testimonia in modo agghiacciante" non si riscontra una grave alterazione del senso associativo; se "senza Berlusconi in Italia potremo finalmente avere un vero bipolarismo" non dimostra incoerenza; se "sono stato tra i pochi che si sono fatti da parte davvero (caricandomi responsabilità certo non solo mie)" non dimostra tangenzialità e se, infine, "se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremmo noi a guidare il Paese" non dimostra fuga disperata delle idee.
La lettera inoltre dimostra, anzi conferma, ciò che sappiamo da tempo: che il Puffo Triste è un mago nell'uso degli aggettivi e degli avverbi; peccato che la lettera sia piena solo di quelli, mentre difetti drammaticamente di sostantivi e predicati. Non un solo concetto, ha espresso il meschino. Aria fritta: condita con aromi tropicali, ma pur sempre aria fritta.
Perché questo pippone, vi starete chiedendo: semplice: perché una cosa è necessario ricordarla, in ogni momento che Dio ci concede su questa terra; una cosa dev'essere il nostro ultimo pensiero prima di andare a letto e il primo quando ci svegliamo.
Noi abbiamo rischiato (poco, ma abbiamo rischiato) di essere governati da Valter Weltroni. Concentratevi bene su questa frase: governati da Walter Veltroni. Grazie al perverso meccanismo maggioritario-bipolare, del quale non a caso Veltroni è uno dei maggiori sostenitori e che fosse per lui avrebbe inasprito, abbiamo rischiato di trovarci per anni in balìa di un folle psicopatico. Uno che avrebbe affrontato la crisi economica a colpi di aggettivazioni suadenti.
Uno che di fronte al terremoto dell'Aquila avrebbe inviato casse di libri, con l'effetto che ben conosce chi abbia visto La Grande Illusion o abbia letto il Don Chisciotte.
Io, lo dico con franchezza e sapendo che alcuni leggendomi troveranno una conferma dell'opinione, sbagliata, che hanno di me, sono F.E.L.I.C.E che a Palazzo Chigi ci sia Berlusconi. Che sarà pure un ladro, un truffatore, un mezzo mafioso, e magari potrebbe anche essere un pedofilo e uno spacciatore di crack. Ma non è un cretino.
E se devo farmi governare da qualcuno, preferisco di gran lunga un brigante che un cretino: perché il brigante fa gli interessi suoi e poi, magari, in fondo in fondo, una volta messosi al sicuro, farà anche i miei e quelli della collettività. Un cretino, invece, è capace solo di fare del male a sé stesso e a tutti gli altri.
Quando ci saranno nuove elezioni; quando si discuterà di nuove leggi elettorale, ricordatevi senpre cosa vuol dire bipolarismo o bipartitismo: ricordate sempre che il maggioritario rischia di obbligarvi a scegliere tra Berlusconi e Veltroni. Se lo farete, rabbrividerete come me e vi augurerete il ritorno al proporzionale più puro.
Insomma, ci siamo divertiti un po', e ringraziamo per questo l'Innominabile. Ora però è il momento di diventare seri.
Quella lettera al Corriere dimostra una serie di cose. Anzitutto, che Veltroni è malato. Grave.
Si chiama psicosi quel disturbo psichiatrico che, per prendere la definizione di Wikipedia, comporta alterazioni del flusso ideativo fino alla fuga delle idee e all'incoerenza, alterazioni dei nessi associativi come la tangenzialità, le risposte di traverso, i salti di palo in frasca. E ditemi voi se in una frase come "quasi sessanta [governi] in cinquanta anni, come l'andamento del debito pubblico testimonia in modo agghiacciante" non si riscontra una grave alterazione del senso associativo; se "senza Berlusconi in Italia potremo finalmente avere un vero bipolarismo" non dimostra incoerenza; se "sono stato tra i pochi che si sono fatti da parte davvero (caricandomi responsabilità certo non solo mie)" non dimostra tangenzialità e se, infine, "se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremmo noi a guidare il Paese" non dimostra fuga disperata delle idee.
La lettera inoltre dimostra, anzi conferma, ciò che sappiamo da tempo: che il Puffo Triste è un mago nell'uso degli aggettivi e degli avverbi; peccato che la lettera sia piena solo di quelli, mentre difetti drammaticamente di sostantivi e predicati. Non un solo concetto, ha espresso il meschino. Aria fritta: condita con aromi tropicali, ma pur sempre aria fritta.
Perché questo pippone, vi starete chiedendo: semplice: perché una cosa è necessario ricordarla, in ogni momento che Dio ci concede su questa terra; una cosa dev'essere il nostro ultimo pensiero prima di andare a letto e il primo quando ci svegliamo.
Noi abbiamo rischiato (poco, ma abbiamo rischiato) di essere governati da Valter Weltroni. Concentratevi bene su questa frase: governati da Walter Veltroni. Grazie al perverso meccanismo maggioritario-bipolare, del quale non a caso Veltroni è uno dei maggiori sostenitori e che fosse per lui avrebbe inasprito, abbiamo rischiato di trovarci per anni in balìa di un folle psicopatico. Uno che avrebbe affrontato la crisi economica a colpi di aggettivazioni suadenti.
Uno che di fronte al terremoto dell'Aquila avrebbe inviato casse di libri, con l'effetto che ben conosce chi abbia visto La Grande Illusion o abbia letto il Don Chisciotte.
Io, lo dico con franchezza e sapendo che alcuni leggendomi troveranno una conferma dell'opinione, sbagliata, che hanno di me, sono F.E.L.I.C.E che a Palazzo Chigi ci sia Berlusconi. Che sarà pure un ladro, un truffatore, un mezzo mafioso, e magari potrebbe anche essere un pedofilo e uno spacciatore di crack. Ma non è un cretino.
E se devo farmi governare da qualcuno, preferisco di gran lunga un brigante che un cretino: perché il brigante fa gli interessi suoi e poi, magari, in fondo in fondo, una volta messosi al sicuro, farà anche i miei e quelli della collettività. Un cretino, invece, è capace solo di fare del male a sé stesso e a tutti gli altri.
Quando ci saranno nuove elezioni; quando si discuterà di nuove leggi elettorale, ricordatevi senpre cosa vuol dire bipolarismo o bipartitismo: ricordate sempre che il maggioritario rischia di obbligarvi a scegliere tra Berlusconi e Veltroni. Se lo farete, rabbrividerete come me e vi augurerete il ritorno al proporzionale più puro.
martedì 24 agosto 2010
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Questo blog si onora di aver ricevuto in anteprima la lettera di una delle più lucide menti del nostro Paese, che verrà pubblicata domani sul prestigioso New York Times. E' con malcelato orgoglio che la condivido con i miei lettori.
Dear Director, my friend,
ti chiedo ospitalità sulle colonne di questo tuo prestigioso e libero giornale per rivolgermi a quella parte del mio Paese onesta e integra che vede come metà del proprio lavoro di un anno non riesca a finanziare un progetto semplice e banale come il Ponte sullo Stretto di Messina. A quella parte del mio Paese che si chiede come mai non si riesca ad organizzare un Festival del Cinema degno di questo nome.
Scrivo a quella parte buona e operosa del mio Paese che ancor oggi rimpiange i tempi in cui vigeva un sano e dialettico confronto tra coloro che possedevano la figu di Pizzaballa e coloro che ancora la stavano cercando.
Scrivo perché Io ho pieno titolo per farlo da queste pagine, perché solo due anni fa ben 14 milioni di Italiani mi hanno votato. Eppure ho perso: se invece avessi vinto, in questo momento Berlusconi non governerebbe il Paese. Molti sono i motivi per cui ciò non è successo. Per cominciare da quel milione e mezzo di italiani che inspiegabilmente hanno preferito votare il principale esponente dello schieramento a me avverso, come se le elezioni politiche fossero il televoto di una trasmissione della TV-spazzatura.
La colpa non è degli Italiani (ma chi sono gli Italiani?), ma di chi ha portato il Paese allo sfarinamento dei più solidi valori e alla disgregazione di un moderno e maturo bipolarismo. Mentre stanno per essere messe in circolo emissioni consistenti di titoli pubblici per finanziare il nostro abnorme debito, il Partito che Io ho creato sembra immerso nello scenario dei "Dieci Ragazzi Per Me Posson Bastare" di Lucio Battisti.
Dario Franceschini, Rosi Bindi, Carletto Ancelotti, Pippo Civati, Debora Serracchiani, Veronica Lario, Enrico Mentana, Elio Germano. Nel corso degli ultimi due anni gli Italiani hanno creduto in tutte queste figure limpide e democratiche, e nonostante ciò non siamo riusciti a resistere alla pressione delle spinte populistiche e degli ideologismi di varia natura, malgrado Io mi sia avvalso anche dell'aiuto delle facce più nuove e migliori del Paese quali, ad esempio, Jovanotti, Marianna Madia, Nicola Piovani. e Tonino Guerra. Per non parlare dei miei cinquemila amici di Facebook e del nobile Circolo dei Mille.
Se ci fosse un semipresidenzialismo Berlusconi rafforzerebbe il sistema livido che ci governa, mentre Io sarei più propenso a sponsorizzare una Repubblica acefala che ascolta e decide.
La minaccia di un «regime autoritario» di stampo russo o cinese si fa sempre più concreta, portando con sé un principio di disunità che reclama poteri centrali forti e semplificati, come ben hanno anticipato le analisi di John Le Carrè le "Il Sarto di Panama" e il mio amico Woody Allen in "Crimini e Misfatti".
Tutto ciò ci allontana da quei valori liberal, democratici e nuovi che hanno fatto sì che Io fossi considerato, nel mio Paese, come l'"Obama bianco" anche se ad esser sincero mi sento più vicino al modello di Jed Bartlet, ma più colto e introspettivo.
Per realizzare questo mio progetto avevo designato anche il McGarry italiano: un uomo vincente non solo per la sua stazza, che mi ha condotto a intraprendere scelte innovative e coraggiose ma anche semplificazioni e alleggerimenti.
Le culture di progresso fanno correre un Paese come un cavallo che salta l'ostacolo. Un Paese ricco di cultura, arte, pensiero elevato. Un Paese di Santi, di Eroi, di Navigatori, di Trasmigratori. Non è retorica.
Berlusconi è stato un limite drammatico per il bipolarismo, perché mi ha impedito di scegliermi a piacimento l'avversario che preferivo. Senza di lui avrei vinto ed avrei costruito una politica più ferma ma anche più decisionale. Certo, non avrei scritto alcuni dei migliori romanzi di questo scorcio di millennio e non avrei potuto comperar casa nel vostro libero e moderno Paese, ma avrei dato alla democrazia la capacità di guidare davvero la società italiana.
Quest'estate torrida mi ha visto combattere da solo, anzitutto perché ho rifiutato con serenità e pacatezza tutti i prestigiosi incarichi che mi sono stati offerti, e in secondo luogo perché non ho trovato alleanze credibili e all'altezza del mio progetto d'imporre per legge le visite guidate alla Cappella Palatina di Palermo e alla galleria di Diana di Venaria Reale. Io stesso, del resto, quando ero Sindaco di Roma amavo far affacciare al balconcino del mio ufficio gli ospiti che venivano nella Città Eterna apposta per trovarmi, mostrando loro lo splendore millenario dei Fori Imperiali, che solo per un azzardo del destino non ho potuto costruire Io stesso.
Il nostro Paese non può essere dominato da passioni tristi, e del resto, come tutti sanno, Io triste non lo sono affatto.
Take care,
Walter Veltroni.
Dear Director, my friend,
ti chiedo ospitalità sulle colonne di questo tuo prestigioso e libero giornale per rivolgermi a quella parte del mio Paese onesta e integra che vede come metà del proprio lavoro di un anno non riesca a finanziare un progetto semplice e banale come il Ponte sullo Stretto di Messina. A quella parte del mio Paese che si chiede come mai non si riesca ad organizzare un Festival del Cinema degno di questo nome.
Scrivo a quella parte buona e operosa del mio Paese che ancor oggi rimpiange i tempi in cui vigeva un sano e dialettico confronto tra coloro che possedevano la figu di Pizzaballa e coloro che ancora la stavano cercando.
Scrivo perché Io ho pieno titolo per farlo da queste pagine, perché solo due anni fa ben 14 milioni di Italiani mi hanno votato. Eppure ho perso: se invece avessi vinto, in questo momento Berlusconi non governerebbe il Paese. Molti sono i motivi per cui ciò non è successo. Per cominciare da quel milione e mezzo di italiani che inspiegabilmente hanno preferito votare il principale esponente dello schieramento a me avverso, come se le elezioni politiche fossero il televoto di una trasmissione della TV-spazzatura.
La colpa non è degli Italiani (ma chi sono gli Italiani?), ma di chi ha portato il Paese allo sfarinamento dei più solidi valori e alla disgregazione di un moderno e maturo bipolarismo. Mentre stanno per essere messe in circolo emissioni consistenti di titoli pubblici per finanziare il nostro abnorme debito, il Partito che Io ho creato sembra immerso nello scenario dei "Dieci Ragazzi Per Me Posson Bastare" di Lucio Battisti.
Dario Franceschini, Rosi Bindi, Carletto Ancelotti, Pippo Civati, Debora Serracchiani, Veronica Lario, Enrico Mentana, Elio Germano. Nel corso degli ultimi due anni gli Italiani hanno creduto in tutte queste figure limpide e democratiche, e nonostante ciò non siamo riusciti a resistere alla pressione delle spinte populistiche e degli ideologismi di varia natura, malgrado Io mi sia avvalso anche dell'aiuto delle facce più nuove e migliori del Paese quali, ad esempio, Jovanotti, Marianna Madia, Nicola Piovani. e Tonino Guerra. Per non parlare dei miei cinquemila amici di Facebook e del nobile Circolo dei Mille.
Se ci fosse un semipresidenzialismo Berlusconi rafforzerebbe il sistema livido che ci governa, mentre Io sarei più propenso a sponsorizzare una Repubblica acefala che ascolta e decide.
La minaccia di un «regime autoritario» di stampo russo o cinese si fa sempre più concreta, portando con sé un principio di disunità che reclama poteri centrali forti e semplificati, come ben hanno anticipato le analisi di John Le Carrè le "Il Sarto di Panama" e il mio amico Woody Allen in "Crimini e Misfatti".
Tutto ciò ci allontana da quei valori liberal, democratici e nuovi che hanno fatto sì che Io fossi considerato, nel mio Paese, come l'"Obama bianco" anche se ad esser sincero mi sento più vicino al modello di Jed Bartlet, ma più colto e introspettivo.
Per realizzare questo mio progetto avevo designato anche il McGarry italiano: un uomo vincente non solo per la sua stazza, che mi ha condotto a intraprendere scelte innovative e coraggiose ma anche semplificazioni e alleggerimenti.
Le culture di progresso fanno correre un Paese come un cavallo che salta l'ostacolo. Un Paese ricco di cultura, arte, pensiero elevato. Un Paese di Santi, di Eroi, di Navigatori, di Trasmigratori. Non è retorica.
Berlusconi è stato un limite drammatico per il bipolarismo, perché mi ha impedito di scegliermi a piacimento l'avversario che preferivo. Senza di lui avrei vinto ed avrei costruito una politica più ferma ma anche più decisionale. Certo, non avrei scritto alcuni dei migliori romanzi di questo scorcio di millennio e non avrei potuto comperar casa nel vostro libero e moderno Paese, ma avrei dato alla democrazia la capacità di guidare davvero la società italiana.
Quest'estate torrida mi ha visto combattere da solo, anzitutto perché ho rifiutato con serenità e pacatezza tutti i prestigiosi incarichi che mi sono stati offerti, e in secondo luogo perché non ho trovato alleanze credibili e all'altezza del mio progetto d'imporre per legge le visite guidate alla Cappella Palatina di Palermo e alla galleria di Diana di Venaria Reale. Io stesso, del resto, quando ero Sindaco di Roma amavo far affacciare al balconcino del mio ufficio gli ospiti che venivano nella Città Eterna apposta per trovarmi, mostrando loro lo splendore millenario dei Fori Imperiali, che solo per un azzardo del destino non ho potuto costruire Io stesso.
Il nostro Paese non può essere dominato da passioni tristi, e del resto, come tutti sanno, Io triste non lo sono affatto.
Take care,
Walter Veltroni.
Meglio 'nu mal'accordo ca 'na causa vinciuta
Una delle prime udienze di verifica del passivo a cui partecipai, quasi vent'anni fa, ebbe luogo a Napoli. Il Giudice Delegato era uno con la faccia da paracadutista, il pizzetto alla Italo Balbo, e gli mancava solo il calamaio ricavato da una granata inesplosa per somigliare in tutto e per tutto all'ardito di fronte al quale Sordi e Gassman, nella Grande Guerra, si contendono l'ultimo posto mancante nella squadra degli incursori.
Alle spalle aveva l'intera collezione dei calendari dei Carabinieri, e sapevo che pochi giorni prima aveva sbattuto dentro un collega di un'altra banca per concorso in bancarotta fraudolenta, in una vicenda nella quale il poveretto non aveva alcuna colpa se non quella di non essere stato oltremodo prudente.
Uno tosto, insomma. Eppure alle sue spalle non campeggiavano massime morali edificanti né era appesa una giustizia con la spada sguainata: c'era invece un cartello, forse addirittura una fotocopia, che recitava "Meglio 'nu mal'accordo ca 'na causa vinciuta".
E' questo un detto napoletano ben noto, ma potete immaginare la mia sorpresa nel trovarlo nella stanza di un giudice, e di un giudice di quella fatta, per giunta! Eppure, come ebbi a imparare negli anni successivi, tale motto in Italia risponde tragicamente al vero.
I tempi delle giustizia; l'alea delle decisioni; la contradditorietà di molte leggi, che in un punto dicono una cosa e nell'altra il suo contrario, obbligando l'interprete ad astrusi castelli logici; l'assenza di un sistema efficace per il ristoro delle spese legali sostenute dal vincitore della controversia: tutto ciò fa sì che sia di gran lunga meglio, per chi viene chiamato in giudizio ed ha la matematica certezza delle proprie ragioni, addivenire ad un accordo rimettendoci un po' del suo piuttosto che dover affrontare tutti i gradi giurisdizionali.
Tutte queste cose Repubblica le conosce benissimo; e ciononostante ha continuato a battere la grancassa della legge ad aziendam, dapprima con i giornalisti veri e propri, poi facendo intervenire gli intellettuali scandalizzati (e se voi immaginaste quanto mi fa ridere l'idea di un intellettuale che dapprima si scandalizza e poi va allo Strega, come concorrente o come giurato!), ed infine con le lettere dei lettori.
Una delle principali questioni che vengono aperte è: "perché la Mondadori, se è tanto certa di aver ragione, dopo aver vinto due volte non affronta anche il terzo grado di giudizio e preferisce pagare otto milioni?". Noterete l'aporia: dapprima si accusa Mondadori di aver truffato l'Erario grazie al suo mero proprietario, per risparmiare un mare di soldi; dopodiché la si accusa per aver pagato anziché resistere in giudizio.
Non parliamo poi della rete: Francesco Costa ha avuto la cortesia di citare in un suo post i miei pezzi, e ha dovuto sopportare con stoica pazienza un dialogo con lettori che dimostravano o di non essere riusciti a leggere il suo e i miei post, o di non essere riusciti a capire quel che avevano letto, in quanto costantemente sfuggivano dalla questione, unica, di cui stiamo parlando: vale a dire dello stato della causa pendente.
Provo allora, ancora una volta, a riassumere per punti schematici la questione, in un supremo sforzo di chiarezza.
A) la Mondadori aveva in essere con il Fisco un contenzioso da centinaia di milioni;
B) Mondadori ha vinto il contenzioso nei due gradi di giudizio finora svoltisi;
C) l'Erario è ricorso per Cassazione;
D) Mondadori ha chiuso la questione pagando il 5% del valore della causa;
E) in astratto, il 5% corrisponde alla probabilità di vittoria di una parte in Cassazione dopo aver perso nei due precedenti gradi di giudizio;
F) per tale motivo, sempre in astratto, una transazione al 5% nell'ultimo grado di giudizio fa parte della comune prassi commerciale tra imprenditori e in genere tra soggetti privati;
G) l'Erario non segue la prassi che seguono i privati, per una serie di motivi tra i quali, principalmente, a) il fatto che approvare una transazione potrebbe comportare una responsabilità amministrativa del funzionario pubblico e persino un'accusa di peculato, corruzione o concussione e b) il fatto che le spese del giudizio non sono sostenute dal soggetto che decide di ricorrere, bensì dal pubblico c) il pubblico funzionario, piuttosto che rischiare un'accusa amministrativa o penale, le cui spese pagherebbe di tasca propria anche in caso di assoluzione, preferisce di gran lunga non decidere nulla e quindi andare aventi nei giudizi, anche i più campati in aria, facendone pagare le spese allo Stato;
H) il Governo Berlusconi ha approvato una legge che in questo caso specifico elimina la discrezionalità del funzionario pubblico e quindi consente una sorta di transazione obbligatoria a richiesta di parte;
I) Berlusconi è il capo del Governo ed è il (mero) proprietario di Mondadori.
Stringi stringi, la questione è tutta in quella (I), e non negli altri punti. Se il contenzioso con il fisco fosse stato chiuso da De Benedetti, certo nessuno (salvo forse Feltri, ma lui è profumatamente pagato per farlo) si sarebbe scagliato contro di lui. Ma dato che il contenzioso è sato chiuso da un'azienda di Berlusconi, ecco che scoppia il can can: la legge è una vergogna perché ha consentito ad un'azienda di Berlusconi di cavarsela. La legge è una vergogna perché è la dimostrazione palmare del conflitto d'interessi.
E' un atteggiamento stupido.
Le leggi vanno valutate anzitutto per quel che sono, e solo dopo per gli eventuali vantaggi che qualcuno ne può trarre. La legge sulla definizione dei contenziosi fiscali è una buona legge, perché consente a tante imprese vessate dal fisco (l'essere state vessate è dimostrato dalla soccombenza del'Erario nei giudizi di merito) di chiudere la partita e sistemare i propri bilanci, affrontando la crisi con maggiore tranquillità. La legge sul processo breve è una pessima legge perché non risolve uno solo dei problemi della giustizia penale ma ha come unico effetto un'amnistia indiscriminata e di fatto per i soggetti che possono permettersi i migliori difensori.
Sia la legge sul contenzioso fiscale che quella sul processo breve convengono a Berlusconi. Ma se l'una è una buona legge, e l'altra una pessima legge, è profondamente sbagliato fare di tutt'un'erba un fascio e scagliarsi contro entrambe. In primo luogo, perché si annacqua l'opposizione a Berlusconi in una sorta di notte in cui tutti i gatti sono bigi, e in secondo luogo perché ciò è costituzionalmente sbagliato.
E' evidente che Berlusconi ha interessi ovunque. Ma la Costituzione afferma che Berlusconi ha il diritto di elettorato attivo e passivo: può votare, può fare il parlamentare, il capo del governo e persino il presidente della repubblica.
In astratto è certo possibile disciplinare con una legge le situazioni di "conflitto d'interesse", ma attualmente così non è, ed è del tutto cretino pensare che l'attività di Governo dell'Italia di oggi debba essere improntata al rispetto di una legge che non esiste e che neppure il Governo di orientamento politico opposto a Berlusconi ha messo in cantiere.
Si può versare un oceano d'inchiostro per descrivere come dovrebbe essere fatta una legge di questo genere; ma finché non sarà stata approvata dai due rami del Parlamento e firmata dal Presidente della Repubblica, Berlusconi e il suo governo devono governare producendo buone norme.
Quella sul contenzioso fiscale è una norma buona, e pertanto dovrebbe essere fatto, per una volta, un plauso al governo che l'ha proposta e fatta approvare, riservando i fischi, le paginate di intellettuali e le manifestazioni di piazza ai disegni di legge cattivi, che non mancano di certo.
Alle spalle aveva l'intera collezione dei calendari dei Carabinieri, e sapevo che pochi giorni prima aveva sbattuto dentro un collega di un'altra banca per concorso in bancarotta fraudolenta, in una vicenda nella quale il poveretto non aveva alcuna colpa se non quella di non essere stato oltremodo prudente.
Uno tosto, insomma. Eppure alle sue spalle non campeggiavano massime morali edificanti né era appesa una giustizia con la spada sguainata: c'era invece un cartello, forse addirittura una fotocopia, che recitava "Meglio 'nu mal'accordo ca 'na causa vinciuta".
E' questo un detto napoletano ben noto, ma potete immaginare la mia sorpresa nel trovarlo nella stanza di un giudice, e di un giudice di quella fatta, per giunta! Eppure, come ebbi a imparare negli anni successivi, tale motto in Italia risponde tragicamente al vero.
I tempi delle giustizia; l'alea delle decisioni; la contradditorietà di molte leggi, che in un punto dicono una cosa e nell'altra il suo contrario, obbligando l'interprete ad astrusi castelli logici; l'assenza di un sistema efficace per il ristoro delle spese legali sostenute dal vincitore della controversia: tutto ciò fa sì che sia di gran lunga meglio, per chi viene chiamato in giudizio ed ha la matematica certezza delle proprie ragioni, addivenire ad un accordo rimettendoci un po' del suo piuttosto che dover affrontare tutti i gradi giurisdizionali.
Tutte queste cose Repubblica le conosce benissimo; e ciononostante ha continuato a battere la grancassa della legge ad aziendam, dapprima con i giornalisti veri e propri, poi facendo intervenire gli intellettuali scandalizzati (e se voi immaginaste quanto mi fa ridere l'idea di un intellettuale che dapprima si scandalizza e poi va allo Strega, come concorrente o come giurato!), ed infine con le lettere dei lettori.
Una delle principali questioni che vengono aperte è: "perché la Mondadori, se è tanto certa di aver ragione, dopo aver vinto due volte non affronta anche il terzo grado di giudizio e preferisce pagare otto milioni?". Noterete l'aporia: dapprima si accusa Mondadori di aver truffato l'Erario grazie al suo mero proprietario, per risparmiare un mare di soldi; dopodiché la si accusa per aver pagato anziché resistere in giudizio.
Non parliamo poi della rete: Francesco Costa ha avuto la cortesia di citare in un suo post i miei pezzi, e ha dovuto sopportare con stoica pazienza un dialogo con lettori che dimostravano o di non essere riusciti a leggere il suo e i miei post, o di non essere riusciti a capire quel che avevano letto, in quanto costantemente sfuggivano dalla questione, unica, di cui stiamo parlando: vale a dire dello stato della causa pendente.
Provo allora, ancora una volta, a riassumere per punti schematici la questione, in un supremo sforzo di chiarezza.
A) la Mondadori aveva in essere con il Fisco un contenzioso da centinaia di milioni;
B) Mondadori ha vinto il contenzioso nei due gradi di giudizio finora svoltisi;
C) l'Erario è ricorso per Cassazione;
D) Mondadori ha chiuso la questione pagando il 5% del valore della causa;
E) in astratto, il 5% corrisponde alla probabilità di vittoria di una parte in Cassazione dopo aver perso nei due precedenti gradi di giudizio;
F) per tale motivo, sempre in astratto, una transazione al 5% nell'ultimo grado di giudizio fa parte della comune prassi commerciale tra imprenditori e in genere tra soggetti privati;
G) l'Erario non segue la prassi che seguono i privati, per una serie di motivi tra i quali, principalmente, a) il fatto che approvare una transazione potrebbe comportare una responsabilità amministrativa del funzionario pubblico e persino un'accusa di peculato, corruzione o concussione e b) il fatto che le spese del giudizio non sono sostenute dal soggetto che decide di ricorrere, bensì dal pubblico c) il pubblico funzionario, piuttosto che rischiare un'accusa amministrativa o penale, le cui spese pagherebbe di tasca propria anche in caso di assoluzione, preferisce di gran lunga non decidere nulla e quindi andare aventi nei giudizi, anche i più campati in aria, facendone pagare le spese allo Stato;
H) il Governo Berlusconi ha approvato una legge che in questo caso specifico elimina la discrezionalità del funzionario pubblico e quindi consente una sorta di transazione obbligatoria a richiesta di parte;
I) Berlusconi è il capo del Governo ed è il (mero) proprietario di Mondadori.
Stringi stringi, la questione è tutta in quella (I), e non negli altri punti. Se il contenzioso con il fisco fosse stato chiuso da De Benedetti, certo nessuno (salvo forse Feltri, ma lui è profumatamente pagato per farlo) si sarebbe scagliato contro di lui. Ma dato che il contenzioso è sato chiuso da un'azienda di Berlusconi, ecco che scoppia il can can: la legge è una vergogna perché ha consentito ad un'azienda di Berlusconi di cavarsela. La legge è una vergogna perché è la dimostrazione palmare del conflitto d'interessi.
E' un atteggiamento stupido.
Le leggi vanno valutate anzitutto per quel che sono, e solo dopo per gli eventuali vantaggi che qualcuno ne può trarre. La legge sulla definizione dei contenziosi fiscali è una buona legge, perché consente a tante imprese vessate dal fisco (l'essere state vessate è dimostrato dalla soccombenza del'Erario nei giudizi di merito) di chiudere la partita e sistemare i propri bilanci, affrontando la crisi con maggiore tranquillità. La legge sul processo breve è una pessima legge perché non risolve uno solo dei problemi della giustizia penale ma ha come unico effetto un'amnistia indiscriminata e di fatto per i soggetti che possono permettersi i migliori difensori.
Sia la legge sul contenzioso fiscale che quella sul processo breve convengono a Berlusconi. Ma se l'una è una buona legge, e l'altra una pessima legge, è profondamente sbagliato fare di tutt'un'erba un fascio e scagliarsi contro entrambe. In primo luogo, perché si annacqua l'opposizione a Berlusconi in una sorta di notte in cui tutti i gatti sono bigi, e in secondo luogo perché ciò è costituzionalmente sbagliato.
E' evidente che Berlusconi ha interessi ovunque. Ma la Costituzione afferma che Berlusconi ha il diritto di elettorato attivo e passivo: può votare, può fare il parlamentare, il capo del governo e persino il presidente della repubblica.
In astratto è certo possibile disciplinare con una legge le situazioni di "conflitto d'interesse", ma attualmente così non è, ed è del tutto cretino pensare che l'attività di Governo dell'Italia di oggi debba essere improntata al rispetto di una legge che non esiste e che neppure il Governo di orientamento politico opposto a Berlusconi ha messo in cantiere.
Si può versare un oceano d'inchiostro per descrivere come dovrebbe essere fatta una legge di questo genere; ma finché non sarà stata approvata dai due rami del Parlamento e firmata dal Presidente della Repubblica, Berlusconi e il suo governo devono governare producendo buone norme.
Quella sul contenzioso fiscale è una norma buona, e pertanto dovrebbe essere fatto, per una volta, un plauso al governo che l'ha proposta e fatta approvare, riservando i fischi, le paginate di intellettuali e le manifestazioni di piazza ai disegni di legge cattivi, che non mancano di certo.
domenica 22 agosto 2010
Rimangio la parola data
Avevo detto che non sarei tornato più sull'argomento Mondadori, ma sono costretto a rimangiarmi la parola data.
Oggi Repubblica pubblica l'ennesimo paginone su quella che il giornale di De Benedetti continua a chiamare legge ad aziendam. Il nuovo articolo non contiene niente di nuovo, e in particolare nulla ci dice né sulla natura del contenzioso tra l'editrice e il fisco, né sui motivi per i quali le sentenze di primo e secondo grado, favorevoli a Mondadori, sarebbero viziate e pertanto suscettibili di esser cassate né, infine, su eventuali indebite pressioni in forza delle quali si possa presupporre o anche solo sospettare che dette sentenze siano state pronunciate da collegi non imparziali.
Viene anche pubblicata, ed è questa la novità, una lettera di Mondadori che dice, in buona sostanza, esattamente ciò che io avevo ripetutamente affermato nei giorni scorsi: vale a dire che, avendo la società vinto in due gradi di giudizio, essa oggi nulla deve al fisco.
Risponde alla lettera Massimo Giannini, con poche righe che nuovamente brillano per ipocrisia.
Afferma, il Giannini, che la lettera doi Mondadori "non smentisce una sola riga della ricopstruzione fatta da Repubblica": e ciò è falso. E' falso perché il giornale ha sempre usato l'indicativo presente (Mondadori deve al fisco 350 milioni), mentre Mondadori afferma, e giustamente, di non dovere al fisco alcunché.
Si chiede poi, il Giannini, perché mai Mondadori, se è così certa del suo buon diritto, non abbia ritenuto preferibile affrontare il giudizio di Cassazione anziché pagare la bellezza di 8 milioni e rotti a fronte di un debito da lei affermato inesistente. La domanda è suggestiva, e capace di far presa sul lettore, ma anche qui Giannini, che è persona intelligente e preparata, bara sapendo di barare.
Io faccio da quasi vent'anni questo mestiere, e innumerevoli volte mi sono trovato a gestire cause passive: cause cioè intentate da terzi nei confronti della Banca per cui lavoro alla quale i terzi stessi hanno chiesto a vario titolo dei soldi. Ci sono stati alcuni casi in cui la Banca aveva torto, molti nei quali aveva ottime ragioni e svariati in cui ero assolutamente certo che la parte che rappresentavo avesse ragione al 100%. Ciononostante, anche in questi ultimi casi spesso io stesso ho proposto di transigere, pagando qualcosa. E' un comportamento del tutto normale per chi fa questo mestiere, e ci sono ottime ragioni per farlo.
L'alea del giudizio, anzitutto: un processo non è una corsa di cavalli, ma purtuttavia non è neppure un'espressione matematica della quale possa affermarsi con obiettiva certezza che il risultato è uno e uno solo, e che gli altri risultati sono sbagliati. Possono esserci revirements giurisprudenzali, come amiamo chiamarli, che cambiano le carte in tavola (è il caso, ad esempio, dell'anatocismo, che fino al 1999 è stato applicato nella più limpida buona fede e nella consapevolezza che fosse perfettamente legittimo, sulla scorta di una costante e cinquantennale giurisprudenza, e che a un tratto la Cassazione ha deciso non essere lecito).
C'è poi l'alea connaturata a qualunque evento futuro: nessuno avrebbe potuto pensare che l'Italia non vincesse contro la Nuova Zelanda, ma così è accaduto. Il futuro è incerto, per definizione: e anche se un evento ha una probabilità del 99% o del 95% di accadere, non si può non tener conto del residuo 1% o 5%.
Tenere aperta una causa, inoltre, è antieconomico. Per un privato ci sono le spese per gli avvocati, che non sono poca cosa; ma per una società quotata ci sono tutta una serie di adempimenti onerosi. I revisori dei conti pretendono di verificare trimestralmente lo stato della causa, chiedono spiegazioni e documenti. Nella nota integrativa di bilancio deve esser dato conto della pendenza della lite; e per importi di questo tipo gli analisti finanziari che studiano dall'estero gli andamenti del titolo devono valutare l'incidenza del rischio e apportare le correzioni da loro ritenute opportune al fine di riclassificare i dati patrimoniali per tenerne conto. Dato che questi analisti sono stranieri, essi non fanno -né si può pretendere che facciano, non avendo accesso alle carte- una valutazione analitica del rischio, e quindi applicano dei coefficienti forfettari di valutazione.
Né questi analisti possono prendera alla base della loro valutazione di rischio la congruità dell'accantonamento a bilancio: essendo società quotata, Mondadori è tenuta alla redazione del bilancio secondo gli standard IAS, il che significa che non può effettuare accantonamenti analitici in dipendenza di una causa passiva il cui esito sia ritenuto favorevole con probabilità superiore al 50%: e certo l'aver vinto in doppio grado di giudizio fa sì che la probabilità di vittoria nel giudizio di legittimità sia da ritenersi sicuramente superiore a detta percentuale.
Mondadori, insomma, ha fatto ciò che il Gruppo Editoriale L'Espresso, così come qualsiasi altro imprenditore avveduto, avrebbe fatto se si fosse trovato nella medesima situazione. Giannini fa notare che Mondadori ci si è trovata perché il Presidente del Consiglio ha voluto far approvare quella legge, il che è indubbiamente vero; ma altrettanto vero è che quella stessa legge è un'opportunità per la generalità delle aziende che si trovano a dover affrontare contenziosi portati avanti dal fisco al di là di qualunque ragionevolezza.
Vale la pena di rammentare che l'imprenditore che intraprende una causa campata in aria paga di tasca propria le spese, e quindi raramente dopo aver perso in due gradi di giudizio pensa a ricorrere in Cassazione (ciò succede solo in presenza di questioni di diritto veramente controverse, o in presenza di seri problemi caratteriali dell'attore): la probabilità di perdere ancora è enorme, e i costi pure.
Anche il fisco paga i costi dei ricorsi persi, ma non la fa di tasca propria il Direttore dell'Agenzia delle Entrate: i costi di quei ricorsi sno pagati dall'Erario, vale a dire da tutti noi, ed è per questo che l'Agenzia può permettersi di coltivare cause perse in partenza: perché i relativi costi gravano su tutti e quindi, in fondo, su nessuno in particolare che ne debba rispondere di persona.
Oggi Repubblica pubblica l'ennesimo paginone su quella che il giornale di De Benedetti continua a chiamare legge ad aziendam. Il nuovo articolo non contiene niente di nuovo, e in particolare nulla ci dice né sulla natura del contenzioso tra l'editrice e il fisco, né sui motivi per i quali le sentenze di primo e secondo grado, favorevoli a Mondadori, sarebbero viziate e pertanto suscettibili di esser cassate né, infine, su eventuali indebite pressioni in forza delle quali si possa presupporre o anche solo sospettare che dette sentenze siano state pronunciate da collegi non imparziali.
Viene anche pubblicata, ed è questa la novità, una lettera di Mondadori che dice, in buona sostanza, esattamente ciò che io avevo ripetutamente affermato nei giorni scorsi: vale a dire che, avendo la società vinto in due gradi di giudizio, essa oggi nulla deve al fisco.
Risponde alla lettera Massimo Giannini, con poche righe che nuovamente brillano per ipocrisia.
Afferma, il Giannini, che la lettera doi Mondadori "non smentisce una sola riga della ricopstruzione fatta da Repubblica": e ciò è falso. E' falso perché il giornale ha sempre usato l'indicativo presente (Mondadori deve al fisco 350 milioni), mentre Mondadori afferma, e giustamente, di non dovere al fisco alcunché.
Si chiede poi, il Giannini, perché mai Mondadori, se è così certa del suo buon diritto, non abbia ritenuto preferibile affrontare il giudizio di Cassazione anziché pagare la bellezza di 8 milioni e rotti a fronte di un debito da lei affermato inesistente. La domanda è suggestiva, e capace di far presa sul lettore, ma anche qui Giannini, che è persona intelligente e preparata, bara sapendo di barare.
Io faccio da quasi vent'anni questo mestiere, e innumerevoli volte mi sono trovato a gestire cause passive: cause cioè intentate da terzi nei confronti della Banca per cui lavoro alla quale i terzi stessi hanno chiesto a vario titolo dei soldi. Ci sono stati alcuni casi in cui la Banca aveva torto, molti nei quali aveva ottime ragioni e svariati in cui ero assolutamente certo che la parte che rappresentavo avesse ragione al 100%. Ciononostante, anche in questi ultimi casi spesso io stesso ho proposto di transigere, pagando qualcosa. E' un comportamento del tutto normale per chi fa questo mestiere, e ci sono ottime ragioni per farlo.
L'alea del giudizio, anzitutto: un processo non è una corsa di cavalli, ma purtuttavia non è neppure un'espressione matematica della quale possa affermarsi con obiettiva certezza che il risultato è uno e uno solo, e che gli altri risultati sono sbagliati. Possono esserci revirements giurisprudenzali, come amiamo chiamarli, che cambiano le carte in tavola (è il caso, ad esempio, dell'anatocismo, che fino al 1999 è stato applicato nella più limpida buona fede e nella consapevolezza che fosse perfettamente legittimo, sulla scorta di una costante e cinquantennale giurisprudenza, e che a un tratto la Cassazione ha deciso non essere lecito).
C'è poi l'alea connaturata a qualunque evento futuro: nessuno avrebbe potuto pensare che l'Italia non vincesse contro la Nuova Zelanda, ma così è accaduto. Il futuro è incerto, per definizione: e anche se un evento ha una probabilità del 99% o del 95% di accadere, non si può non tener conto del residuo 1% o 5%.
Tenere aperta una causa, inoltre, è antieconomico. Per un privato ci sono le spese per gli avvocati, che non sono poca cosa; ma per una società quotata ci sono tutta una serie di adempimenti onerosi. I revisori dei conti pretendono di verificare trimestralmente lo stato della causa, chiedono spiegazioni e documenti. Nella nota integrativa di bilancio deve esser dato conto della pendenza della lite; e per importi di questo tipo gli analisti finanziari che studiano dall'estero gli andamenti del titolo devono valutare l'incidenza del rischio e apportare le correzioni da loro ritenute opportune al fine di riclassificare i dati patrimoniali per tenerne conto. Dato che questi analisti sono stranieri, essi non fanno -né si può pretendere che facciano, non avendo accesso alle carte- una valutazione analitica del rischio, e quindi applicano dei coefficienti forfettari di valutazione.
Né questi analisti possono prendera alla base della loro valutazione di rischio la congruità dell'accantonamento a bilancio: essendo società quotata, Mondadori è tenuta alla redazione del bilancio secondo gli standard IAS, il che significa che non può effettuare accantonamenti analitici in dipendenza di una causa passiva il cui esito sia ritenuto favorevole con probabilità superiore al 50%: e certo l'aver vinto in doppio grado di giudizio fa sì che la probabilità di vittoria nel giudizio di legittimità sia da ritenersi sicuramente superiore a detta percentuale.
Mondadori, insomma, ha fatto ciò che il Gruppo Editoriale L'Espresso, così come qualsiasi altro imprenditore avveduto, avrebbe fatto se si fosse trovato nella medesima situazione. Giannini fa notare che Mondadori ci si è trovata perché il Presidente del Consiglio ha voluto far approvare quella legge, il che è indubbiamente vero; ma altrettanto vero è che quella stessa legge è un'opportunità per la generalità delle aziende che si trovano a dover affrontare contenziosi portati avanti dal fisco al di là di qualunque ragionevolezza.
Vale la pena di rammentare che l'imprenditore che intraprende una causa campata in aria paga di tasca propria le spese, e quindi raramente dopo aver perso in due gradi di giudizio pensa a ricorrere in Cassazione (ciò succede solo in presenza di questioni di diritto veramente controverse, o in presenza di seri problemi caratteriali dell'attore): la probabilità di perdere ancora è enorme, e i costi pure.
Anche il fisco paga i costi dei ricorsi persi, ma non la fa di tasca propria il Direttore dell'Agenzia delle Entrate: i costi di quei ricorsi sno pagati dall'Erario, vale a dire da tutti noi, ed è per questo che l'Agenzia può permettersi di coltivare cause perse in partenza: perché i relativi costi gravano su tutti e quindi, in fondo, su nessuno in particolare che ne debba rispondere di persona.
sabato 21 agosto 2010
Una repubblica presidenziale
Nei giorni scorsi abbiamo ferocemente criticato Repubblica per la campagna condotta a tambur battente sulle proprie pagine in relazione alla nuova normativa sulla definizione transattiva dei contenziosi fiscali giunti in Cassazione. Quelli di Repubblica hanno molta più pazienza di me e continuano a battere ogni giorno sullo stesso tasto, mentre io quel che avevo da dire l'ho già detto, per cui mi taccio.
Certo, questa insistenza, che non è stata ripresa da alcun altro organo d'informazione (e ciò per ammissione dello stesso giornale che conduce la battaglia), appare bizzarra: sembrerebbe quasi che il giornale di De Benedetti abbia dei propri conti in sospeso con la casa editrice che ora appartiene a Berlusconi; ma qui non samo andreottiani e non ci permettiamo di pensar male in quanto non sempre ci si indovina.
Per tranquillizzare i cinque lettori del blog, che potrebbero credere che anche io abbia una questione personale, ma con il quotidiano fondato da Scalfari, cambierò argomento e parlerò di un'altra questione che sta a cuore a Repubblica, tanto da avervi dedicato una corposa serie di articoli.
Come ben sapete, le truppe del PresConsMin da un po' di tempo affermano che in caso di rottura della maggioranza che attualmente sostiene il governo non si potrebbe che andare alle elezioni. La questione è stata avanzata da vari esponenti, variamente motivata e alcune volte ritrattata, anche a seguto degli interventi del Quirinale. Repubblica ha dedicato, come dicevo, ampio spazio ad articoli di illustri costituzionalisti che hanno spiegato con grande competenza perché la pretesa del PdL sia una fola che non sta né in cielo né in terra.
L'unico problema è che, a mio avviso, queste spiegazioni sono risultate un po' troppo tecniche, talché mentre appaiono del tutto chiare a una persona con una certa infarinatura di diritto costituzionale (e che perciostesso non ne avrebbe avuto bisogno), di contro possono risultare ostiche o fumose a chi nella vita si occupi di tutt'altro.
Secondo me è un peccato, dato che la spiegazione poteva essere fornita, a mio parere, anche in modo molto più semplice consentendo al grande pubblico di costruirsi meglio la propria opinione: per cui ci provo.
La tesi di Berlusconi e dei suoi portavoce è che con la nuova legge elettorale, che consente e anzi di fatto obbliga i partiti a costituire schieramenti e a designare un capo il cui nome viene indicato nella scheda elettorale, sia avvenuta una rivoluzione nella nostra "Costituzione materiale". Quest'ultimo termine per i costituzionalisti indica una parte di norme che non sono esplicitamente scritte nella Carta, ma sono andate ad integrarla in alcuni punti, per effetto della consuetudine e della prassi.
Dicono, i seguaci del PresConsMin, che per effetto della designazione di Berlusconi come capo dello schieramento che ha vinto le elezioni, il popolo gli abbia conferito il mandato di governare; e dato che la sovranità appartiene al popolo ai sensi dell'art. 1 della Costituzione (nientemeno!) nessun altro possa porre in essere alcunché in ispregio a tale indicazione: pertanto né Napolitano potrebbe conferire un incarico ad altri se non Berlusconi, né i parlamentari potrebbero votare la fiducia o la sfiducia, se non in conformità all'indicazione dello schieramento nelle file del quale sono stati eletti. Quest'ultimo punto poi sarebbe rafforzato dalla circostanza che i parlamentari attualmente non sono scelti dal popolo bensì di fatto nominati dalle segreterie degli schieramenti stessi, anche se la cosa viene fatta passare sotto silenzio perché il porcellum è già talmente inviso a gran parte dell'opinione pubblica da non costituire un valido appiglio dialettico.
Il discorso fila liscio ed è ben argomentato: ma è un mero sofisma, costruito da chi è abile a giocare con le parole ma che si può smontare facilmente una volta trovato il bandolo della matassa.
Bisogna sapere, anzitutto, che il concetto di "Costituzione materiale" esiste, ma si tratta di regole che possono integrare, ma non certo emendare o smentire, quelle della "Costituzione formale", vale a dire quanto sta scritto nero su bianco nel testo ufficiale.
Ora, nella nostra Costituzione ci sono ben due articoli che dicono l'uno che il Presidente della Repubblica sceglie il Presidente del Consiglio dei Ministri, e l'altro che i parlamentari esercitano la loro carica senza vincolo di mandato, cioè senza rispondere del proprio voto ad alcuno se non alla propria coscienza (e, in caso di ricandidatura, ai futuri elettori).
Ora, ammettiamo pure che con la nuova legge elettorale sia avvenuto un mutamento della forma costituzionale dello Stato, che ora sarebbe di fatto una Repubblica presidenziale, o anche solo che la legge in questione possa influire, sia pur minimamente, sulle prerogative del Presidente della Repubblica o sulla libertà del parlamentare eletto. Ebbene, ciò non è possibile.
La nostra infatti è una Costituzione rigida, vale a dire una Costituzione che non può essere modificata con una legge ordinaria; e dato che la legge elettorale è stata approvata in forma ordinaria, i casi possibili sono solo due: A) la legge elettorale non vìola la Costituzione (e pertanto quanto affermano i Berlusconiani è fuffa) oppure B) i Berlusconiani hanno ragione (e pertanto la legge elettorale vìola la Costituzione e, quindi, è incostituzionale).
E' questo un classico caso in cui tertium non datur: bisogna scegliere se stare dalla parte A) o dalla parte B), ma in ogni caso non si può stare dalla parte di Berlusconi.
Sarebbe bello poter dire che in conseguenza di quanto sopra indicato il porcellum è incostituzionale, ma, ahimè, ciò non è per nulla scontato: difatti uno dei principi del nostro ordinamento è che le norme vanno interpretate non isolatamente, bensì anche nel quadro sistematico delle altre norme, prima fra tutte la Costituzione. E, pertanto, se è possibile dare più interpretazioni di una legge, deve essere scelta tra queste quella che rispetta la Costituzione: solo qualora non vi sia alcuna scelta in tal senso possibile, infatti, una legge può essere dichiarata incostituzionale.
Ci teniamo il porcellum, dunque; ma possiamo rimandare al mittente la pretesa di Berlusconi e accoliti di avere, essi soli, il diritto di governare.
Certo, questa insistenza, che non è stata ripresa da alcun altro organo d'informazione (e ciò per ammissione dello stesso giornale che conduce la battaglia), appare bizzarra: sembrerebbe quasi che il giornale di De Benedetti abbia dei propri conti in sospeso con la casa editrice che ora appartiene a Berlusconi; ma qui non samo andreottiani e non ci permettiamo di pensar male in quanto non sempre ci si indovina.
Per tranquillizzare i cinque lettori del blog, che potrebbero credere che anche io abbia una questione personale, ma con il quotidiano fondato da Scalfari, cambierò argomento e parlerò di un'altra questione che sta a cuore a Repubblica, tanto da avervi dedicato una corposa serie di articoli.
Come ben sapete, le truppe del PresConsMin da un po' di tempo affermano che in caso di rottura della maggioranza che attualmente sostiene il governo non si potrebbe che andare alle elezioni. La questione è stata avanzata da vari esponenti, variamente motivata e alcune volte ritrattata, anche a seguto degli interventi del Quirinale. Repubblica ha dedicato, come dicevo, ampio spazio ad articoli di illustri costituzionalisti che hanno spiegato con grande competenza perché la pretesa del PdL sia una fola che non sta né in cielo né in terra.
L'unico problema è che, a mio avviso, queste spiegazioni sono risultate un po' troppo tecniche, talché mentre appaiono del tutto chiare a una persona con una certa infarinatura di diritto costituzionale (e che perciostesso non ne avrebbe avuto bisogno), di contro possono risultare ostiche o fumose a chi nella vita si occupi di tutt'altro.
Secondo me è un peccato, dato che la spiegazione poteva essere fornita, a mio parere, anche in modo molto più semplice consentendo al grande pubblico di costruirsi meglio la propria opinione: per cui ci provo.
La tesi di Berlusconi e dei suoi portavoce è che con la nuova legge elettorale, che consente e anzi di fatto obbliga i partiti a costituire schieramenti e a designare un capo il cui nome viene indicato nella scheda elettorale, sia avvenuta una rivoluzione nella nostra "Costituzione materiale". Quest'ultimo termine per i costituzionalisti indica una parte di norme che non sono esplicitamente scritte nella Carta, ma sono andate ad integrarla in alcuni punti, per effetto della consuetudine e della prassi.
Dicono, i seguaci del PresConsMin, che per effetto della designazione di Berlusconi come capo dello schieramento che ha vinto le elezioni, il popolo gli abbia conferito il mandato di governare; e dato che la sovranità appartiene al popolo ai sensi dell'art. 1 della Costituzione (nientemeno!) nessun altro possa porre in essere alcunché in ispregio a tale indicazione: pertanto né Napolitano potrebbe conferire un incarico ad altri se non Berlusconi, né i parlamentari potrebbero votare la fiducia o la sfiducia, se non in conformità all'indicazione dello schieramento nelle file del quale sono stati eletti. Quest'ultimo punto poi sarebbe rafforzato dalla circostanza che i parlamentari attualmente non sono scelti dal popolo bensì di fatto nominati dalle segreterie degli schieramenti stessi, anche se la cosa viene fatta passare sotto silenzio perché il porcellum è già talmente inviso a gran parte dell'opinione pubblica da non costituire un valido appiglio dialettico.
Il discorso fila liscio ed è ben argomentato: ma è un mero sofisma, costruito da chi è abile a giocare con le parole ma che si può smontare facilmente una volta trovato il bandolo della matassa.
Bisogna sapere, anzitutto, che il concetto di "Costituzione materiale" esiste, ma si tratta di regole che possono integrare, ma non certo emendare o smentire, quelle della "Costituzione formale", vale a dire quanto sta scritto nero su bianco nel testo ufficiale.
Ora, nella nostra Costituzione ci sono ben due articoli che dicono l'uno che il Presidente della Repubblica sceglie il Presidente del Consiglio dei Ministri, e l'altro che i parlamentari esercitano la loro carica senza vincolo di mandato, cioè senza rispondere del proprio voto ad alcuno se non alla propria coscienza (e, in caso di ricandidatura, ai futuri elettori).
Ora, ammettiamo pure che con la nuova legge elettorale sia avvenuto un mutamento della forma costituzionale dello Stato, che ora sarebbe di fatto una Repubblica presidenziale, o anche solo che la legge in questione possa influire, sia pur minimamente, sulle prerogative del Presidente della Repubblica o sulla libertà del parlamentare eletto. Ebbene, ciò non è possibile.
La nostra infatti è una Costituzione rigida, vale a dire una Costituzione che non può essere modificata con una legge ordinaria; e dato che la legge elettorale è stata approvata in forma ordinaria, i casi possibili sono solo due: A) la legge elettorale non vìola la Costituzione (e pertanto quanto affermano i Berlusconiani è fuffa) oppure B) i Berlusconiani hanno ragione (e pertanto la legge elettorale vìola la Costituzione e, quindi, è incostituzionale).
E' questo un classico caso in cui tertium non datur: bisogna scegliere se stare dalla parte A) o dalla parte B), ma in ogni caso non si può stare dalla parte di Berlusconi.
Sarebbe bello poter dire che in conseguenza di quanto sopra indicato il porcellum è incostituzionale, ma, ahimè, ciò non è per nulla scontato: difatti uno dei principi del nostro ordinamento è che le norme vanno interpretate non isolatamente, bensì anche nel quadro sistematico delle altre norme, prima fra tutte la Costituzione. E, pertanto, se è possibile dare più interpretazioni di una legge, deve essere scelta tra queste quella che rispetta la Costituzione: solo qualora non vi sia alcuna scelta in tal senso possibile, infatti, una legge può essere dichiarata incostituzionale.
Ci teniamo il porcellum, dunque; ma possiamo rimandare al mittente la pretesa di Berlusconi e accoliti di avere, essi soli, il diritto di governare.
giovedì 19 agosto 2010
Ancora un poco
Oggi Repubblica ritorna sulla questione della legge ad personam salva Mondadori, con un lunghissimo articolo a firma di Massimo Giannini: conta infatti ben 2223 parole nell'edizione pubblicata sul web, ma a vederla stampata sembrano molte di più, le parole spese.
Giannini non è uno dei pasdaran del quotidiano, e quindi la cosa ha suscitato ancor più il mio interesse.
In effetti l'analisi che avevo fatto nel post precedente era un po' semplicistica, e va integrata distinguendo i vari piani interpretativi.
Noi abbiamo di fronte un'azienda alla quale il Fisco (o meglio: l'Agenzia delle Entrate) ha chiesto un bòtto di soldi. Per capire bene il fenomeno, è importante cominciare a comprendere che quando il Fisco chiede dei soldi lo fa allo stesso titolo con cui lo fa un soggetto privato: la sua richiesta non statuisce il diritto di ricvevere la somma, esattamente come quando io pretendo che il mio vicino di casa mi paghi un importo perché il suo gatto mi disturba con il suo miagolìo, non per questo ho diritto di ottenere il risarcimento che chiedo.
Certo, questa è una semplificazione, ma le cose stanno in fondo in fondo proprio così: il Fisco è un soggetto pubblico, ma non per questo ha necessariamente ragione.
Due gradi di giudizio hanno statuito che il Fisco aveva torto: questo è un dato di fatto. Giannini sottolinea che la Mondadori era assistita dallo studio di Tremonti, non ancora ministro dell'Economia. Anche questo è un dato di fatto, ma il modo stesso con cui la circostanza è presentata nell'articolo induce il lettore a ritenere che Tremonti abbia potuto influire sulla decisione delle Commissioni Tributarie, il che è una fallacia del tipo post hoc ergo propter hoc.
Mi ripeto: se Repubblica ha delle prove della corruzione, o perlomeno delle indebite pressioni, nei confronti delle due Commissioni Tributarie, deve tirarle fuori: come ha sempre fatto con tutte le questioni riguardanti la cosiddetta P3. Se tali prove non ci sono, quelle di Giannini, e di chi l'ha preceduto, sono solo insinuazioni, che non dovrebbero avere spazio in un giornale che si pretende serio.
Poi c'è tutta la questione delle modalità con le quali sono avvenute due cose: da un lato, la remissione della causa alle Sezioni Unite della Cassazione, avocando la stessa dalla Sezione Tributaria; dall'altra, le modalità con le quali è entrata in vigore la normativa riguardante la transazione fiscale dei soggetti che avessero vinto i ricorsi tributari nei due gradi del giudizio di merito.
Parliamo anzitutto dell'attribuzione alle Sezioni Unite: è un fatto non frequente, ma non eccezionale e neppur raro: si va alle Sezioni Unite, su decisione del primo Presidente, "sui ricorsi che presentano una questione di diritto gia' decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza". Noi non sappiamo, perché Repubblica, pur così informata, non ce lo dice, quale sia la motivazione con la quale il Presidente Carbone ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite: l'articolo si dilunga sull'età di Carbone, sull'innalzamento del termine del pensionamento, sui suoi coinvolgimenti con Carboni e Lombardi: ma non ci dice quale sia la motivazione con la quale ha rimesso la causa. L'articolo, quindi, alimenta un sospetto: che Carbone abbia rimesso la causa come corrispettivo di quanto ottenuto dal Governo: ma senza una spiegazione sui motivi di rimessione, questo rimane un mero sospetto. C'erano già dei precedenti, sulla materia in discussione? Erano precedenti conformi o c'era una difformità giurisprudenziale? Qual era la questione di massima? era o non era di particolare importanza? Non lo sappiamo; e non credo che Giannini non lo sappia: semplicemente non ce lo dice. Forse non lo dice perché si tratterebbe di materia troppo tecnica e noiosa e quindi non "giornalistica": ma avendoci gia intrattenuto assai, credo che qualche riga sul tema non sarebbe stata sprecata.
Veniamo infine al tema dell'iter di approvazione del'emendamento salva Mondadori. Non nego che nella ricostruzione di Repubblica l'atteggiamento del Governo e del parlamentare che ha presentato l'emendamento appaia quanto meno sospetto, ma anzittto questo sospetto non fa venir meno le considerazioni espresse poco sopra, vale a dire il fatto che Mondadori avesse già vinto in due gradi di giudizio e che pertanto, al momento dell'approvazione del'emendamento, NULLA doveva al Fisco. In secondo luogo, è forse il caso di rammentare che l'emendamento si inseriva in un pacchetto di provvedimenti che dovevano liberare risorse finanziarie dalle imprese per consentire loro di affrontare la crisi: e liberare accantonamenti appostati in bilancio a fronte di impegni fiscali, per i quali si sia già vinto due volte in giudizio, mi sembra che ben possa andare in questo senso.
Certo, sarebbe molto meglio che lo Stato e gli Enti Pubblici (ASL in primis) pagassero i creditori: questo come provvedimento anticrisi sarebbe molto più efficace della definizione transattiva dei contenziosi tributari arrivati in Cassazione ad iniziativa dell'Agenzia delle Entrate; ma per far ciò ci vogliono denari che Tremonti non ha; mentre per la definizione di questi contenziosi non solo non ci vogliono denari, ma anzi si fa cassa.
In conclusione: l'articolo di oggi non spiega: ribadisce quanto già detto in precedenza da Repubblica (la quale si vanta, e non a caso, di aver dato la notizia "in splendida solitudine"); ma non spiega punto. Allunga la frittata ma non dà né all'uomo della strada né al tecnico del diritto alcuna notizia né nessun indizio in grado di chiarire se il torto di Mondadori sia una mera idea del direttore del giornale o un qualcosa con un fondamento un minimo più solido.
In assenza di questi chiarimenti, la cosiddetta "informazione" di Giannini e della redazione è un po' come quella che Don Basilio suggerisce a Don Bartolo: una ridda di voci che alla fin trabocca, e scoppia, si propaga si raddoppia e produce un'esplosione come un colpo di cannone.
A questo punto, che differenza c'è tra Giannini e Travaglio? E tra Mauro e Padellaro?
Giannini non è uno dei pasdaran del quotidiano, e quindi la cosa ha suscitato ancor più il mio interesse.
In effetti l'analisi che avevo fatto nel post precedente era un po' semplicistica, e va integrata distinguendo i vari piani interpretativi.
Noi abbiamo di fronte un'azienda alla quale il Fisco (o meglio: l'Agenzia delle Entrate) ha chiesto un bòtto di soldi. Per capire bene il fenomeno, è importante cominciare a comprendere che quando il Fisco chiede dei soldi lo fa allo stesso titolo con cui lo fa un soggetto privato: la sua richiesta non statuisce il diritto di ricvevere la somma, esattamente come quando io pretendo che il mio vicino di casa mi paghi un importo perché il suo gatto mi disturba con il suo miagolìo, non per questo ho diritto di ottenere il risarcimento che chiedo.
Certo, questa è una semplificazione, ma le cose stanno in fondo in fondo proprio così: il Fisco è un soggetto pubblico, ma non per questo ha necessariamente ragione.
Due gradi di giudizio hanno statuito che il Fisco aveva torto: questo è un dato di fatto. Giannini sottolinea che la Mondadori era assistita dallo studio di Tremonti, non ancora ministro dell'Economia. Anche questo è un dato di fatto, ma il modo stesso con cui la circostanza è presentata nell'articolo induce il lettore a ritenere che Tremonti abbia potuto influire sulla decisione delle Commissioni Tributarie, il che è una fallacia del tipo post hoc ergo propter hoc.
Mi ripeto: se Repubblica ha delle prove della corruzione, o perlomeno delle indebite pressioni, nei confronti delle due Commissioni Tributarie, deve tirarle fuori: come ha sempre fatto con tutte le questioni riguardanti la cosiddetta P3. Se tali prove non ci sono, quelle di Giannini, e di chi l'ha preceduto, sono solo insinuazioni, che non dovrebbero avere spazio in un giornale che si pretende serio.
Poi c'è tutta la questione delle modalità con le quali sono avvenute due cose: da un lato, la remissione della causa alle Sezioni Unite della Cassazione, avocando la stessa dalla Sezione Tributaria; dall'altra, le modalità con le quali è entrata in vigore la normativa riguardante la transazione fiscale dei soggetti che avessero vinto i ricorsi tributari nei due gradi del giudizio di merito.
Parliamo anzitutto dell'attribuzione alle Sezioni Unite: è un fatto non frequente, ma non eccezionale e neppur raro: si va alle Sezioni Unite, su decisione del primo Presidente, "sui ricorsi che presentano una questione di diritto gia' decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza". Noi non sappiamo, perché Repubblica, pur così informata, non ce lo dice, quale sia la motivazione con la quale il Presidente Carbone ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite: l'articolo si dilunga sull'età di Carbone, sull'innalzamento del termine del pensionamento, sui suoi coinvolgimenti con Carboni e Lombardi: ma non ci dice quale sia la motivazione con la quale ha rimesso la causa. L'articolo, quindi, alimenta un sospetto: che Carbone abbia rimesso la causa come corrispettivo di quanto ottenuto dal Governo: ma senza una spiegazione sui motivi di rimessione, questo rimane un mero sospetto. C'erano già dei precedenti, sulla materia in discussione? Erano precedenti conformi o c'era una difformità giurisprudenziale? Qual era la questione di massima? era o non era di particolare importanza? Non lo sappiamo; e non credo che Giannini non lo sappia: semplicemente non ce lo dice. Forse non lo dice perché si tratterebbe di materia troppo tecnica e noiosa e quindi non "giornalistica": ma avendoci gia intrattenuto assai, credo che qualche riga sul tema non sarebbe stata sprecata.
Veniamo infine al tema dell'iter di approvazione del'emendamento salva Mondadori. Non nego che nella ricostruzione di Repubblica l'atteggiamento del Governo e del parlamentare che ha presentato l'emendamento appaia quanto meno sospetto, ma anzittto questo sospetto non fa venir meno le considerazioni espresse poco sopra, vale a dire il fatto che Mondadori avesse già vinto in due gradi di giudizio e che pertanto, al momento dell'approvazione del'emendamento, NULLA doveva al Fisco. In secondo luogo, è forse il caso di rammentare che l'emendamento si inseriva in un pacchetto di provvedimenti che dovevano liberare risorse finanziarie dalle imprese per consentire loro di affrontare la crisi: e liberare accantonamenti appostati in bilancio a fronte di impegni fiscali, per i quali si sia già vinto due volte in giudizio, mi sembra che ben possa andare in questo senso.
Certo, sarebbe molto meglio che lo Stato e gli Enti Pubblici (ASL in primis) pagassero i creditori: questo come provvedimento anticrisi sarebbe molto più efficace della definizione transattiva dei contenziosi tributari arrivati in Cassazione ad iniziativa dell'Agenzia delle Entrate; ma per far ciò ci vogliono denari che Tremonti non ha; mentre per la definizione di questi contenziosi non solo non ci vogliono denari, ma anzi si fa cassa.
In conclusione: l'articolo di oggi non spiega: ribadisce quanto già detto in precedenza da Repubblica (la quale si vanta, e non a caso, di aver dato la notizia "in splendida solitudine"); ma non spiega punto. Allunga la frittata ma non dà né all'uomo della strada né al tecnico del diritto alcuna notizia né nessun indizio in grado di chiarire se il torto di Mondadori sia una mera idea del direttore del giornale o un qualcosa con un fondamento un minimo più solido.
In assenza di questi chiarimenti, la cosiddetta "informazione" di Giannini e della redazione è un po' come quella che Don Basilio suggerisce a Don Bartolo: una ridda di voci che alla fin trabocca, e scoppia, si propaga si raddoppia e produce un'esplosione come un colpo di cannone.
A questo punto, che differenza c'è tra Giannini e Travaglio? E tra Mauro e Padellaro?
venerdì 13 agosto 2010
Forse è ora di cambiar giornale
Quando uno deve incazzarsi ogni volta che apre il giornale, e ciò malgrado la linea politica di fondo del medesimo coincida con la propria, forse è ora di risparmiare quell'eurino all'edicola o di investirlo in fogli meno cialtroni.
Qualche giorno fa mi sono incazzato per quel demenziale articolo di uno dei miei bersagli d'elezione, quel Carlo Petrini di cui abbiamo già parlato anche qui e che incarna alla perfezione il modello del luddista-chic. Questo imbonitore da fiera di paese persegue con ammirevole costanza il proprio scopo, che è quello di farsi lautamente retribuire per dire qualche ovvietà condita in una salsa di reminiscenze ancestrali e di nostalgia per i bei tempi che furono. Repubblica ha ospitato un suo lunghissimo e verboso pezzo nel quale parla di un campo coltivato con semi OGM, facendo intendere che da quel piccolo appezzamento di terreno sarebbe partita la rovina e la desertificazione dell'Italia intiera.
Il punto è che l'articolo è infarcito di falsità, come spiega assai bene il buon Bressanini: falso il fatto che quei semi possano far male alla salute dell'uomo (anzi!, suggerisce Bressanini); falso il fatto che fosse urgente distruggere quel campo, in quanto essendo le piante già fiorite non hanno modo di infestare i campi limitrofi; falso infine il fatto che quella coltivazione fosse illegale. E si tratta di falsità in ordine crescente di certezza, dato che possiamo anche invocare qualche diavolo di principio di precauzione, che ha la stessa validità scientifica dell'uomo nero per far addormentare i bambini, ma non possiamo certo dubitare della vigenza o meno di un regolamento europeo, anche se Zaia finge di non conoscerlo.
Pochi giorni dopo un branco di montati, gente del tipo di quelli che vanno a liberare le cavie dai laboratori, per dire il sottogenere umano, è andato a distruggere il campo segnalato dal Petrini. Il quale, se vi fosse un magistrato a Pordenone, dovrebbe essere riconosciuto colpevole di concorso nella devastazione, come stabilisce il Codice.
Dato che sono in condizioni di connettività precarie avevo pensato di tener la cosa per me, ma ieri mi sono letto un'altra intemerata del balordo, e non sono più riuscito a trattenermi. Questo articolo ha finalmente messo il Petrini nella luce che si merita: quella di un nostalgico dell'ancien régime: un uomo fuori dal suo tempo che sogna una società in cui pochi eletti possano godere delle gioie della vita e della gola, mentre tutt'attorno frotte di popolani avviliti e luridi pagano le decime e scendono nei profondi pozzi delle miniere di carbone, avendo per unico nutrimento una fetta di pane nero con un pezzetto di Camembert, ma piccolo.
Il Petrini, quello stesso che ha passato una vita a lamentarsi perché le genti che debbono arrivare alla fine del mese comperano il Castellino al posto del Barbaresco, senza riuscire a capire quale mistero di abbruttimento e di propaganda multinazionale porti costoro a trattarsi così male, si è ora accorto che il prezzo del Barbaresco sta scendendo e, accipicchia, questo consentirebbe a qualcuno dei bevitori di Castellino di comperarsene una bottiglia, magari in occasione del proprio onomastico. Jattura! ché in quel caso, qualora il castellinante si barbareschizzasse, ecco che l'aura magica e iniziatica del Sommo Bevitore di Barbaresco finirebbe a mal partito. "Tutto qui", direbbe il popolano? Fiumi di inchiostri, di parole al vento e di tessere dell'ARCI per questo?
Immaginate come deve sentirsi, il Petrini, alla sola idea che i suoi presìdi da capalbiese possano divenire popolari e diffondersi un poco. Sarebbe come un prete ortodosso che vi facesse andare dietro l'iconostasi o, per restare in tema, un prete cattolico che vi allungasse il calice e la pisside per fare merenda. No, non si potrebbe proprio accettarlo: e così ecco che il nostro, dopo una mezza vita a insultare il popolino che mangia e beve schifezze, auspica che debba continuare a mangiare e bere schifezze, per non inquinare il corpo mistico dell'iscritto all'arcigola.
Lasciamo un attimo il Petrini, che sono certo che ritroveremo presto, e concentriamoci un momento su una notizia del tutto diversa. Parliamo dell'ennesima legge ad personam del presidente del consiglio, il cui perverso meccanismo vene spiegato in questo pezzo.
Dunque, secondo Repubblica Berlusconi -o meglio la Mondadori- ha evaso 173 milioni di tasse, che diventerebbero 350 milioni oggi per effetto di sanzioni e interessi. Berlusconi, quale PresConsMin, si è quindi fatto una legge che consente di evitare la Cassazione pagando solo il 5% del valore della lite. La Mondadori quindi ha pagato otto milioni e se l'è cavata quasi gratis.
Il fatto è che la norma in questione consente di transigere i contenziosi fiscali per i quali l'agenzia delle entrate abbia perso i ricorsi in primo grado e in appello. Il fisco ha contestato alla Mondadori l'evasione, e la Mondadori ha fatto ricorso e l'ha vinto. Poi il fisco è ricorso in appello, e la Mondadori ha di nuovo vinto. Poi il fisco è ricorso in Cassazione: non è detto che la Mondadori avrebbe di nuovo vinto: diciamo che, con due ricorsi vinti alle spalle, aveva una probabilità di perdere del 5%: vale a dire esattamente l'importo che la legge consente a chiunque di pagare per chiudere definitivamente la pendenza con un'Agenzia delle Entrate che, nonostante due pronunce giurisdizionali contrarie, insiste nella propria tesi.
Immaginate di prendere una multa per eccesso di velocità: il comune vi manda a casa la foto e voi vi accorgete che la macchina fotografata non è la vostra. Fate ricorso al Giudice di Pace, pagando il dovuto balzello, e quello vi dà ragione. Ma il comune, non pago, ricorre in appello: e per difendervi dovete a questo punto pagare anche l'avvocato, e caro. La corte d'Appello vi dà, evidentemente, ragione: ma il comune s'intigna e ricorre in Cassazione, costringendovi a difendervi con un (carissimo) avvocato cassazionista.
Ecco: più o meno le cose stanno così. Certo: non è scontato che la Mondadori abbia così palesemente ragione; e magari è anche possibile che i due ricorsi vinti lo siano stati non in forza del torto dell'Agenzia delle entrate bensì della corruzione operata sulle commissioni tributarie di primo e secondo grado, e che quindi in Cassazione l'esito si sarebbe rovesciato. Ma i casi sono due: o Repubblica ha delle prove, o perlomeno delle indiscrezioni che potrebbero avvalorare questa tesi, e in tal caso avrebbe dovuto tirarle fuori, o non le ha. E in tal caso resta il fatto che, ieri come ieri, la Mondadori al fisco non doveva neppure un euro: altro che 350 milioni.
Notate poi l'astuzia: in tutto l'articolo il fatto che Mondadori avesse vinto in due gradi di giudizio emerge solo in un inciso, come se si trattasse di una notizia secondaria a completamento della proposizione principale. Come ho fatto io qui sopra, quando ho messo detto che Berlusconi -o meglio la Mondadori- deve al fisco tutti quei soldi.
Qui la questione non è di essere pro o contro Berlusconi: certo per me sarebbe infinitamente più facile scagliarmi contro Feltri o Zio Tibia Sallusti: ma non avendo lo stomaco per leggerli non posso farlo. La questione è di fare buono o cattivo giornalismo; e per quanto possa apprezzare un'informazione di parte, non posso accettare che l'essere di parte sfoci nell'informare male o addirittura nello scrivere cose false. Perché in questo caso non ho più il diritto di formarmi le mie idee, pur sapendo che la fonte da cui attingo mi indirizza in qualche direzione: se mi viene raccontato il falso divento un burattino nelle mani dei giornalisti dei quali cerco di fidarmi: e ciò non lo posso accettare.
Qualche giorno fa mi sono incazzato per quel demenziale articolo di uno dei miei bersagli d'elezione, quel Carlo Petrini di cui abbiamo già parlato anche qui e che incarna alla perfezione il modello del luddista-chic. Questo imbonitore da fiera di paese persegue con ammirevole costanza il proprio scopo, che è quello di farsi lautamente retribuire per dire qualche ovvietà condita in una salsa di reminiscenze ancestrali e di nostalgia per i bei tempi che furono. Repubblica ha ospitato un suo lunghissimo e verboso pezzo nel quale parla di un campo coltivato con semi OGM, facendo intendere che da quel piccolo appezzamento di terreno sarebbe partita la rovina e la desertificazione dell'Italia intiera.
Il punto è che l'articolo è infarcito di falsità, come spiega assai bene il buon Bressanini: falso il fatto che quei semi possano far male alla salute dell'uomo (anzi!, suggerisce Bressanini); falso il fatto che fosse urgente distruggere quel campo, in quanto essendo le piante già fiorite non hanno modo di infestare i campi limitrofi; falso infine il fatto che quella coltivazione fosse illegale. E si tratta di falsità in ordine crescente di certezza, dato che possiamo anche invocare qualche diavolo di principio di precauzione, che ha la stessa validità scientifica dell'uomo nero per far addormentare i bambini, ma non possiamo certo dubitare della vigenza o meno di un regolamento europeo, anche se Zaia finge di non conoscerlo.
Pochi giorni dopo un branco di montati, gente del tipo di quelli che vanno a liberare le cavie dai laboratori, per dire il sottogenere umano, è andato a distruggere il campo segnalato dal Petrini. Il quale, se vi fosse un magistrato a Pordenone, dovrebbe essere riconosciuto colpevole di concorso nella devastazione, come stabilisce il Codice.
Dato che sono in condizioni di connettività precarie avevo pensato di tener la cosa per me, ma ieri mi sono letto un'altra intemerata del balordo, e non sono più riuscito a trattenermi. Questo articolo ha finalmente messo il Petrini nella luce che si merita: quella di un nostalgico dell'ancien régime: un uomo fuori dal suo tempo che sogna una società in cui pochi eletti possano godere delle gioie della vita e della gola, mentre tutt'attorno frotte di popolani avviliti e luridi pagano le decime e scendono nei profondi pozzi delle miniere di carbone, avendo per unico nutrimento una fetta di pane nero con un pezzetto di Camembert, ma piccolo.
Il Petrini, quello stesso che ha passato una vita a lamentarsi perché le genti che debbono arrivare alla fine del mese comperano il Castellino al posto del Barbaresco, senza riuscire a capire quale mistero di abbruttimento e di propaganda multinazionale porti costoro a trattarsi così male, si è ora accorto che il prezzo del Barbaresco sta scendendo e, accipicchia, questo consentirebbe a qualcuno dei bevitori di Castellino di comperarsene una bottiglia, magari in occasione del proprio onomastico. Jattura! ché in quel caso, qualora il castellinante si barbareschizzasse, ecco che l'aura magica e iniziatica del Sommo Bevitore di Barbaresco finirebbe a mal partito. "Tutto qui", direbbe il popolano? Fiumi di inchiostri, di parole al vento e di tessere dell'ARCI per questo?
Immaginate come deve sentirsi, il Petrini, alla sola idea che i suoi presìdi da capalbiese possano divenire popolari e diffondersi un poco. Sarebbe come un prete ortodosso che vi facesse andare dietro l'iconostasi o, per restare in tema, un prete cattolico che vi allungasse il calice e la pisside per fare merenda. No, non si potrebbe proprio accettarlo: e così ecco che il nostro, dopo una mezza vita a insultare il popolino che mangia e beve schifezze, auspica che debba continuare a mangiare e bere schifezze, per non inquinare il corpo mistico dell'iscritto all'arcigola.
Lasciamo un attimo il Petrini, che sono certo che ritroveremo presto, e concentriamoci un momento su una notizia del tutto diversa. Parliamo dell'ennesima legge ad personam del presidente del consiglio, il cui perverso meccanismo vene spiegato in questo pezzo.
Dunque, secondo Repubblica Berlusconi -o meglio la Mondadori- ha evaso 173 milioni di tasse, che diventerebbero 350 milioni oggi per effetto di sanzioni e interessi. Berlusconi, quale PresConsMin, si è quindi fatto una legge che consente di evitare la Cassazione pagando solo il 5% del valore della lite. La Mondadori quindi ha pagato otto milioni e se l'è cavata quasi gratis.
Il fatto è che la norma in questione consente di transigere i contenziosi fiscali per i quali l'agenzia delle entrate abbia perso i ricorsi in primo grado e in appello. Il fisco ha contestato alla Mondadori l'evasione, e la Mondadori ha fatto ricorso e l'ha vinto. Poi il fisco è ricorso in appello, e la Mondadori ha di nuovo vinto. Poi il fisco è ricorso in Cassazione: non è detto che la Mondadori avrebbe di nuovo vinto: diciamo che, con due ricorsi vinti alle spalle, aveva una probabilità di perdere del 5%: vale a dire esattamente l'importo che la legge consente a chiunque di pagare per chiudere definitivamente la pendenza con un'Agenzia delle Entrate che, nonostante due pronunce giurisdizionali contrarie, insiste nella propria tesi.
Immaginate di prendere una multa per eccesso di velocità: il comune vi manda a casa la foto e voi vi accorgete che la macchina fotografata non è la vostra. Fate ricorso al Giudice di Pace, pagando il dovuto balzello, e quello vi dà ragione. Ma il comune, non pago, ricorre in appello: e per difendervi dovete a questo punto pagare anche l'avvocato, e caro. La corte d'Appello vi dà, evidentemente, ragione: ma il comune s'intigna e ricorre in Cassazione, costringendovi a difendervi con un (carissimo) avvocato cassazionista.
Ecco: più o meno le cose stanno così. Certo: non è scontato che la Mondadori abbia così palesemente ragione; e magari è anche possibile che i due ricorsi vinti lo siano stati non in forza del torto dell'Agenzia delle entrate bensì della corruzione operata sulle commissioni tributarie di primo e secondo grado, e che quindi in Cassazione l'esito si sarebbe rovesciato. Ma i casi sono due: o Repubblica ha delle prove, o perlomeno delle indiscrezioni che potrebbero avvalorare questa tesi, e in tal caso avrebbe dovuto tirarle fuori, o non le ha. E in tal caso resta il fatto che, ieri come ieri, la Mondadori al fisco non doveva neppure un euro: altro che 350 milioni.
Notate poi l'astuzia: in tutto l'articolo il fatto che Mondadori avesse vinto in due gradi di giudizio emerge solo in un inciso, come se si trattasse di una notizia secondaria a completamento della proposizione principale. Come ho fatto io qui sopra, quando ho messo detto che Berlusconi -o meglio la Mondadori- deve al fisco tutti quei soldi.
Qui la questione non è di essere pro o contro Berlusconi: certo per me sarebbe infinitamente più facile scagliarmi contro Feltri o Zio Tibia Sallusti: ma non avendo lo stomaco per leggerli non posso farlo. La questione è di fare buono o cattivo giornalismo; e per quanto possa apprezzare un'informazione di parte, non posso accettare che l'essere di parte sfoci nell'informare male o addirittura nello scrivere cose false. Perché in questo caso non ho più il diritto di formarmi le mie idee, pur sapendo che la fonte da cui attingo mi indirizza in qualche direzione: se mi viene raccontato il falso divento un burattino nelle mani dei giornalisti dei quali cerco di fidarmi: e ciò non lo posso accettare.
martedì 10 agosto 2010
Compiti per le vacanze
Oggi mi sono arrabbiato con Nichita, che alla fine della quinta elementare non è ancora in grado di scrivere due paginette senza piazzarci dentro otto errori d'ortografia: dalle doppie dimenticate, agli accenti omessi, alle maiuscole smarrite. Per non parlare di un paio di doppie "Z", tra le quali un orribile "grazzie", che mi hanno fatto rabbrividire e infuriare.
Per rilassarmi e farmene una ragione farò il maestrino dalla penna rossa commentando alcuni pezzi del mio giornale preferito, e per non sembrare troppo monotematico non nominerò né il foglio né i singoli autori.
Partiamo dall'inviato nel Nuovo Mondo, quello che si diletta a scrivere di tecnologie delle quali mastica, peraltro, solo qualche scarno rudimento. Costui, certo per essere oramai colà da troppo tempo, ha preso a parlare quel dialetto angloitaliano che sfoggiano i boss mafiosi e gli emigrati di terza generazione: e pertanto lo perdoniamo dal profondo del cuore per aver osato ammannirci la seguente frase: "Apple (che infatti ha patentato la definizione Apple Store)". Non è colpa sua, ma rivolgiamo una supplica al direttore Mauro affinché richiami il nostro in Patria prima mche sia troppo tardi e il nostro dimentichi, oltre che il lessico, persino le regole di coniugazione dei verbi regolari.
Veniamo ora all'inviata (così la definiscono) a Parigi, che si esibisce in un folgorante servizo sulle catacombe della capitale francese e sulle feste esclusive che vi si tengono. Tutto molto bello e interessante, per essere un articolo scritto nel mezzo dell'estate: peccato che a un certo punto l'inviata, volendo fare sfoggio di buone letture che evidentemente non le sono proprie, si lasci scappare questa frase: "Gli amanti delle catacombe, che non sono affatto perseguitati ma scelgono di esplorare il 'ventre di Parigi', così lo definiva Émile Zola." Il punto fermo è dell'autrice, non mio: e avrete quindi notato che la proposizione principale rimane lì, sospesa a mezz'aria, senza uno straccio di verbo che le dia una qualche ragion d'essere. Sarebbe un peccato veniale, che noi ben comprendiamo alla luce dello sforzo fatto dalla giornalista nel rivangare, in fondo ai meandri della memoria, una citazione così pregiata. Il punto, che fa arrotolare le viscere a chi abbia avuto la fortuna di leggere qualche scritto del noto autore, è che il Ventre di Parigi non erano mica le catacombe, bensì il mercato delle Halles, dove fino a non moltissimo tempo fa giungevano da tutta la Francia le derrate alimentari destinate a nutrire l'enorme popolazione della capitale.
Per rilassarmi e farmene una ragione farò il maestrino dalla penna rossa commentando alcuni pezzi del mio giornale preferito, e per non sembrare troppo monotematico non nominerò né il foglio né i singoli autori.
Partiamo dall'inviato nel Nuovo Mondo, quello che si diletta a scrivere di tecnologie delle quali mastica, peraltro, solo qualche scarno rudimento. Costui, certo per essere oramai colà da troppo tempo, ha preso a parlare quel dialetto angloitaliano che sfoggiano i boss mafiosi e gli emigrati di terza generazione: e pertanto lo perdoniamo dal profondo del cuore per aver osato ammannirci la seguente frase: "Apple (che infatti ha patentato la definizione Apple Store)". Non è colpa sua, ma rivolgiamo una supplica al direttore Mauro affinché richiami il nostro in Patria prima mche sia troppo tardi e il nostro dimentichi, oltre che il lessico, persino le regole di coniugazione dei verbi regolari.
Veniamo ora all'inviata (così la definiscono) a Parigi, che si esibisce in un folgorante servizo sulle catacombe della capitale francese e sulle feste esclusive che vi si tengono. Tutto molto bello e interessante, per essere un articolo scritto nel mezzo dell'estate: peccato che a un certo punto l'inviata, volendo fare sfoggio di buone letture che evidentemente non le sono proprie, si lasci scappare questa frase: "Gli amanti delle catacombe, che non sono affatto perseguitati ma scelgono di esplorare il 'ventre di Parigi', così lo definiva Émile Zola." Il punto fermo è dell'autrice, non mio: e avrete quindi notato che la proposizione principale rimane lì, sospesa a mezz'aria, senza uno straccio di verbo che le dia una qualche ragion d'essere. Sarebbe un peccato veniale, che noi ben comprendiamo alla luce dello sforzo fatto dalla giornalista nel rivangare, in fondo ai meandri della memoria, una citazione così pregiata. Il punto, che fa arrotolare le viscere a chi abbia avuto la fortuna di leggere qualche scritto del noto autore, è che il Ventre di Parigi non erano mica le catacombe, bensì il mercato delle Halles, dove fino a non moltissimo tempo fa giungevano da tutta la Francia le derrate alimentari destinate a nutrire l'enorme popolazione della capitale.
lunedì 9 agosto 2010
9 agosto
Dato che quassù non c'è granché da fare, per farmi un degno regalo di compleanno sono passato alla bancarella dei libri vecchi.
Per un euro a volume è possibile portarsi via qualcosa di molto datato e nella media abbastanza malconcio: i titoli sono tra i meno interessanti del mondo, ma qualche sorpresa alla fin fine salta sempre fuori.
Così, per l'equivalente di una media mi sono porato a casa: Il dizionario delle idee comuni di Flaubert, in un'edizione Sansoni che meriterebbe di essere bruciata, non foss'altro per l'infelice traduzione del titolo originale, ma che è pur sempre una lettura che ha senso di stare sul comodino di una casa di montagna;
Largo Richini di Renato Olivieri: non che ami alla follia l'autore, ma tutto il leggibile di Scerbanenco l'ho già letto, e poi Olivieri è adattissimo per il momento MOPM;
I duri non ballano di Norman Mailer: dal risvolto di sovracopertina un noir umoristico in cui il protagonista si risveglia dopo una nottataccia con un gran mal di testa e due teste di donna mozzate nel cassetto della ganjia;
Sex and the single girl di Helen Gurley Brown: fondamentale opera edita nell'anno in cui sono nato e che Baldini & Castoldi ha fatto uscire sul mercato italiano con un improbabilissimo Come si seduce un uomo, sbattendoci in copertina, con due paia d'occhi sgranatissimi, un giovine Tony Curtis e una tipa che non ho saputo identificare, ma che sembra avere una certa qual somiglianza con Natalie Wood.
Naturalmente ho iniziato a leggere quest'ultimo, e mi sono fatto un certo numero di risate arrivato al capitolo sulla classificazione dei tipi d'uomini che vi circondano (i.e. le lettrici destinatarie dell'opera): vi si trovano gli archetipi del conquistabile, del Don Giovanni, dell'uomo sposato, dell'uomo che divorzia, dell'uomo più giovane e e del pederasta, con gran copia di consigli pratici su come riconoscere gli appartenenti a quest'ultima genìa e considerazioni sul fatto che comunque i medesimi "restano pur sempre per le donne i migliori amici di questo mondo, sinceri, affettuosi e divertenti [...] consiglieri preziosi in grado di darvi i consigli più pertinenti in merito alle vostre relazioni con gli altri uomini".
Con questo brano, che voi stessi converrete avrebbe potuto comparire con eguale dignità nel dizionario di Flaubert, si chiude idealmente il cerchio degli acquisti. Certo, a distanza di mezzo secolo le autrici che si sono cimentate nell'opera di classificazione dei tipi d'uomo incontrabili e scaricabili hanno dovuto giocoforza inventarsi categorie un po' più complesse e artificiose, ma anche queste qui, nella loro dignità di grandi classiche, possono vantare una certa loro sapidità.
Per un euro a volume è possibile portarsi via qualcosa di molto datato e nella media abbastanza malconcio: i titoli sono tra i meno interessanti del mondo, ma qualche sorpresa alla fin fine salta sempre fuori.
Così, per l'equivalente di una media mi sono porato a casa: Il dizionario delle idee comuni di Flaubert, in un'edizione Sansoni che meriterebbe di essere bruciata, non foss'altro per l'infelice traduzione del titolo originale, ma che è pur sempre una lettura che ha senso di stare sul comodino di una casa di montagna;
Largo Richini di Renato Olivieri: non che ami alla follia l'autore, ma tutto il leggibile di Scerbanenco l'ho già letto, e poi Olivieri è adattissimo per il momento MOPM;
I duri non ballano di Norman Mailer: dal risvolto di sovracopertina un noir umoristico in cui il protagonista si risveglia dopo una nottataccia con un gran mal di testa e due teste di donna mozzate nel cassetto della ganjia;
Sex and the single girl di Helen Gurley Brown: fondamentale opera edita nell'anno in cui sono nato e che Baldini & Castoldi ha fatto uscire sul mercato italiano con un improbabilissimo Come si seduce un uomo, sbattendoci in copertina, con due paia d'occhi sgranatissimi, un giovine Tony Curtis e una tipa che non ho saputo identificare, ma che sembra avere una certa qual somiglianza con Natalie Wood.
Naturalmente ho iniziato a leggere quest'ultimo, e mi sono fatto un certo numero di risate arrivato al capitolo sulla classificazione dei tipi d'uomini che vi circondano (i.e. le lettrici destinatarie dell'opera): vi si trovano gli archetipi del conquistabile, del Don Giovanni, dell'uomo sposato, dell'uomo che divorzia, dell'uomo più giovane e e del pederasta, con gran copia di consigli pratici su come riconoscere gli appartenenti a quest'ultima genìa e considerazioni sul fatto che comunque i medesimi "restano pur sempre per le donne i migliori amici di questo mondo, sinceri, affettuosi e divertenti [...] consiglieri preziosi in grado di darvi i consigli più pertinenti in merito alle vostre relazioni con gli altri uomini".
Con questo brano, che voi stessi converrete avrebbe potuto comparire con eguale dignità nel dizionario di Flaubert, si chiude idealmente il cerchio degli acquisti. Certo, a distanza di mezzo secolo le autrici che si sono cimentate nell'opera di classificazione dei tipi d'uomo incontrabili e scaricabili hanno dovuto giocoforza inventarsi categorie un po' più complesse e artificiose, ma anche queste qui, nella loro dignità di grandi classiche, possono vantare una certa loro sapidità.
domenica 8 agosto 2010
Piccole lezioni di diritto ad uso di chi non ha una laurea in Giurisprudenza /2
Sulla Repubblica di oggi c'è un articolo che dà conto dei rilievi formulati da due legali de La Destra che riguardano la famosa compravendita della casa di Montecarlo, già di AN e nella quale per una serie di circostanze non chiare è andato a stare il fratello della compagna di Gianfranco Fini.
Si tratta di una gran quantità di sciocchezze.
Nella ricostruzione di Repubblica, la tesi dell'avv. Marco Di Andrea sarebbe la seguente: "Il senatore Francesco Pontone che ha alienato l'appartamento di Montecarlo, lo ha fatto sulla base di una procura generale che aveva dal presidente di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini. Ma, all'atto del rogito, luglio 2008, Fini non era più presidente di An (aveva rimesso il mandato al triumvirato il 23 aprile). E su questa fattispecie il diritto non lascia dubbi: la delega a Pontone non era più valida". In realtà ci sono poche cose sulle quali il diritto non lascia dubbi, ma una di queste è certo il fatto che una procura rilasciata a un rappresentante da parte di una persona giuridica (quale era AN) resta valida indipendentemente dal fatto che chi materialmente l'ha sottoscritta abbia perso il potere di rappresentanza legale della persona stessa. Insomma: il fatto che Fini avesse rimesso il proprio mandato non ha minimamente inficiato la validità della procura rilasciata da AN a Pontone.
L'altro grave svarione è l'affermare che il contratto di compravandita sarebbe nullo, laddove invece esso -quand'anche per assurdo la procura fosse stata veramente invalida- sarebbe semplicemente annullabile. E si tratta di differenza non da poco, dal momento che in questo secondo caso (che peraltro è di mera scuola, dato che come abbiamo detto la procura era valida) l'annullamento non può mica essere chiesto da chiunque e nella fattispecie da un militante di un altro movimento politico, bensì può essere chiesta esclusivamente dal soggetto nell'interesse del quale è stabilita l'annullabilità, vale a dire da AN.
Certo, è ben comprensibile che i militanti de La Destra abbiano fatto un po' di polverone inventandosi un'azione che non esiste né in cielo né in terra: in fondo si tratta sempre di un qualcosa che può ripagare in termini squisitamente politici, per quanto campato in aria.
Meno spiegabile il fatto che il quotidiano abbia riportato supinamente quelle tesi, senza una riga di commento o di spiegazione ai lettori.
Si tratta di una gran quantità di sciocchezze.
Nella ricostruzione di Repubblica, la tesi dell'avv. Marco Di Andrea sarebbe la seguente: "Il senatore Francesco Pontone che ha alienato l'appartamento di Montecarlo, lo ha fatto sulla base di una procura generale che aveva dal presidente di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini. Ma, all'atto del rogito, luglio 2008, Fini non era più presidente di An (aveva rimesso il mandato al triumvirato il 23 aprile). E su questa fattispecie il diritto non lascia dubbi: la delega a Pontone non era più valida". In realtà ci sono poche cose sulle quali il diritto non lascia dubbi, ma una di queste è certo il fatto che una procura rilasciata a un rappresentante da parte di una persona giuridica (quale era AN) resta valida indipendentemente dal fatto che chi materialmente l'ha sottoscritta abbia perso il potere di rappresentanza legale della persona stessa. Insomma: il fatto che Fini avesse rimesso il proprio mandato non ha minimamente inficiato la validità della procura rilasciata da AN a Pontone.
L'altro grave svarione è l'affermare che il contratto di compravandita sarebbe nullo, laddove invece esso -quand'anche per assurdo la procura fosse stata veramente invalida- sarebbe semplicemente annullabile. E si tratta di differenza non da poco, dal momento che in questo secondo caso (che peraltro è di mera scuola, dato che come abbiamo detto la procura era valida) l'annullamento non può mica essere chiesto da chiunque e nella fattispecie da un militante di un altro movimento politico, bensì può essere chiesta esclusivamente dal soggetto nell'interesse del quale è stabilita l'annullabilità, vale a dire da AN.
Certo, è ben comprensibile che i militanti de La Destra abbiano fatto un po' di polverone inventandosi un'azione che non esiste né in cielo né in terra: in fondo si tratta sempre di un qualcosa che può ripagare in termini squisitamente politici, per quanto campato in aria.
Meno spiegabile il fatto che il quotidiano abbia riportato supinamente quelle tesi, senza una riga di commento o di spiegazione ai lettori.
venerdì 6 agosto 2010
Postacelere
Caro Colaprico*,
vorrei per il tuo tramite denunciare il Sindaco Moratti, il vicesindaco De Corato e la Giunta Comunale tutta per violazione dell'art. 87 del Regolamento di Polizia Urbana del Comune di Milano che statuisce: «E’ vietata qualunque esposizione d’insegne, vetrine, cartelli, frontoni, ditte e pubblicità d’ogni specie, senza l’approvazione dell’Autorità Comunale. Le leggende devono essere in corretta lingua italiana. Si può tuttavia aggiungere la traduzione in lingua straniera purché in caratteri meno appariscenti».
Rammento distintamente che un paio d'anni fa il Comune ha tappezzato l'intiera città di volantini recanti la scritta «EXPO 2015», e nel vocabolario della nostra bella lingua non ritrovo questa parola. Più di recente il Comune inoltre ha creato, e pubblicizza con cartelli e manifesti, i servizi di «bike sharing» e «car sharing». Ha aperto al pubblico lo «Urban Center», fornisce il servizio «Traffic News» e a tarda sera fa circolare il «Bus by Night»: tutta roba che non so cosa sia ma mi mette un po' di sospetto.
Quanto all'«Ecopass», di cui vedo avvisi ovunque, sospetto trattarsi di una crasi e un troncamento per "ecologia" e "passaggio", ma converrai con me che tutto ciò non è certo "corretta lingua italiana".
Del resto, il pesce puzza dalla testa: quando una giunta ha un assessore al «Turismo, marketing territoriale e identità», come può pretendere di dar lezioni d'italiano?
Un caro saluto,
M.
*Piero Colaprico è il tenutario della rubrica Postacelere sulle pagine milanesi di Rep.
vorrei per il tuo tramite denunciare il Sindaco Moratti, il vicesindaco De Corato e la Giunta Comunale tutta per violazione dell'art. 87 del Regolamento di Polizia Urbana del Comune di Milano che statuisce: «E’ vietata qualunque esposizione d’insegne, vetrine, cartelli, frontoni, ditte e pubblicità d’ogni specie, senza l’approvazione dell’Autorità Comunale. Le leggende devono essere in corretta lingua italiana. Si può tuttavia aggiungere la traduzione in lingua straniera purché in caratteri meno appariscenti».
Rammento distintamente che un paio d'anni fa il Comune ha tappezzato l'intiera città di volantini recanti la scritta «EXPO 2015», e nel vocabolario della nostra bella lingua non ritrovo questa parola. Più di recente il Comune inoltre ha creato, e pubblicizza con cartelli e manifesti, i servizi di «bike sharing» e «car sharing». Ha aperto al pubblico lo «Urban Center», fornisce il servizio «Traffic News» e a tarda sera fa circolare il «Bus by Night»: tutta roba che non so cosa sia ma mi mette un po' di sospetto.
Quanto all'«Ecopass», di cui vedo avvisi ovunque, sospetto trattarsi di una crasi e un troncamento per "ecologia" e "passaggio", ma converrai con me che tutto ciò non è certo "corretta lingua italiana".
Del resto, il pesce puzza dalla testa: quando una giunta ha un assessore al «Turismo, marketing territoriale e identità», come può pretendere di dar lezioni d'italiano?
Un caro saluto,
M.
*Piero Colaprico è il tenutario della rubrica Postacelere sulle pagine milanesi di Rep.
martedì 3 agosto 2010
Tenera, dolce, ingenua
Arianna Ciccone in questo pezzo si chiede perché mai «12.000 persone “riunite” su Facebook varrebbero di meno che 100 in piazza».
E il bello è che non è una domanda retorica: se lo chiede davvero, e cerca una spiegazione.
E il bello è che non è una domanda retorica: se lo chiede davvero, e cerca una spiegazione.
Autorevolezza del quotidiano chic
Che Repubblica prenda una topica non è certo una novità. Che la prenda non su una notizia di fisica teorica o anche solo d'elettronica di consumo, bensì sui fondamentali del modo di fare giornale, forse è un po' più grave.
Vittorio Zambardino (che già in passato avevamo avuto modo d'apprezzare) in questo articolo (ripreso nella home page con il lancio che riporto qui a fianco) attribuisce al Washington Post la tesi secondo cui il Presidente Obama dovrebbe «catturare Julian Assange e far fuori Wikileaks. Con le buone o le cattive».
Il nostro inizia il pezzo scrivendo: «In un primo momento si è indotti a pensare che a parlare sia un blogger. Ma Marc Thissen è un autorevolissimo commentatore, un OP Ed Columnist». E chi non abbia ben presente la struttura di un giornale americano (vale a dire il 90% dei lettori di Repubblica) non potrà che pensare: - "Minchia, un Op Ed Columnist! Dev'essere una carica importante assai nel giornale".
In realtà l'Op-Ed Columnist è uno che scrive sul giornale, ma che non condivide la linea del giornale né, di contro, il giornale sposa quanto viene scritto sull'OP-Ed.
Sarebbe bastato andare su wikipedia (e noi ben sappiamo che Repubblica non disdegna di attingere da lì l'ispirazione per i propri pezzi, quando non addirittura i propri pezzi tout-court) per vedere che OP-Ed è l'abbreviazione di "opposite the editorial page": vale a dire, letteralmente, pezzi che vengono ospitati nella pagina opposta a quella degli editoriali e che spesso esprimono opinioni differenti quando non francamente critiche con la linea editoriale del quotidiano.
Non che ci sia bisogno di sapere l'inglese, peraltro: lo spiega anche la wiki di lingua italiana.
Quindi, Repubblica non avrebbe dovuto titolare «Il WP: "Wikileaks, un sito di criminali"» bensì, correttamente: «Marc Thissen: "Wikileaks, un sito di criminali"».
Ma allora che notizia sarebbe stata?
Vittorio Zambardino (che già in passato avevamo avuto modo d'apprezzare) in questo articolo (ripreso nella home page con il lancio che riporto qui a fianco) attribuisce al Washington Post la tesi secondo cui il Presidente Obama dovrebbe «catturare Julian Assange e far fuori Wikileaks. Con le buone o le cattive».
Il nostro inizia il pezzo scrivendo: «In un primo momento si è indotti a pensare che a parlare sia un blogger. Ma Marc Thissen è un autorevolissimo commentatore, un OP Ed Columnist». E chi non abbia ben presente la struttura di un giornale americano (vale a dire il 90% dei lettori di Repubblica) non potrà che pensare: - "Minchia, un Op Ed Columnist! Dev'essere una carica importante assai nel giornale".
In realtà l'Op-Ed Columnist è uno che scrive sul giornale, ma che non condivide la linea del giornale né, di contro, il giornale sposa quanto viene scritto sull'OP-Ed.
Sarebbe bastato andare su wikipedia (e noi ben sappiamo che Repubblica non disdegna di attingere da lì l'ispirazione per i propri pezzi, quando non addirittura i propri pezzi tout-court) per vedere che OP-Ed è l'abbreviazione di "opposite the editorial page": vale a dire, letteralmente, pezzi che vengono ospitati nella pagina opposta a quella degli editoriali e che spesso esprimono opinioni differenti quando non francamente critiche con la linea editoriale del quotidiano.
Non che ci sia bisogno di sapere l'inglese, peraltro: lo spiega anche la wiki di lingua italiana.
Quindi, Repubblica non avrebbe dovuto titolare «Il WP: "Wikileaks, un sito di criminali"» bensì, correttamente: «Marc Thissen: "Wikileaks, un sito di criminali"».
Ma allora che notizia sarebbe stata?
lunedì 2 agosto 2010
Regolamento di polizia urbana del Comune di Milano
Come oramai universalmente noto, l'art. 87 del Regolamento di Polizia Urbana del Comune di Milano prescrive:
Credo sia il caso di passare in rassegna altre disposizioni neglette, per rinfrescare la memoria ai concittadini che troppo spesso violano inconsapevolmente le leggi che regolano la vita nella nostra operosa città.
Art. 23. Rotolamento o trascico d’oggetti.
E’ vietato sugli spazi pubblici far rotolare o trascinare botti, cerchioni, ruote ed oggetti pesanti.
Art. 74. Atti contro la decenza. - luoghi di decenza.
In qualsiasi luogo pubblico è vietato soddisfare alle naturali occorrenze fuori degli appositi manufatti. E’ vietato imbrattare, in qualsiasi modo, guastare le latrine e gli orinatoi pubblici e gli oggetti che vi si trovano.
E’ pure vietato allontanarsi dai camerini delle latrine e dagli orinatoi senza aver rimessi gli abiti completamente in ordine.
Art. 80 - Operazioni vietate nei luoghi pubblici.
Nei luoghi pubblici è vietato:
a) pascere o far pascolare animali, domarli, addestrarli, ungerli, strigliarli, tosarli e ferrarli;
b) pulire i veicoli, i finimenti e gli utensili di stalla e rimessa;
c) pigiare uva;
d) gettare o abbandonare materia in stato di combustione;
e) esporre e trasportare ferri taglienti, vetri ed oggetti pericolosi senza le necessarie cautele
Art. 114. Vendita con ceste.
I venditori ambulanti con ceste, cassette e simili non possono deporre le medesime sul suolo, che pel tempo necessario all’atto della singola vendita.
Art. 120. Carretta.
La carretta deve essere delle dimensioni stabilite dall’Autorità Comunale, ben verniciata da potersi lavare e mantenuta con la massima pulizia, al concessionario è fatto obbligo, quando attenda alla vendita di derrate alimentari, di procedere ad accurata lavatura della carretta, ciascun giorno prima di cominciare la vendita.
I generi alimentari dovranno, durante l’esercizio del commercio, essere difesi da un velo.
Particolarmente pregnanti ho trovato le disposizioni contenute nell'articolo che segue:
134. Suonatori ambulanti.
L’uso dei piani a cilindro e d’altri strumenti musicali è limitato alle ore 9 alle ore 20 dal 1° novembre a 1° marzo, e dalle ore 8 alle ore 21 dal 2 marzo al 31 ottobre.
Ai suonatori ambulanti di piano a cilindro è inibito di suonare e di fermarsi:
a) nelle zone comprese nel limite segnato dall’anello della nuova circonvallazione del piano d’ampliamento, costituito dai viali Umbria, Piceno, dei Mille, Abruzzi, Brianza, Marche, Jenner, Caracciolo, Ruggero di Lauria, Buonarroti, Elba, Vesuvio, Bergognone, Tibaldi, Toscana ed Isonzo, nonché nelle vicinanze d’ospedali, case di cura, cliniche ed istituti d’educazione che si trovino in località esterne alla nuova circonvallazione;
b) in tutte le vie, i corsi e le piazze percorse da tranvie.
E’ pure fatto divieto di sostare suonando ai crocevia e sbocchi di vie e in ogni località ove si verificasse uno straordinario concorso.
E’ in ogni caso fatto divieto di sostare suonando in qualsiasi località abitata, per un periodo di tempo superiore ai 10 minuti.
Buona convivenza a tutti!
Iscrizioni sulle insegne, vetrine, ecc.Il vicesindaco De Corato giustamente richiama all'ordine e al rispetto delle leggi: ne abbiamo parlato negli scorsi post.
E’ vietata qualunque esposizione d’insegne, vetrine, cartelli, frontoni, ditte e pubblicità d’ogni specie, senza l’approvazione dell’Autorità Comunale. Le leggende devono essere in corretta lingua italiana. Si può tuttavia aggiungere la traduzione in lingua straniera purché in caratteri meno appariscenti.
Saranno tollerati per la durata non superiore a tre mesi i cartelli provvisori in carta o tela.
Credo sia il caso di passare in rassegna altre disposizioni neglette, per rinfrescare la memoria ai concittadini che troppo spesso violano inconsapevolmente le leggi che regolano la vita nella nostra operosa città.
Art. 23. Rotolamento o trascico d’oggetti.
E’ vietato sugli spazi pubblici far rotolare o trascinare botti, cerchioni, ruote ed oggetti pesanti.
Art. 74. Atti contro la decenza. - luoghi di decenza.
In qualsiasi luogo pubblico è vietato soddisfare alle naturali occorrenze fuori degli appositi manufatti. E’ vietato imbrattare, in qualsiasi modo, guastare le latrine e gli orinatoi pubblici e gli oggetti che vi si trovano.
E’ pure vietato allontanarsi dai camerini delle latrine e dagli orinatoi senza aver rimessi gli abiti completamente in ordine.
Art. 80 - Operazioni vietate nei luoghi pubblici.
Nei luoghi pubblici è vietato:
a) pascere o far pascolare animali, domarli, addestrarli, ungerli, strigliarli, tosarli e ferrarli;
b) pulire i veicoli, i finimenti e gli utensili di stalla e rimessa;
c) pigiare uva;
d) gettare o abbandonare materia in stato di combustione;
e) esporre e trasportare ferri taglienti, vetri ed oggetti pericolosi senza le necessarie cautele
Art. 114. Vendita con ceste.
I venditori ambulanti con ceste, cassette e simili non possono deporre le medesime sul suolo, che pel tempo necessario all’atto della singola vendita.
Art. 120. Carretta.
La carretta deve essere delle dimensioni stabilite dall’Autorità Comunale, ben verniciata da potersi lavare e mantenuta con la massima pulizia, al concessionario è fatto obbligo, quando attenda alla vendita di derrate alimentari, di procedere ad accurata lavatura della carretta, ciascun giorno prima di cominciare la vendita.
I generi alimentari dovranno, durante l’esercizio del commercio, essere difesi da un velo.
Particolarmente pregnanti ho trovato le disposizioni contenute nell'articolo che segue:
134. Suonatori ambulanti.
L’uso dei piani a cilindro e d’altri strumenti musicali è limitato alle ore 9 alle ore 20 dal 1° novembre a 1° marzo, e dalle ore 8 alle ore 21 dal 2 marzo al 31 ottobre.
Ai suonatori ambulanti di piano a cilindro è inibito di suonare e di fermarsi:
a) nelle zone comprese nel limite segnato dall’anello della nuova circonvallazione del piano d’ampliamento, costituito dai viali Umbria, Piceno, dei Mille, Abruzzi, Brianza, Marche, Jenner, Caracciolo, Ruggero di Lauria, Buonarroti, Elba, Vesuvio, Bergognone, Tibaldi, Toscana ed Isonzo, nonché nelle vicinanze d’ospedali, case di cura, cliniche ed istituti d’educazione che si trovino in località esterne alla nuova circonvallazione;
b) in tutte le vie, i corsi e le piazze percorse da tranvie.
E’ pure fatto divieto di sostare suonando ai crocevia e sbocchi di vie e in ogni località ove si verificasse uno straordinario concorso.
E’ in ogni caso fatto divieto di sostare suonando in qualsiasi località abitata, per un periodo di tempo superiore ai 10 minuti.
Buona convivenza a tutti!
Vuole un cachet, dottore?
Dopo aver letto il post di ieri, Licia ha sentito l'irrefrenabile bisogno di scendere in istrada e fotografare un altro cartello che, siamo certi, procurerà seri problemi all'incauto commerciante, ignaro del fatto che tutte le insegne esposte al pubblico debbono essere «in corretta lingua italiana».
domenica 1 agosto 2010
Un italianissimo cialdino
Il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, ha lanciato la campagna d'estate contro i cinesi di via Paolo Sarpi (che, per i non milanesi, sarebbe la chinatown di costì).
Questa volta fioccano le multe perché i commercianti hanno messo sui propri negozi le insegne in cinese, il che è illegale secondo il regolamento comunale, che prevede che le insegne debbano "essere in corretta lingua italiana", come riporta il Corriere.
Anzi: come spiega il Giornale, "le leggende devono essere in corretta lingua italiana", il che potrebbe dare qualche preoccupazione ai seguaci inglesi di Robin Hood, agli studiosi indiani del Mahabharata e ai rumeni che ancor oggi lucrano sui turisti che visitano il castello di Vlad Țepeș.
Comunque, se questa è la legge, va rispettata: che si tratti di leggende, di legende o di mere insegne.
E quindi fin da doman mattina il sottoscritto, come spero tanti altri onesti e volenterosi cittadini, si armerà di macchina fotografica per segnalare alle competenti autorità comunali, con tanto di documentazione fotografica, le insegne che non siano scritte nella più pura lingua di Dante.
Comincerò con PriceWaterhouseCoopers, Ernst & Young e Standards & Poor's. Poi credo opportuno fare un passaggio di fronte alla Piedra del Sol, al Tropico Latino e alla Cueva Maya. Penso poi di fotografare il Kaputziner Platz e la sede italiana di Commerzbank, per poi censurare lo spregio alla nostra bella lingua perpetrato da Omelette & Baguette e da Petit Bateau.
A quel punto sarò pronto per andare da High Tech e poi chiudere il giro con l'Hollywood Rythmoteque e il The Club. Ah, ma quelli li hanno già chiusi, accidenti.
Questa volta fioccano le multe perché i commercianti hanno messo sui propri negozi le insegne in cinese, il che è illegale secondo il regolamento comunale, che prevede che le insegne debbano "essere in corretta lingua italiana", come riporta il Corriere.
Anzi: come spiega il Giornale, "le leggende devono essere in corretta lingua italiana", il che potrebbe dare qualche preoccupazione ai seguaci inglesi di Robin Hood, agli studiosi indiani del Mahabharata e ai rumeni che ancor oggi lucrano sui turisti che visitano il castello di Vlad Țepeș.
Comunque, se questa è la legge, va rispettata: che si tratti di leggende, di legende o di mere insegne.
E quindi fin da doman mattina il sottoscritto, come spero tanti altri onesti e volenterosi cittadini, si armerà di macchina fotografica per segnalare alle competenti autorità comunali, con tanto di documentazione fotografica, le insegne che non siano scritte nella più pura lingua di Dante.
Comincerò con PriceWaterhouseCoopers, Ernst & Young e Standards & Poor's. Poi credo opportuno fare un passaggio di fronte alla Piedra del Sol, al Tropico Latino e alla Cueva Maya. Penso poi di fotografare il Kaputziner Platz e la sede italiana di Commerzbank, per poi censurare lo spregio alla nostra bella lingua perpetrato da Omelette & Baguette e da Petit Bateau.
A quel punto sarò pronto per andare da High Tech e poi chiudere il giro con l'Hollywood Rythmoteque e il The Club. Ah, ma quelli li hanno già chiusi, accidenti.