Tutto cominciò due anni fa, nel modo più stupido che si possa immaginare.
Ebbi una discussione, per motivi tutto sommato futili, sul blog di una frequentatrice del socialcoso alla quale dovevo esser risultato molto antipatico. La cosa non meriterebbe di essere ricordata se non fosse che a seguito di quello scambio di contumelie M. mi scrisse un messaggio per rappresentarmi il suo punto di vista sull'argomento che aveva originato lo scambio d'opinioni.
Fino ad allora M. era stata solo un'altra socialcosista, una tipa un po' strana, molto riservata e che parlava di cose che per lo più non capivo, come moda e sfilate. Fino a quel momento i nostri rapporti si erano limitati a qualche battuta, e a una sua serrata critica alla qualità delle mie stoviglie.
Sapete come succedono queste cose: si inizia una corrispondenza telematica, che poi diventa telefonica. A un certo punto ci si incontra; e incontrare M. fu tutt'altro che facile, dato che lei era riservatissima. Ma tanto insistei che alla fine cedette, una sera di Sant'Ambrogio.
Il primo impatto non fu granché positivo, anche perché io al primo incontro non sono mai stato un granché. Persi tempo a parlare di cose mie, spesi qualche parola sull'altra socialcosista: e questa cosa M. me l'ha sempre rinfacciata, bonariamente.
Insomma: le cose andarono male, ma io insistei e insistei, e così il primo gennaio ci mettemmo insieme.
Dopo due settimane a casa di M. c'erano due spazzolini da denti.
Poco dopo M. cominciò a zoppicare, per uno strappo o qualcosa di simile. Lo strappo non guariva, ma M. aveva una paura fottuta dei dottori, e solo dopo qualche mese, imponendomi di forza, ottenni che si lasciasse visitare e fare una radiografia, da cui emerse che lo strappo non era uno strappo.
M. con i dottori non ci voleva nemmeno parlare, e così fui io a dirle questo, come fui io a dirle che si trattava di un tumore, e poi che quel tumore era maligno.
A luglio iniziarono le cure, ma oramai la cosa era andata così avanti che l'osso si ruppe, e gliene misero uno nuovo di pacca.
Io passavo gran parte del tempo in ospedale, grazie anche al fatto che mio figlio era in vacanza in montagna: lei era immobilizzata, e quindi io le leggevo le lettere demenziali di Veltroni e gli articoli lunari di Severgnini, tanto che ci divertimmo a scrivere delle finte lettere e dei finti articoli, litigando sulla scelta dell'espressione più colorita.
Pian pianino le cose andarono meglio, M. ricominciò a camminare, per quanto certo non corresse, e intanto faceva la terapia che avrebbe potuto iniziare assai prima.
Facevamo una vita molto casalinga, un po' per il suo carattere e un po' per i postumi dell'operazione alla gamba. Nel frattempo la terapia le aveva fatto perdere i capelli, ma lei non si fece mai vedere da me senza la parrucca, che teneva anche a letto e persino durante il giorno, quando era sola, per paura che entrassi in casa a sorpresa, come spesso facevo, e la vedessi in quello stato poco elegante.
Qualche tempo fa fummo invitati a una mangiata in campagna da un altro socialcosista: a M. sarebbe piaciuto partecipare, e oramai si era ristabilita abbastanza da poter viaggiare senza problemi. Alla fine decise di declinare l'invito, non volendo farsi vedere con la stampella e la parrucca, e temendo che qualche malalingua un giorno potesse prenderla in giro.
Ad agosto ci siamo fatti l'unica vera vacanza della nostra relazione: siamo andati a Gressoney, io, lei e il cagnone. Fu una settimana piacevolissima, anche se per la prima volta la nuova terapia le dava un po' di nausea.
Fu in montagna che cominciammo a vedere le puntate di Fringe, che la fidanzata di un altro socialcosista elegante le aveva consigliato, e che ci appassionò entrambi.
Una settimana fa stavamo vedendo una puntata della terza serie quando, malgrado il mio daltonismo, mi accorsi che gli occhi erano un po' giallastri. Lei, fedele al comportamento che aveva sempre tenuto, negò.
Martedì i medici dissero a me e a suo fratello che ormai c'erano poche settimane. A lei non lo dissero: avrebbero dovuto dirglielo proprio oggi, quando sarebbe dovuta tornare in ospedale, né noi potevamo farlo, né lo volevamo.
Venerdì mattina avrei dovuto partire per Budapest, per festeggiare i quarant'anni di amicizia con un mio compagno di giochi d'infanzia che ancor oggi è il mio miglior amico. Ero un po' tormentato non sapendo che fare: rimandare il viaggio sarebbe stato come dirle che stava molto più male di quanto credesse, e quindi decisi di partire.
Giovedì sera M. cucinò, litigammo perché io pretendevo di cenare con la tovaglia mentre lei preferiva le tovagliette all'americana, e come sempre vinsi io. Poi ci guardammo due puntate di Fringe della terza serie, e al momento di alzarsi dal divano M. mi chiese di aiutarla perché era stanca.
Fu un'ispirazione: la mattina dopo decisi di non partire e di passare il finesettimana con lei, forse l'ultimo in cui avremmo potuto stare sereni approfittando dell'ignoranza della sua condizione. Poi sarebbero venuti i momenti difficili, la coscienza della fine; ma avremmo avuto tre giorni tutti per noi.
E difatti abbiamo passato tre giorni di coccole e abbracci.
Venerdì siamo arrivati alla terz'ultima puntata della terza serie, ma sabato sera M. non se la sentiva di finire le ultime due puntate, e preferì andare a letto, dov'è rimasta tutto ieri.
Ho iniziato a scrivere questo post dopo che il prete ha dato a M. l'estrema unzione: ero seduto a fianco a lei, con il PC in grembo, come abbiamo fatto per due anni.
Quando ho finito di scrivere "spazzolino da denti" ho alzato gli occhi, e M. era morta.
Adesso sto finendo di scrivere questo post: sicuramente lei non lo approverebbe, ma per tutto il tempo della nostra vita insieme la rete e le sue amicizie sono sempre state un elemento importante.
Così ho scritto il post in prima persona, raccontando di quello che io ho passato e provato, e ora premerò il tasto per pubblicarlo.