venerdì 16 aprile 2010

La sentenza Google - le motivazioni /2

(prosegue da qui)

Questa volta ce la prendiamo (non è la prima volta) con Zambardino, il quale analizza la sentenza contro Google senza neppure averla letta.
Non ci scandalizziamo certo: in questi anni abbiamo imparato a conoscere il mondo dei commentatori in rete e sulla carta stampata, e non è certo questo il primo -né sarà l'ultimo- esempio di cattivo servizio al pubblico da parte dei professionisti dell'informazione.
Scrive, lo Zambardino che «La sentenza condanna Google solo per le infrazioni relative alla privacy, non per l’accusa di diffamazione, perché a seguito del ritiro della querela della persona offesa non si è potuto andare avanti su questo punto.» Scrive poi che «quando arriva a trattare dell’ipotesi di diffamazione, caduta per remissione di querela, che la prosa del dottor Magi è davvero allarmante.» Poi dice delle cose che non si capiscono, all'esito delle quali afferma che il giudice chiede «una legge che permetta di sanzionare non i responsabili dei reati – che è quanto di più ovvio – ma le responsabilità connesse».
tutto molto bello. Peccato che sia falso.

Come stanno in realtà le cose? Non è vero che l'ipotesi della diffamazione è caduta per remissione di querela. E' vero che il ragazzo ripreso nel video ha rimesso la querela, ma l'associazione Vivi Down, pure diffamata, non ha rimesso la propria querela, e quindi il procedimento è andato avanti anche per quanto riguarda questo capo d'accusa.
Non solo: il giudice ha anche disconosciuto le eccezioni della difesa, e statuito che la pubblicazione del video è stata diffamatoria verso l'associazione medesima.
La tesi dell'accusa basava la responsabilità di Google sull'art. 40 c.p., che dispone che «non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». In pratica si diceva: è vero che non è stata Google a pubblicare il video; ma Google aveva l'obbligo di impedirne la pubblicazione, e pertanto il non averlo fatto la mette nella stessa posizione di chi l'ha pubblicato. Sempre secondo l'accusa, l'obbligo di impedire la pubblicazione discendeva dalla normativa sulla privacy, che avrebbe imposto a Google un "controllo preventivo" su titti i contenuti pubblicati.
Cosa ha stabilito il giudice? Ha scritto che non esiste questo obbligo giuridico di controllo preventivo, ma anche che «non esiste la possibilità logica e umana di tale intervento sulla rete». Scrive inoltre:
Ed infatti, pur ammettendo per ipotesi che esista un potere giuridico derivante dalla normativa sulla privacy che costituisca l’obbligo giuridico fondante la posizione di garanzia, non vi è chi non veda che tale potere, anche se correttamente utilizzato, certamente non avrebbe potuto “ impedire l’evento” diffamatorio.
In altre parole anche se l’informativa sulla privacy fosse stata data in modo chiaro e comprensibile all’utente, non può certamente escludersi che l’utente medesimo non avrebbe caricato il file video incriminato, commettendo il reato di diffamazione. (...)
Per cui, nell’ipotesi in esame, l’obbligo del soggetto/web di impedire l’evento diffamatorio, imporrebbe allo stesso un controllo o un filtro preventivo su tutti i dati immessi ogni secondo sulla rete, causandone l'immediata impossibilità di funzionamento.
Considerata l'estrema difficoltà tecnica di tale soluzione e le conseguenze che ne potrebbero derivare , si è quindi in presenza di un comportamento “inesigibile”, e quindi non perseguibile penalmente ai sensi deIl’art. 40 cpv. CP.
Insomma: il giudice non sta dicendo che manca una buona legge che obblighi i provider a controllare preventivamente: sta dicendo che allo stato attuale della tecnologia tale controllo preventivo è impossibile, e quindi inesigible.
Ma c'è di più: dice ancora, il giudice, che esisterebbe una responsabilità penale solo qualora si potesse dimostrare la consapevolezza in capo a Google del contenuto delittuoso del video, è che tale consapevolezza è stata quasi dimostrata dall'accusa, ma a suo giudizio tale prova non è piena; e pertanto in assenza di una prova piena, gli imputati vanno assolti.
Il resto sono obiter dicta: considerazioni parallele alla sentenza, che hanno un proprio valore nell'inquadrare i motivi della decisione ma che non fanno propriamente parte della decisione. Tra questi c'è la molte volte citata frase «Perciò, in attesa di una buona legge che costruisca una ipotesi di responsabilità penale per il mondo dei siti Web (magari colposa, ed allora sì per omesso controllo), non resta che assolvere gli imputati dal reato di cui al capo A, reato che, così come formulato, non sussiste», che estrapolata dal contesto sembra avere un valore ottativo, ma che inquadrata nel resto della sentenza è una semplice constatazione.
Il medesimo giudice, peraltro, un paio di pagine dopo scrive che «In ogni caso questo giudice, come chiunque altro, rimane in attesa di una “buona legge” sull’argomento in questione: internet è stato e continuerà ad essere un formidabile strumento di comunicazione tra le persone e, dove c'è libertà di comunicazione c'è complessivamente più libertà, intesa come veicolo di conoscenza e di cultura, di consapevolezza e di scelta; ma ogni esercizio del diritto collegato alla libertà non può essere assoluto, pena il suo decadimento in arbitrio. E non c'è peggior dittatura di quella esercitata in nome della libertà assoluta : “legum servi esse debemus, ut liberi esse possumus” dicevano gli antichi e ,nonostante il tempo trascorso, non si è ancora arrivati a scoprire una definizione migliore.»

Come si faccia a scrivere che «Ma è proprio con sentenze come questa – in cui viene disatteso il rispetto dei principi più semplici di diritto e di buon senso – che si allontana internet dal resto del mondo civile, e che quindi lo si fa diventare far west» oppure che «quella di Milano era una sentenza molto Zeitgeist, molto in sintonia con certi umori repressivi. Lo confermo. Il giudice Magi fa tintinnare manette sul web. A futura, ma prossima, memoria» io proprio non riesco a comprenderlo.
L'unica spiegazione che mi viene in mente è che chi a suo tempo si è esposto propugnando una certa tesi (che la magistratura sia digiuna di tecnologia, che vi sia voglia di censura, che si voglia far uscire l'Italia dal consesso delle nazioni libere e civili) abbia dovuto fare ogni sforzo logico e argomentativo per trovare tracce di quella tesi nella motivazione della sentenza.

1 commento:

.mau. ha detto...

»L'unica spiegazione che mi viene in mente è che chi a suo tempo si è esposto propugnando una certa tesi (che la magistratura sia digiuna di tecnologia, che vi sia voglia di censura, che si voglia far uscire l'Italia dal consesso delle nazioni libere e civili) abbia dovuto fare ogni sforzo logico e argomentativo per trovare tracce di quella tesi nella motivazione della sentenza.

Occamicamente parlando, direi che è più facile qualcosa tipo «Chi propugna una certa tesi (che la magistratura sia digiuna di tecnologia ecc. ecc.) vede tutto sempre e solo secondo gli schemi mentali di quella tesi».

 

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