lunedì 31 agosto 2009

Caffè, listini, sconti.

Un mio precedente post prendeva spunto dalla polemica di fin'estate sui bar che truffano gli stranieri per dimostrare che, listini alla mano, la truffa agli stranieri proprio non c'era, dato che almeno uno dei locali accusati aveva praticato ai sedicenti turisti i prezzi di listino.
Ne è nata una serie di commenti, qui e in altri luoghi che hanno dato spazio alla cosa, talché credo sia opportuno un piccolo approfondimento, anche alla luce dell'ultimo dei commenti che ho ricevuto, nel quale si dà conto di un locale veneto che ha istituzionalizzato lo sconto agli italiani.
Il tema, lo dico subito, è tutt'altro che semplice da dipanare: si tratta di una di quelle questioni dove ci sono dei bianchi, dei neri, e un'infinità di sfumature di grigio che rendono impossibile dire se una certa tonalità sia più prossima al bianco o al nero.

Sono partito dal concetto che il commerciante è libero di praticare i prezzi che più gli aggradano, con il limite che non può praticare prezzi superiori a quelli di listino: ciò costituisce anzitutto un principio di diritto civile (artt. 1336 c.c.) e, successivamente, di diritto penale (art. 640 c.p.)
E' vero che a Milano si usa poco, ma in altri luoghi (chessò: Lucca) è perfettamente normale andare a comperare un paio di scarpe da 10 euri (non cento né mille: dieci) e chiedere lo sconticino; credo nessuno di voi possa ritenere che il negoziante non abbia il diritto di praticarlo.
Come pure sappiamo che ci sono i voli last minute e gli alberghi convenzionati. Personalmente io non ho mai (ma dico mai) pagato per una camera d'albergo il prezzo esposto al pubblico: e non solo quando ho viaggiato per lavoro, ma anche quando sono arrivato da solo privatamente in una città sconosciuta verso sera: basta chiedere e la riduzione è praticamente automatica (seppur magari di piccola misura).
Si può contestare il fatto che altro è il praticare lo sconto a chi lo chiede, e altro farlo in funzione della sua faccia: ma non mi sembra sia questo il punto, non foss'altro per il fatto che chiunque ha interesse ad ottenere uno sconto e si può dire che sia una specie di richiesta implicita: chi mai può avere interesse a pagare di più una cosa che può pagare di meno?

Passin passino, però, arriviamo al punto di cui al commento che citavo all'inizio: quello del caffè che istituzionalizza lo sconto agli italiani, scrivendolo a chiare lettere sul listino. Non so se la cosa sia vera, né se sia legale, in quanto non sono certo che un esercizio pubblico possa formulare listini differenziati: certo mi ricorda molto da vicino i tempi lontani in cui andavo in Romania, laddove istituzionalmente (e in modo del tutto trasparente) agli stranieri veniva praticato un prezzo e agli indigeni un prezzo di un ordine di grandezza inferiore per gli stessi servizi: il che era ben giustificato dalla differenza tra i redditi pro-capite.
Ma qui siamo in Italia (e del resto anche in Romania tale pratica non esiste più da lunga pezza). Indipendentemente dalla legalità o meno della cosa, mi sembra il problema sia di opportunità e di presentabilità.
Anzitutto, altro è praticare degli sconti e altro differenziare i listini: questa seconda pratica mi sembra molto più antipatica della prima, e se fossi un turista mi farebbe rivoltare gli zebedei (in quanto praticata in un paese che pretende di essere una potenza mondiale: ché se fosse praticata un Moldavia mi sembrerebbe, invece, quasi ovvia, e mi stupirei del conbtrario).
Ma, soprattutto, il listino differenziato, o lo sconto così largamente istituzionalizzato, non ha proprio alcuna ragion d'essere che non sia un velato sciovinismo (non si tratta di razzismo, badate). Il Caffè di via Mercanti che pratica lo sconto all'(apparente) impiegato lo fa perché quel signore può diventare un cliente abituale (cosa che con i prezzi del listino ufficiale al pubblico è tutt'altro che probabile): e il Caffè ha bisogno di clienti abituali, dato che di mesi nell'anno ce ne sono dodici, molti dei quali poveri di turisti ma ricchi di conti da pagare.
Se lo sconto viene praticato non solo all'apparente impiegato bensì anche al siciliano in visita al Duomo, la cosa diventa però priva di senso, dato che è molto più probabile che tra i clienti si ripresenti il luganese piuttosto che il palermitano, non foss'altro perché questi abita venti volte più distante del primo.
Quindi direi che il criterio che dovrebbe fare la differenza per giudicare -non tanto della legittimità quanto- dell'opportunità di questa pratica commerciale è proprio l'esistenza in capo al gestore dell'interesse ad assicurarsi, almeno in via potenziale, un nuovo cliente abituale. Dove tale interesse non è ravvisabile, credo che la pratica dell'andar fuori listino sia censurabile, mentre negli altri casi non vi vedo nulla da ridire.

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