domenica 22 novembre 2009

Ceffoni

Correva l'anno 2004, e io mi ero fidanzato, abbastanza felicemente, con una signora che aveva un che di diverso dalla norma. Il 90% delle mie relazioni infatti ha avuto luogo con donne passate sotto le sgrinfie dello psicanalista, e pur se Milano è una città che si discosta dalla media nazionale, capite bene che io devo avere un certo magnete, per attrarre ed essere attratto sempre da quel tipo di persone. Nel caso specifico, invece, questa signora non solo era passata dallo psicanalista, ma faceva anche la psicanalista di suo, seppur tirocinante; e al contempo la neuropsichiatra infantile.
I nostri riposi notturni erano spesso interrotti dall'infermiera che telefonava per dire che una delle bambine della comunità da lei diretta si era bevuta una bottiglia di shampoo, o aveva dato fuoco al materasso, o ancora si era impiccata o tagliata le vene. A volte, a cena, squillava il telefono e lei per un'oretta se ne stava fuori dal ristorante a parlare con la sorvegliante o la matta di turno, convincendola a farsi fare un'iniezione, mentre io facevo il commesso viaggiatore, solo al tavolo, con la candela tristemente accesa solo per me.
Una volta, dopo che una delle bambine aveva rovesciato il carrello del pranzo per ripicca contro uno degli educatori, lasciando tutta la comunità a mangiar panini, avevo espresso l'opinione che forse forse un paio di sani ceffoni avrebbero fatto molto più di ore passate a convincere le matte che i carrelli debbono stare sui pavimenti e gli shampi nelle bottiglie: tanto più che buona parte di quelle ore erano trascorse fuori dell'orario di lavoro, lei all'addiaccio e io a rimirare la (costosissima) candela che si accorciava, meditando sui vantaggi delle osterie di paese e dei ristoranti a prezzo fisso.
La prima volta che tirai fuori quest'argomento, quello dei ceffoni, ricevetti tale e tanta lavata di capo da farmi desiderare non solo di non aver mai avviato quel discorso, ma perfino di non essere nato. La Violenza, la Responsabilità, la Crescita, il Libero Arbitrio, la Costruzione del Sé. Tutte robe bellissime, per carità; ma quando poi mi trovavo a parlare del cibo con la candela, o peggio a passare le nottate in macchina sotto l'ospedale di ***, tutte queste Parole Maiuscole mi sembravano vane; e non sono tuttora certo che le iniezioni, l'unico strumento efficace una volta esclusi i ceffoni, non siano un rimedio peggiore.

Nell'ottobre di quell'anno lei partecipò a un congresso a Pisa: Pisa infatti è la sede della principale scuola di specialità in neuropsichiatria infantile, e lei aveva passato lì gli anni di studio dopo la laurea.
Decidemmo di fare una vacanzina e andare con Nichita, che all'epoca aveva cinque anni, e che aveva in grandissima simpatia la mia compagna, che sapeva sempre come prenderlo, grazie ad anni di mestiere. Naturalmente in quei giorni frequentammo perlopiù neuropsichiatri infantili: colleghi e soprattutto colleghe che avevano studiato insieme e che erano tornati in città dalle varie parti d'Italia apposta per quel congresso.
Tutta gente espertissima di bambini e di adolescenti; e -ohibò, che caso- un solo genitore: io.
Mi sentivo sotto esame, non lo nego; e non avevo ancora sviluppato certi aspetti un po' egotici del mio carattere, tali da farmene fregare dell'opinione di un consesso di esperti.
Fui quindi molto trattenuto: quando Nichita faceva qualcosa di sbagliato non ponevo in atto tutti quei complessi rituali che avevo sviluppato con il tempo, con i quali gli indicavo che era ora di smetterla di fare ciò che stava facendo bensì, in omaggio allo spirito del tempo e della compagnia, cercavo di farlo ragionare.
In tempi normali, qualora Nichita avesse cominciato, chessò, a provare il filo del coltello sulla sua giacca, gli avrei detto dapprima "piantala", poi "se non la pianti ti spezzo le ditina", poi ancora "adesso ti arriva un ceffone": annuncio serio (a differenza del precedente), al quale lui sapeva che sarebbe immancabilmente seguito il ceffone, se avesse deciso di persistere.
In quell'occasione, invece, non facevo nulla di tutto ciò. cercavo di far sì che Nichita non si tagliuzzasse la giacca, o i pantaloni del vicino, declinandogli per filo e per segno come e qualmente la giacca costasse molto, e sarebbe stato un vero peccato non potersi coprire adeguatamente una volta usciti. In ciò avevo manforte dagli altri convitati, i quali aggiungevano alle mie tante argomentazioni di buon senso, così che il tutto sembrava più un congresso del PD che una cena tra amici.
Nichita, semplicemente, se ne strafregava. Il punto è che un bambino di cinque anni non ha un'idea abbastanza chiara della linea del tempo e delle relazioni di causa ed effetto. Si annoia? Si taglia la giacca: e nessuna argomentazione razionale potrà far sì che la paura del freddo possa avere la meglio sulla distrazione del momento.

Passarono tre o quattro giorni. Era domenica, eravamo su una terrazza, in un bar sul Lungarno; c'erano un paio di colleghi tra cui la primaria di neuropsichiatria infantile di un grandissimo ospedale. Nel corso di quei tre giorni, Nichita aveva capito che era successo qualcosa: come uno scassinatore tenta la combinazione per vedere se riesce a cogliere il rumore degli scatti, lui aveva dapprima tentato di prendersi delle piccole libertà, per poi allargarsi via via sempre di più, non trovando la mia consueta resistenza.
Nel momento che sto ora narrando, Nichita è in piedi, sul tavolo, i bicchieri rovesciati. Un panino nella mano, dal quale ha estratto la bresaola che brandisce sopra di sé, come l'uva per un Bacco, e canta. La primaria, alla quale debbo riconoscere un'enorme coerenza nelle proprie idee e una calma olimpica (e che naturalmente è priva di figli, ci mancherebbe!) a un tratto cede, e tra sé borbotta «eh, certo, forse a questo punto ci vorrebbe un intervento correttivo».
Io un secondo più tardi sarei comunque scattato, avendone abbastanza; ma lei mi aveva preceduto e a quel punto, liberato del mio senso di soggezione psicologica, tiro giù il mostro dal tavolo, e con la voce più cattiva che riesco ad impostare gli intimo di piantarla di fare lo stronzo. In tempi normali tale minaccia sarebbe bastata a farlo smettere immediatamente, ma quelli non erano tempi normali, e lui non poteva essersi accorto che ra tornata in auge l'aria di un tempo: per cui riprende, sereno e fiducioso nel fatto che la punizione non arriverà. Un altro richiamo, inutile, dopodiché, adeguatamente preannunciato, parte un ceffone, che si sente fino a Lucca e che gli fa rivoltare la testa.
In quel preciso momento succedono due cose: Nichita, sbalordito, si rende conto che la pacchia è finita, e si chiude in un mutismo rancoroso, liberando tutta la compagnia della sua ingombrante presenza; la primaria, borbottando, accenna a qualcosa sul fatto che "bisognerebbe dare delle sculacciate perché lo schiaffo umilia". Io la fisso, occhi negli occhi, e le dico: - "vedi, *** capisco che per te possa essere difficile intenderlo, ma sappi che per farlo smettere con le sculacciate avrei dovuto dargliene tante da strappargli la pelle del culo, mentre con un solo ceffone, proprio perché lo umilia, ha capito e ha smesso. Questa io la chiamo educazione, quella tortura".

Non pretendo di essere il migliore dei padri possibili: perché fare il genitore non è cosa che si impari e non ci sono esami che tengano; so anche che ci sono bambini che mai si permetterebbero di comportarsi come si comporterebbe mio figlio in un ipotetico stato di natura. Io, per dire, ero un bambino buonissimo, talmente buono che ho dovuto arrivare a quasi vent'anni per svegliarmi un po' e liberarmi dalla mia indicibile timidezza. Quanto io ero chiuso e triste, e quindi buono, tanto lui è aperto e espansivo, e quindi vivace.
Io ringrazio Dio tutti i giorni, che non sia com'ero io, ma allo stesso tempo ho un preciso dovere di contrastare le tendenze più anarchiche del carattere, e ricondurlo nell'ambito dei comportamenti socialmente accettabili.
Per non rompere i coglioni al vicino d'aereo o di ristorante: ma soprattutto per far sì che un giorno sia un uomo e non un cretino.

9 commenti:

Ipazia Sognatrice ha detto...

Non ho figli, e quindi sei tu il docente. E sono io stessa un'ipotetica fan degli interventi correttivi che implichino lo sculaccione, o più raramente la sberla.
Non conosco la situazione e l'età delle pazienti in cura dalla tua fidanzata, ma permetto di avanzare questo piccolo commento: a cinque anni vanno bene cose che oltre non sono più accettate, o accolte nella maniera per la quale sono state messe in pratica. Un bambino di cinque anni percepisce il ceffone molto diversi da una ragazzina di dodici, o più.

m.fisk ha detto...

Ripeto qui ciò che ho detto su FF: i ceffoni e le sculacciate si danno fino agli otto, nove, eccezionalmente dieci anni. Dopo non hanno più alcun senso.

Ipazia Sognatrice ha detto...

Non te l'avrei scritto, se avessi letto la risposta su FF...

Thumper ha detto...

Post sacrosanto!

(E mi permetto di aggiungere, da genitore e dopo i commenti, che se ceffoni e/o sculaccioni sono giunti al momento giusto entro gli otto / nove anni, dopo, più che non avere più senso, non sono più necessari)

Anonimo ha detto...

Vado un pooco controcorrente, in quanto a metodi correttivi, visto che ho una figlia di quasi 5 anni che non ha mai preso ceffoni o sculacciate. :-)

Beh, certo, anche noi abbiamo i nostri metodi correttivi, tipo una bella sgridata e qualche minuto da sola a pensare in camera. Con lei funzionano. Funzionerebbero con altri? E chi lo sa?

Non so se per merito nostro o per carattere o per entrambe le cose, però devo dire che lacomizetta (nosta figlia) è veramente una bella persona che capisce tutto quello che le spieghiamo e anche qualcosa in più.

Concordo anche sul fatto che non c'è peggior consigliere di chi non ha nessuna esperienza sul campo: sbagliare facendo i genitori ci vuole un attimo e non è certo il ceffone come metodo correttivo che ti fa un buono o cattivo genitore. Conta anche tutto il contorno. Secondo me, la tua coerenza di comportamento è molto importante per Nichita, molto più del ceffone in quanto tale.

ciao
nicola.

Anonimo ha detto...

io ho 2 figlie di 5 e 3 anni che non hanno mai preso -da me- un singolo ceffone. Han preso urlate e minacce di chiusure nello sgabuzzino. E questo è peggio. Dall'altro ieri, per conto mio, ho deciso di chiedere loro scusa -a dire il vero ho sempre chiesto loro scusa subito dopo - e di eliminare anche urli e minacce. Può darsi che sbagli, e che questo le porterà ad essere delle selvagge incontrollate, ma non ho la coscienza di comminare correzioni che impattino sul fisico. Discuterò discuterò e discuterò. Non contesto assolutamente il tuo metodo, solo io non posso applicarlo. Se starò meglio io spero di poter far capire loro di più cosa è -forse- giusto e cosa no. Paolo

gliangelidelfocolare ha detto...

Sono una madre single di due figli, maschi, adolescenti. Due pensieri semplici: una sculacciata non ha mai ucciso nessuno, ma non ha neanche mai educato nessuno (salvo servire a chi la perpetra a sfogare rabbia e frustrazione; e qualche sculacciata l'ho data anch'io, perciò so di cosa parlo); un ceffone può, probabilmente non uccidere, ma ferire gravemente (tanto più se si sente fino a Lucca), ma di certo può uccidere dentro, togliendo rispetto per sé stessi.
Ma, soprattutto, se lei è un uomo quello che spera che suo figlio diventi un giorno, be'... allora le consiglio di fare la sola cosa davvero utile: sia uomo anche lei. Dalle sue righe io sento un individuo impaurito di se stesso, delle donne, dei giudizi degli altri, ma soprattutto del suo stesso figlio.
Sì, ha ragione su una cosa: che suo figlio non sia uguale a lei.
C'è da augurarselo.

m.fisk ha detto...

Cara signora,
si fidi: non è così. Può credermi o meno, ma Le assicuro che non è così. Lei non è la prima che ha interpretato letteralmente l'iperbole acustica, che è una figura retorica la quale non credevo dovesse essere esplicitata.
Dopodiché, si rassicuri, non ho mai tirato un ceffone per rabbia o frustrazione e non vivo alcuna delle paure che Lei mi attribuisce.

Anonimo ha detto...

Ho ricevuto da mia madre un solo schiaffo, che ho restituito - un giorno e ingiustamente - a mio figlio. Ho l'impressione che non sia la gravità della pena ma la sua ineluttabilità, a rendere efficace il sistema: la trattativa si fa a monte, si definiscono le condizioni, e se quelle non vengono rispettate scatta la sanzione. Spesso non si riesce ad arrivare ai bambini perchè si minacciano punizioni da incubo che poi non si attuano.

 

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