mercoledì 14 aprile 2010

La sentenza Google - le motivazioni

Sono molto interessanti, le motivazioni della sentenza contro Google. La trovate qui, e vale proprio la pena di leggerla (a partire dalla pag. 87, ché prima viene la ricostruzione probatoria).
Emerge anzitutto che il giudice monocratico ha capito come funziona la Internet molto meglio di tanti altri: dei pubblici ministeri, per cominciare, che (loro sì!) avevano impostato l'accusa in termini che avrebbero ammazzato ogni possibilità di sviluppo della rete in Italia; e meglio anche di tanti improvvisati commentatori, che hanno blaterato sciocchezze dopo la pronuncia del dispositivo di condanna, e pure ora citano brani a caso estratti dalla sentenza per dare l'impressione di un abominio giuridico-tecnologico.
La sentenza invece è un piccolo capolavoro di equilibrio, e dimostra che vi sono -anche in campi che non sono proprio coerenti con la propria formazione- giudici che riescono ad approfondire e capire.

Vediamo anzitutto le motivazioni per la condanna ai sensi del capo B d'imputazione: quello per la violazione della legge sulla Privacy.
Il giudice ricostruisce inizialmente il ruolo di Google, distinguendo tra hosting provider e content provider. Lo fa perché questa è stata l'impostazione dei PM, e conclude -conformemente a quanto affermato dall'accusa- che Google agisce come content provider piuttosto che come hosting provider. Dopodiché afferma che tale distinzione non serve a niente, dato che chiunque "tratti" i dati, anche solo per la mera raccolta, è sottoposto agli obblighi della legge sulla privacy.
Ma, si chiede il giudice, si può pensare che un qualunque fornitore di servizi su Internet sia tenuto a verificare preventivamente che ciascun contenuto sia in regola dal punto di vista delle autorizzazioni in tema di privacy? La risposta è negativa, sulla base del principio ad impossibilia nemo tenetur. E non vale la sentenza di Cassazione richiamata dall'accusa, che in tema di diritto d'autore aveva affermato la responsabilità penale di un provider in una fattispecie del tutto diversa.
Il fatto, afferma il giudice, è che "non esiste, a parere di chi scrive, perlomeno fino ad oggi, un obbligo di legge codificato che imponga agli ISP un controllo preventivo della innumerevole serie di dati che passano ogni secondo nelle maglie dei gestori o proprietari dei siti web, e non appare possibile ricavarlo aliunde superando d’un balzo il divieto di analogia in malam partem, cardine interpretativo della nostra cultura procedimentale penale".
E allora perché la condanna? Semplice: perché però "è imponibile un obbligo di corretta informazione agli utenti dei conseguenti obblighi agli stessi imposti dalla legge, del necessario rispetto degli stessi, dei rischi che si corrono non ottemperandoli", e di questo obbligo Google se ne è strafregato (mi sia consentito dire che anche questo l'avevo già scritto a suo tempo).
Google infatti ha nascosto l'informativa sulla privacy e sui relativi obblighi spettanti ai contributori all’interno di "condizioni generali di servizio" il cui contenuto appare spesso incomprensibile , sia per il tenore delle stesse che per le modalità con le quali vengono sottoposte all’accettazione dell’utente. E ditemi voi se, anche in base alla vostra esperienza, ciò risponda o meno al vero. Mi piace citarvi anche il seguente passaggio, sempre in termini di chiarezza della cosiddetta "informativa": Ad assoluta riprova di quanto fin qui riferito, nel momento in cui l’utente più attento e testardo di altri avrebbe voluto compulsare "i punti salienti della normativa sulla privacy di Google" avrebbe scoperto, al punto 2 della medesima ("Quali sono i dati personali e gli altri dati che raccogliamo") che "Google raccoglie dati personali quando vi registrate per accedere ad un servizio di Google ..": non vi è chi non veda che chiunque legga questa frase non può che pensare ai "propri" dati personali e non certo a quelli delle persone incautamente citate o riprese nei "contenuti autorizzati".
In sintesi: Google non è colpevole perché non ha verificato che per il video caricato fosse stato acquisito il consenso dell'interessato: dato che tale verifica sarebbe stata un compito impossibile. E' colpevole perché ha dato un'informativa sulla privacy fatta con i piedi; ed è soprattutto colpevole perché, essendo perfettamente cosciente del fatto che il servizio offerto è particolarmente rischioso dal punto di vista della privacy altrui (come emerge dall'istruzione probatoria), ha scientemente deciso di non evidenziare adeguatamente tale tema agli utenti al fine di massimizzare il numero di contributi raccolti e attraverso essi il profitto. Secondo il giudice, insomma, Google ha scelto di non mettere in guardia i contributori perché in tal modo avrebbe potuto raccogliere meno contributi, e quindi meno soldi. Ed è per questo, e solo per questo, che i suoi dirigenti sono stati condannati.
(continua)

3 commenti:

Lele ha detto...

Quindi, se ho capito bene, i dirigenti di Google sono stati condannati indipendentemente dai contenuti del video in questione?

Ipazia Sognatrice ha detto...

Uhm, non so se ho ben capito, ma vorrei fare una domanda: dato che in genere moltissime normative sono poco comprensibili a chi non mastica di legalese (e non solo su internet) chi eventualmente le infrange non sarebbe comunque colpevole perché 'ignorantia legis non excusat'? Girando la questione, dato che google aveva comunque esplicitato - seppure in maniera poco chiara - le proprie condizioni d'uso, non sarebbe quindi obbligo degli utenti prenderne atto e informarsi sulle stesse? Quando tu crei un account google, se non erro, spunti la casellina in cui si dice 'prendo atto e accetto le condizioni d'uso'.
Spero che la questione sia pertinente e di aver ben compreso il post. Grazie

m.fisk ha detto...

L'art. 5 del codice penale dice che "Nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale". Ma qui non stiamo parlando del fatto che sia stata trasferita a Google la responsabilità di ciò che ha fatto chi ha registrato il video e l'ha uploadato: il giudice ha anzi escluso (vedi la seconda puntata del post) che tale responsabilità sia configurabile.
La sentenza dice che Google aveva il dovere di dare una certa informativa, non l'ha fatto e ci ciò (e solo di ciò) deve rispondere. Non c'entra il fatto che sia stato pubblicato un video infame: c'entra solo il fatto che le forme nelle quali è consentito di pubblicare un video -un qualsiasi video- non rispettano la legge.
E' molto importante comprendere che quello che viene condannato non è il fatto che il video possa essere un reato in sé: il video conteneva dati sensibili (lo stato di salute del ripreso), e quand'anche fosse stato del tutto diverso, comunque la responsabilità per averne consentito la messa in rete senza un'adeguata informativa vi sarebbe stata.

Q

 

legalese
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