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martedì 4 gennaio 2011

Zuccopycat

Io ci ho questa bizzarra simpatia per Vittorio Zucconi, che mi comporta prese in giro da parte di amici e fidanzate.
Ho addirittura dei suoi libri in casa, e il sabato la prima cosa che leggo su D è la sua rubrica: sono malato, ma considerato che ci sono altri che violentano le bambine, in fondo in fondo trovo che il mio vizio sia abbastanza innocuo per la società.
Poi ci ho questo odio per le primarie, e non solo perché piacciono tanto a Renzi e Civati: chi mi legge da un po' di tempo sa che si tratta di un odio razionale e argomentato, che dura da sempre con discreta coerenza.

Tutta questa premessa perché questo primo post dell'anno parla male di Zucconi e bene delle primarie; ma non è che mi sia preso una botta in testa: semplicemente quando ci vuole ci vuole.
Afferma, Zucconi, che con le primarie o si afferma il candidato più d'apparato che ci sia, o vince un outsider ma, in tal caso,«si afferma (schema Vendola) qualcuno che piace moltissimo a pochi e pochissimo a molti, quasi sempre garantendo la sconfitta nelle sole elezioni che contano, quelle generali, a meno che gli avversari facciano la cortesia di dividersi i voti, come avvenne per Vendola in Puglia (Poli Bortone)».
Ora, quella riportata non è un'asserzione contestabile: è semplicemente una castroneria: e né Zucconi né i pochi lettori di questo blog hanno certo bisogno di link per rammentare quante volte i candidati usciti dalle primarie e non d'apparato hanno vinto alle elezioni generali: a cominciare da Vendola, che ha avuto successo due (DUE) volte, per arrivare giù giù, scavando scavando, fino a Matteo Renzi (to'!).

Ci sono tanti nomi usciti dalle primarie che hanno vinto le elezioni, e tanti nomi che le hanno perse: il che dovrebbe essere la miglior dimostrazione che, se lo scopo delle primarie fosse quello di vincere le elezioni, allora sarebbero lo strumento sbagliato. e del resto chi pensasse che le primarie servano a vincere le elezioni farebbe bene a confrontarsi con la realtà degli USA (specie se cittadino di costà), laddove alle elezioni generali si scontrano due candidati ambedue usciti proprio dalle primarie, che evidentemente non possono sedere entrambi dietro la Resolute Desk.

venerdì 17 dicembre 2010

E' il Sabato fatto per l'Uomo

Oggi Pierluigi Bersani in un'intervista su Repubblica comincia a delineare un vago barlume di progetto politico, parlando di contenuti e di alleanze.
Ma, dato che il mondo è pieno di coglioni*, subito c'è chi gli si scaglia contro per aver affermato che in nome di un progetto politico concreto sarebbe anche possibile superare le primarie.

Quello di confondere gli strumenti con gli obiettivi è un vizio comune in molte persone: visto che siamo a Natale, chiarirò la questione con un esempio.
Ci sono coloro che il 26 dicembre vanno al cinema: e vanno a vedere qualsiasi cosa, da Neri Parenti a Clint Eastwood, perché il 26 dicembre si deve andare al cinema.
Ecco: le primarie sono il 26 dicembre, e il progetto politico è il film: io apprezzo molto di più chi va a vedere Massimo Boldi per scelta, consapevole di ciò che va a vedere, e che si sganascia dal ridere vedendo gli ippopotami scoreggioni, piuttosto che chi, capitato per caso in una sala buia, si sorbisce per due ore Gran Torino e alla fine conclude che "certo è un po' lento".


* statisticamente si può affermare che vi sia poco meno di un coglione per abitante, dal momento che la percentuale di femmine è lievemente superiore a quella dei maschi

mercoledì 15 dicembre 2010

Alcune considerazioni a margine del voto di fiducia

Senza la pretesa di scrivere alcunché di originale, annoto qui alcune delle riflessioni passate per la mente ieri, nella giornata che ha visto il Governo Berlusconi passare indenne la mozione di sfiducia.
Inizierò da Franceschini: un po' perché, come mi faceva notere .mau., io ci ho un pianeta verso i segretari del PD, e verso Franceschini sono stato colpevole di scarsa attenzione; e un po' perché la sua dichiarazione è forse la più surreale delle giornata.
Per affermare, come ha fatto il nostro, che «Il Pd oggi ha fatto il suo dovere, 206 deputati presenti e 206 voti favorevoli alla mozione di sfiducia» ci vuole una dose d'infingardaggine che, francamente, non mi aspettavo di scoprire nel placido ferrarese, il quale non può neppure invocare l'età avanzata o la scarsa partecipazione alla vita d'Aula (è capogruppo del Gruppo parlamentare) per far finta d'aver dimenticato che due voti, decisivi*, sono arrivati al governo Berlusconi da transfughi eletti a suo tempo nelle liste del Partito Democratico.
Certo, Scilipoti era ancora iscritto al gruppo parlamentare dell'IdV, a differenza di Calearo e Cesario, ma questo, ne converrete, è un mero accidente e non sostanza: quel che conta è che le scelte operate nella formazione delle liste bloccate abbiano portato in Parlamento, con il voto di chi ha creduto nell'innominabile segratario, due persone che sono state decisive per la sopravvivenza di Berlusconi. Questo è il punto, e questo è il solo punto che conta.

Ci sono state, è vero, defezioni anche tra i finiani. Ma la situazione di partenza è ben diversa. Se facciamo per un attimo finta che non ci sia stato mercato delle vacche e promesse di prebende per coloro che avessero deciso all'ultimo di sostenere il miliardario, ci rendiamo conto che i vari Moffa, Siliquini, Polidori, sono comunque stati eletti sotto il simbolo "Berlusconi Presidente".
Avevano deciso di cambiare, di staccarsi da Berlusconi, e si sono rimangiati il loro proposito tornando a sostenerlo: ma certo è assai men grave la loro posizione rispetto a quella di chi, eletto in opposizione a Berlusconi, ha finito per dargli la fiducia.
In fondo non c'è alcun motivo per inveire contro la Polidori e non contro Abelli, Abrignani, Alessandri, Alfano, Alfano, Allasia e giù giù sino a Volpi e Zacchera: questi ultimi hanno tenuto ferma la loro posizione, l'altra ha avuto uno sbandamento e alla fine è tornata nella coalizione che l'aveva portata a Roma: ma il fatto stesso di avere avuto uno sbandamento la nobilità più di quanto il ripensamento la riporti nella sentina dei Peones della Libertà.
Aggiungiamo, per sovrappiù, che lo stesso Fini non aveva messo i propri deputati in una posizione facile: quante volte negli ultimi mesi aveva affermato che il suo movimento avrebbe comunque sostenuto il Governo Berlusconi? No, se vogliamo essere onesti non possiamo proprio dire granché contro la Polidori, se non accusarla di scarso coraggio.
Mentre abbiamo moltissimo da dire contro Calearo e Cesario, e ancor più contro chi ha portato Calearo e Cesario a sedersi in quell'aula, in ispregio al senso comune e alla logica.

Certo, nel mio piccolo io sono stato sempre legato ai valori costituzionali, e quindi al riconoscimento dell'assenza di vincolo di mandato in capo ai parlamentari. Ma ci sono momenti in cui bisogna pur superare le forme e divenire almeno un po' pragmatici: non ci possiamo allora nascondere che le conversioni sulle vie di Damasco, specie se dell'ultima notte, non vengono in forza di un rovello politico bensì, più prosaicamente e assai spesso, in virtù della promessa di doni e prebende.
Anche qui il comportamento dei parlamentari reciprocamente transfughi va visto in chiave ben diversa. Non possiamo certo dare fiducia a chi abbandona la nave che affonda quando ormai lo scafo si è inclinato oltre i 45°: quei Mastelli che decidono con chi stare poco prima del voto, quando l'aria che tira è oramai ben definita, non possono avere la stima di alcuno. Diverso è chi lascia un gruppo, sia pur in difficoltà ma al governo, per passare tra le fila dell'opposizione.
Stare all'opposizione non è come stare al Governo: meno potere, meno soldi, meno clientele, meno prebende, persino meno possibilità di rubare. Chi ha mollato Berlusconi l'ha fatto in forza dell'assenza di vincolo di mandato, ma soprattutto l'ha fatto perché credeva che il berlusconismo fosse un male per il paese, non certo per trarne vantaggi personali.
In capo a chi invece, eletto per stare all'opposizione, è passato a sostenere il Governo, è perlomeno legittimo il dubbio che il tormento interiore sia stato più economico che politico: un sospetto non fa una prova, ma in politica un sospetto basta a rovinare una carriera, e francamente speriamo che per costoro sarà così. Poi, per carità, è semplicissimo impapocchiare una motivazione politica a valle della decisione (la crisi, le emissioni di titoli, il sostegno all'economia...): un esercizio talmente banale che non val neppure la pena di leggerle, quelle dichiarazioni.

Torniamo al discorso vincitori e vinti: secondo le dichiarazioni di ieri ha vinto Berlusconi, ha vinto la Lega, ha vinto il PD, ha vinto l'IdV. Come al solito hanno vinto tutti, ma l'uomo della strada, abituato al Totocalcio con la schietta freddezza dell'1-X-2, sa che 1 è diverso da 2 e che anche se hai messo X non puoi andare in ricevitoria e prenderti i tuoi soldini.
Dunque: hanno perso anzitutto il PD e l'IdV, che hanno presentato una delle mozioni di sfiducia, e hanno perso l'UDC, l'API e FLI, che hanno presentato l'altra. Perché se vai in ricevitoria, e scommetti "2", quando esce "1" hai perso.
Ha vinto Berlusconi. Ha vinto Berlusconi: e ha vinto non solo perché ha fatto "1" (che già, intendiamoci, basterebbe per affermare di aver vinto, dato che per vincere basta fare un canestro in più dell'avversario, nessuno dice che ce ne vogliono dieci o venti), ma soprattutto perché la fola dell'ingovernabilità del Paese con due voti di vantaggio è, per l'appunto, una fola.

Prodi, che governava con due voti di vantaggio al Senato, era sconfitto in partenza: perché con due voti di vantaggio è praticamente impossibile governare, stando appesi al filo di una malattia, di una gravidanza, di un aereoporto bloccato.
Se teniamo presente che alla Camera la maggioranza è di 316 deputati, capiamo bene che è del tutto probabile che ciascun giorno che Dio manda in terra ci sia un imprevisto, un contrattempo, un raffreddore che colpisca almeno due parlamentari (lo 0,6% della maggioranza): e facciamo finta di dimenticare gli incarichi di Governo e le missioni.
Il punto tuttavia è un altro: sono due anni e mezzo che il Governo Berlusconi non governa, e sono due anni e mezzo che i lavori parlamentari sno praticamente fermi, salvo per quanto concerne quelle leggi particolarmente care al premier, che perlopiù passano in forma di conversione di decreti.
Avendo svuotato il Parlamento delle proprie competenze, a Berlusconi non gliene può fregare più di tanto dell'avere solo due voti di vantaggio. Intanto ce li ha, e ben possiamo immaginare che almeno per qualche mese gli schieramenti di oggi resteranno immutati; poi può cercare di imbarcare l'UDC, che magari non cederà subito ma prima o poi potrebbe cedere; e comunque, in ultima analisi, non ha proprio bisogno di una maggioranza sicura.

Certo, ne avrebbe bisogno il Paese, di un Parlamento funzionante e di leggi che consentano di affrontare il momento non certo facile che stiamo vivendo: ma non sono io che devo spiegare ai miei lettori che il bene di Berlusconi e il bene del Paese sono due insiemi che se si intersecano lo fanno molto ma molto di sfuggita.


* rammentiamo che i voti decisivi sarebbero stati due, che avrebbero spostato l'esito del voto a 313 sì contro 312 no

martedì 9 novembre 2010

A ridatece Suor Paola

La piccola provocazione di ieri ha sortito effetti migliori di quanto sperato. I miei tre lettori non hanno riconosciuto, di primo acchito, alcuna cesura stilistica né temporale tra i tre documenti che componevano il pastiche: il Manifesto dei Fasci di Combattimento, il Manifesto del Futurismo e la Carta di Firenze dei due bei giovani tomi, Renzi e Ciwati.
Basterebbe la lettura dell'edificante documento dell'altro ieri, al cui confronto la prosa Marinettiana appare un fulgido esempio di levità stilistica e concretezza programmatica, per mettere una croce, e una pesante lapide, sulla carriera politica di due soggetti che mi fanno rimpiangere amaramente i bei tempi in cui in politica c'erano persone che sapevan il fatto loro e lavoravano per migliorare concretamente il Paese: gente come Beppe Grillo e Mariotto Segni, ad esempio, la cui statura politica viene rivalutata al rango di colossi del pensiero dall'impietoso confronto con il nuovo che avanza.
Nello scorso week-end, per curiosità, mi sono collegato al sito del giornale di Luca Sofri, altro entusiasta delle cause perse, sul quale si poteva seguire in diretta lo streaming dell'immaginifica kermesse. Ho sentito parlare di TAV, di San Salvario, di banda larga, di fisco, di mandati parlamentari, di giustizia, di Europa, di spazzatura: mi sono rotto i coglioni in modo indicibile.
C'è chi a detto che sì, in effetti l'incontro fiorentino è stato una sorta di brainstorming, e che le cose concrete si vedranno poi. Sesquipedale cazzata.
Chiunque abbia lavorato per qualche giorno nella sua vita sa bene che l'efficacia di una riunione è inversamente proporzionale al numero di partecipanti, e che pertanto sopra gli otto convocati è indispensabile che il tema sia perfettamente delineato e che gli interventi siano moderati con rigidità nazista, perché altrimenti va tutto in vacca. Certo, sono cose che sa bene chi abbia lavorato, e pertanto in questo Renzi e Civati sono scusabili, ma non troppo: infatti la cosa era nota financo ai nostri costituenti, che non a caso nell'art. 72 hanno stabilito che prima dell'Aula i progetti di legge debbano passare in commissioni ristrette. Perché 600 individui che parlano a braccio su un tema non possono concludere una fava.
E non fatevi imbrogliare con le immagini dei congressi di partito: è vero che vi sono tantissime persone, le quali però prima di star lì sono passate attraverso tutto un sistema di assemblee e mandati periferici, e discutono su un limitato numero di ben precise mozioni.
Ora, questi nuovi giovani idioti sono riusciti a superare l'inimmaginabile: non solo hanno preso qualche centinaio di persone facendole parlare tutte insieme, ma non hanno neppure dato una minchia di tema da seguire: ciascuno poteva dire quel cazzo che gli passava per la mente, purché in cinque minuti (che già la cosa dei cinque minuti mi fa venire i bordoni, cazzo! Per uno storico della Rivoluzione Francese, come in altri tempi sono stato, l'idea che si vada a fare non dico la rivoluzione, ma anche solo un rivoltamento di materasso, nel tempo di un giro di valzer, è cosa inammissibile).
Sapete cosa ne è uscito? In un primo momento ho pensato alle assemblee cittadine studentesche di quando ero giovane e pirla, ma in esse la profondità di pensiero era piombo, paragonata al sughero della Stazione Leopolda.
Poi ho pensato a quei bei tempi di Radio Radicale, quando avevano fatto quella protesta mettendo una segreteria telefonica a disposizione degli ascoltatori, che potevano dire tutto quel che pareva loro, purché in un minuto. Mi piaceva il parallelo del minutaggio, ma anche qui qualcosa non quadrava: in fondo a Firenze non si dicevano le parolacce, che erano l'essenza principe della programmazione di Radio Radicale.
Poi mi è venuta l'illuminazione. Quelli che il Calcio.
Sì, lo so: vi sembra che gli interventi degli inviati siano tutti coerenti e a tema, che la Ventura sia una gran professionista capace di tenere la diretta per due ore e Suor Paola un colosso dell'esegesi del gesto atletico.
Non riuscite a capire che diavolo c'entri quella trasmissione, fiore all'occhiello dell'emittenza nazionale.
E in effetti avete ragione. A me quelli della Stazione Leopolda non hanno ricordato né la Ventura né Suor Paola.
Mi sono sembrati simili alla striscia che scorre in basso, quella degli SMS del pubblico.

lunedì 8 novembre 2010

Sondaggio volante

Il fatto che, il giorno successivo alla conclusione della kermesse di Renzi e Civati, sulle home page dei principali quotidiani online nazionali non ci sia uno straccio di riga dedicata a quelli che volevano fare la rivoluzione, significa:
* che i tempi non sono ancora maturi per la rivoluzione?
* che la stampa è asservita ai poteri forti?
* che i cronisti inviati per raccontare lo storico evento sono morti di tedio?

Fantasia, intuizione, colpo d'occhio

Dunque Umberto Bossi ha preso una posizione chiara e netta sulla situazione politica: se ne starà dietro il cespuglio.
A me l'espressione «dietro il cespuglio» richiama alla memoria solo un'immagine: Paolo Stoppa, dapprima accucciato e poi alle prese con la sua defecatio hysterica.

mercoledì 3 novembre 2010

Chiacchiere e distintivo

Una premessa è necessaria: io non credo che i tempi siano maturi per la fine del potere di Silvio Berlusconi, ma è anche vero che io i pronostici li sbaglio con impressionante regolarità, e quindi magari il PresConsMin potrebbe anche dare le dimissioni e ritirarsi a vita privata.
I progressivi smarcamenti nel PdL potrebbero lasciar arguire che qualcosa del genere stia accadendo. I soggetti meno impresentabili se ne vanno o perlomeno prendono progressivamente le distanze, il che ha il non secondario effetto di far aumentare nel partito il peso dei pupazzi e delle macchiette: proprio come avviene in una soluzione che, per effetto dell'evaporazione dell'acqua, vede progressivamente aumentare la concentrazione dei sali tossici. E' possibile che questo processo si svolga nella forma di una reazione a catena: via via che il movimento fondato da Silvio Berlusconi (non ho proprio il cuore di chiamarlo partito) diviene ostaggio dei duri, per l'allontanamento dei puri, il clima potrebbe farsi insostenibile anche per coloro che adesso riescono a traccheggiare, e così via fino alla singolarità finale nella quale rimarrebbe un PdL formato da Berlusconi, Fede, Bondi e Stracquadanio, pronti a rifugiarsi nel Ridotto Alpino Valtellinese.

Ammettiamo per un attimo che proprio stasera, 3 novembre 2010, Berlusconi dovesse rassegnare le dimissioni e ritirarsi a vita privata, e proviamo a guardare la cosa con la prospettiva dello storico di domani: che cosa vedremmo e quale giudizio ci faremmo su questi tempi?
Innanzitutto il 4 novembre ci sembrerebbe molto simile al 26 luglio di sessantacinque anni fa, quando era più facile trovare un chilo di caffè o di cioccolata nei negozi che un fascista per istrada: eccezion fatta per i fedelissimi succitati, pronti ad immolarsi con il capo, tutti gli altri, da Cicchitto alla Santanché, rivendicherebbero la propria purissima estraneità alla politica di questi anni. Cosa non difficile né ridicola, considerato il precedente storico di quel membro del Comitato Centrale del PCI e direttore dell'Organo Ufficiale del Partito Comunista che afferma di non essere mai stato comunista in vita sua.
Ma l'attenzione dello storico non s'incentra tanto sul 26 luglio, che è una data d'interesse per il sociologo dei costumi, quanto sul 24 luglio: vale a dire sulla seduta del Gran Consiglio: perché, è bene ricordarlo sempre, il fascismo in Italia si è autodissolto, non è stato rovesciato dalle opposizioni.
Certo, nella la situazione del 1943 gli italiani avevano molte attenuanti: i sedici anni di dittatura e lo stato di guerra, che rendevano oggettivamente assai difficile il lavoro degli oppositori, perlopiù in esilio.
La situazione del 2010 è ben diversa, e se è vero che Berlusconi non ha la statura politica* di un Mussolini, è altrettanto vero che le opposizioni di oggi, pur avendo un'agibilità poliltica infinitamente maggiore di quelle di allora, nei fatti agiscono in modo infinitamente meno incisivo.
Diciamocelo chiaramente: se Berlusconi dovesse cadere oggi, non sarà per effetto delle insostenibili spallate di un'opposizione di sinistra che lo avrà messo di fronte alle contraddizioni politiche di quindici anni di malgoverno. Sarà per lo sfilarsi di una fronda interna al movimento da lui fondato.

Me lo sento già, lo sdegno di un mio nipotino che nel 2050 dovesse studiare la storia contemporanea, e chiedermi come sia stato possibile che un popolo con un sistema sanitario e scolastico a pezzi abbia accettato senza colpo ferire un regalo di tre miliardi ad Air France. Come abbia potuto darsi che una cricca di affaristi pregiudicati** abbia potuto distruggere la situazione idrogeologica di un Paese, facendolo arrivare al punto di non poter reggere ad un giorno intero di pioggia autunnale. Come io, suo nonno, abbia potuto accettare senza ribellarmi*** una deriva dell'informazione fatta di veline e menzogne, di case di cartapesta spacciate per solidi mattoni; di progetti di ponti avveniristici che sottaciono la mancanza di benzina nei serbatoi delle auto della polizia e di carta igienica nei cessi degli asili.
E, soprattutto, mi sento già lo sdegno di quel nipote che, arrivato al capitolo sulla caduta del regimetto, dovesse scoprire che la scintilla finale che fece cadere tutto non fu lo sbarco degli americani in Sicilia né il bombardamento di San Lorenzo, bensì una telefonata di raccomandazione e le fotografie di un troione mitomane.
Pensando a tutto ciò, mi auguro che Berlusconi arrivi alla fine della legislatura, per essere esautorato dal voto popolare e non dal sospetto di satiriasi. Poi penso che in fondo, per quanto infinitamente ridicolo, è stato meglio mandare Al Capone in galera per evasione fiscale piuttosto che non mandarcelo affatto: e allora ben vengano i troioni, se non siamo stati capaci di dare l'importanza che meritavano alle C.A.S.E., ai Lunardi, ai Mills.


* Precisiamo, a scanso di querele, che intendiamo qui il concetto di statura politica come una grandezza scalare, non vettoriale.
** lapsus calami freudiano. Il lettore aggiunga una "S" in principio di parola.
*** Certo, potrei giustificarmi dicendo che scrivevo su di un blog. Immagino che se lo facessi mi toglierebbe il catetere e mi lascerebbe morire affogato nel mio piscio.

venerdì 17 settembre 2010

Società civile

Mi ero ripromesso di non occuparmi più del Puffo Fesso, ma talvolta non ci si può trattenere.
Ieri abbiamo avuto il tristo spettacolo di uno, che nella vita non ha mai fatto un lavoro diverso da quello del politico, raccontare che per le prossime elezioni bisogna apprestarsi a trovare un candidato leader della coalizione di centrosinistra rovistando tra i cassonetti della società civile.
Società civile è una buzzword il cui significato, scava scava, vuol dire: «coloro che non fanno il politico di professione». Questo mito della società civile noi lombardi ben lo conosciamo: sono vent'anni che ci sfracassano i marroni proponendoci candidati della società civile ai vari livelli di elezioni locali, e sono vent'anni che il candidato proposto perde miseramente. Certo, è probabile che in Lombardia un candidato di centrosinistra sia destinato a perdere a prescindere, però, avendoci fatto il callo, chi abita quassù è legittimato a pensare che il mito della «società civile» abbia fatto il suo tempo tanto quanto le calze di nylon come strumento per scoparsi le polacche.
L'idea di prender gente dalla società civile equivale a quella di prendere un avvocato per curarsi la gotta, o un veterinario per riparare lo sciaquone otturato del water: io conosco avvocati geniali e veterinari bravissimi, ma se mi si rompe lo scarico del cesso, guarda un po', preferisco affidarmi ad un idraulico.
Perché mai con la politica la cosa dovrebbe funzionare diversamente? Forse governare un paese è più semplice che sostituire un passo rapido?

venerdì 10 settembre 2010

Fischi e fischietti

Questo è un post mica tanto facile, perché tratta di una materia complessa e perché io stesso non ho le idee ben chiare: perciò butto giù un po' di argomenti senza la velleità di dar loro una forma organica.
Parliamo di fischi e di democrazia. Come tutti sapete, negli scorsi giorni vi sono state svariate apparizioni pubbliche di personaggi (Dell'Utri, Schifani, Bonanni) che, invitati a intervenire a iniziative di vario genere, sono stati interrotti e hanno dovuto rinunciare a terminare i loro discorsi. In tutti i casi tali contestazioni sono venute da gruppi numericamente poco numerosi, ma determinati nel loro agire, talché la rimanente parte del pubblico, largamente maggioritaria, non ha potuto assistere alle iniziative a cui intendeva partecipare.
Il primo pensiero che mi è venuto in mente, subito dopo il primo episodio, è stato che la libertà di parola ha come contraltare la libertà di critica, e pertanto chi accetta o pretende di parlare in una manifestazione pubblica deve anche accettare il fatto che il suo intervento non nnecessariamente sarà applaudito: può anche essere fischiato. Il fischiare è una delle tante forme con le quali si può esprimere il proprio disaccordo, e non riesco a trovare nulla di antidemocratico nella circostanza che di fronte a una mia affermazione qualcuno mi possa dare del cretino, indipendentemente dal fatto che egli abbia o meno ragione (anche perché, quando si tratta di punti di vista, e in ispecie di politica, la ragione e il torto non sono accertabili scientificamente, come si farebbe con la dimostrazione di un teorema matematico).
Già al secondo episodio mi sono però accorto che questa impostazione ha un grave limite: se bastano dieci o venti persone per rovinare la festa a mille persone impedendo loro di fruire di un'iniziativa, ben presto potrebbe divenire impossibile organizzare qualunque cosa un po' più importante di una cena tra amici in pizzeria: perché per qualunque argomento che possa richiamare una partecipazione minimamente numerosa, dalla cura delle malattie autoimmuni alla cucina cinese, ci sarà qualche cretino che vorrà contestare l'oratore di turno in nome del proprio ideale antivivisezionista o pro-tibetano. Notate, per inciso, che la cretineria del prevaricatore non è minimamente collegata alla validità della causa che egli intende supportare: l'essere antifascisti, per dire, non è un motivo valido per interrompere un conveglio di studi su De Felice, né l'essere pacifisti giustifica il boicottare un convegno sull'evoluzione storica della dottrina MAD.
Quindi si può affermare che l'esercizio del diritto di critica sia sì legittimo, ma non quando tale esercizio impedisce la manifestazione del pensiero: come giustamente ha fatto notare un commentatore, i loggionisti talora fischiamo il direttore d'orchestra, ma lo fanno dopo, e non prima, l'esecuzione dell'opera.
Ha poi avuto luogo la contestazione a Bonanni, che a differenza delle precedenti ha segnato un'ulteriore evoluzione: qui i contestatori non si sono limitati a interrompere con il loro vocìo, ma sono passati alle vie di fatto: e siamo pertanto trascesi dal campo della violenza verbale a quella fisica, il che è per definizione inaccettabile, trattandosi di comportamenti violenti e prevaricatori che costituiscono reato.
Potremmo finire qui ma la questione dicendo che quelli dei centro sociali dovrebbero passare qualche giorno in guardina, ma non è così semplice: e l'ho compreso leggendo il lancio della notizia sul Post. L'articolo infatti conclude così: Alle 17,22, quando pubblichiamo questa notizia, il dibattito è annullato e gli ospiti sembrano essersi allontanati. I contestatori stanno ancora urlando slogan e fronteggiando la polizia in un’immagine da anni Settanta nel centro di Torino. L'immagine degli anni Settanta nel centro di Torino mi ha fatto venire in mente che quelli sono stati sì anni in cui quotidianamente si è sperimentata violenza e prevaricazione; ma sono anche gli anni in cui i diritti civili e dei lavoratori in questo Paese si sono affermati.
Lo Statuto dei Lavoratori, che data proprio dal 1970, è il frutto di lotte operaie che non si sono svolte mediante la contrapposizione dialettica di operai e imprenditori su un palco, davanti a un tavolino con l'acqua minerale: si sono svolte invece con modalità squisitamente violente e prevaricatrici.
Non sto parlando degli anni di piombo e del terrorismo rosso o nero, fenomeni pur coevi: mi basta pensare ad un picchetto fuori da una fabbrica. I giovani lettori forse non hanno idea di cosa fosse un picchetto, ma chi ha qualche anno sul groppone sa bene che non era un esercizio di democrazia: c'erano i bastoni, c'erano le catene e quando mancavano c'erano -e bastavano- le mani nude di un gruppo di fresatori. Chi si fosse provato ad entrare oltre i cancelli si sarebbe guadagnato non un commento di riprovazione né un sonoro coro di fischi, bensì una corsa in ambulanza al traumatologico. Quello era il clima, ma quel clima ci ha dato dei diritti che a distanza di quarant'anni sono ancora attuali.
Il fatto è che ci sono momenti storici nei quali certuni devono lottare per conquistare nuovi diritti, fino ad allora negati. Non ci tengo a far la figura del pedante, ma mi prendo qualche altra riga per rammentarvi che la notte del 4 agosto 1789 (l'abolizione del feudalesimo) è stata preceduta, e non per caso, dal 14 luglio con la Presa della Bastiglia. E' pur vero che questo evento ha avuto un significato poco più che simbolico, dato che i prigionieri erano una mezza dozzina in tutto, e certo non si può paragonare quell'azione con i massacri della Vandea e le decine di migliaia di giustiziati del Terrore; ma non credo che ciò possa essere una gran soddisfazione per il sorvegliante della prigione, portato in trionfo per le vie di Parigi dalla folla, però solo dal collo in su e infilzato in cima a una picca. E vi risparmio le rivoluzioni inglese, americana e sovietica.
Insomma, ci sono momenti, che coincidono sempre con periodi di crisi, in cui il confronto delle idee si fa non solo con le parole ma anche con le mani: perché quando le cose vanno bene tutti sono soddisfatti, anche gli ultimi; ma quando vanno male gli ultimi cominciano a non farcela più, e le belle parole non bastano dato che non possono essere servite in tavola. Ammettiamo che sia vero, come ho letto, che Marchionne guadagni 400 volte un suo operaio. Ebbene tale moltiplicatore costituisce un problema tutto sommato astratto filosofico finché tutti possono fare la propria vita più o meno soddisfacente; ma diviene però serio e impellente nel momento in cui l'operaio per mettere in tavola la zuppa deve passare dal banco dei pegni.
Ora, noi oggi ci troviamo esattamente in tale condizione. Le disparità sociali sono incredibilmente aumentate, il Paese è diviso tra gente che spende, spande e ostenta e gente che ogni giorno si sforza di nascondere la propria miseria che si accresce. Il lavoro si precarizza, i salari reali diminuiscono, chi ha dei figli immagina per loro un futuro ancora più nero e ci si guarda indietro, agli anni Settanta e Ottanta, con lo stesso spirito di Francesca nel quinto canto. La debolezza dei sindacati, oltretutto divisi tra loro, evidenzia ancor più la protervia dei padroni, che non perdono l'occasione per attentare a diritti un tempo dati per scontati. Quando io ho studiato il diritto del lavoro, ed erano passati quasi vent'anni dallo Statuto, l'idea stessa che un imprenditore potesse immaginare di non far entrare in fabbrica un lavoratore reintegrato era semplicemente assurda, così come il baratto degli investimenti contro i diritti; mentre oggi Marchionne si permette di spedire telegrammi dicendo ai lavoratori di restare a casa, ché tanto li pagherà comunque, e ci sono sindacati che firmano accordi cedendo diritti acquisiti in cambio di macchinari produttivi.
Badate, questi che ho descritto sono dati di fatto, indiscutibili. Potremmo perdere giorni a spiegarci i motivi di queste tendenze, primo fra tutti il fatto che la globalizzazione comporta il livellamento dei diritti, dei salari e di tutto il resto, talché l'operaio italiano ci perde e quello cinese ci guadagna, esattamente come un corpo caldo si raffredda riscaldando un corpo freddo, ma qui non andiamo a cercare le ragioni, bensì misuriamo gli effetti. E gli effetti sono quelli che ho descritto.
Non credo sia troppo azzardato profetizzare che quelle che abbiamo visto in questi giorni siano solo le prime avvisaglie di una stagione in cui torneranno in auge le lotte vere, quelle toste. E non sarà certo Enrico Letta, del quale mi è rimasta impressa l'immagine, il golfino sulle spalle e la ripetizione ossessiva della medesima frase: "siete antidemocratici", a fermarle: perché qui il problema non è più la democrazia, che è un valore che si può permettere chi ha la pancia piena, bensì la sopravvivenza quotidiana.
E' una tendenza che si può invertire? Non lo so: molto dipenderà dalla capacità della classe dirigente di cogliere il cambio di passo e rispondere con azioni concrete in difesa delle classi (sì, classi) che scontano il maggior disagio sociale. Se questo avverrà, bene; se non avverrà, e alla richiesta di maggior giustizia sociale si continuerà a rispondere con dibattiti sterili, sorrisi da imbonitore e false promesse di futuri Bengodi, be' allora credo proprio che dovremo prepararci rivedere scene delle quali avevamo perso l'abitudine.

mercoledì 1 settembre 2010

Maggioritario uninominale possibilmente a doppio turno

Come altre volte è accaduto nella storia del Grande Partito dei Riformisti, anche stavolta i vertici hanno indicato una strada da seguire, senza però dire in che direzione percorrerla.
E così il botto estivo del governo di transizione, con l'obiettivo minimalista di fare una legge elettorale e una legge sul conflitto d'interessi, si è infranto di fronte all'evidenza che nessuno sa come fare una legge elettorale: e figuriamoci una sul conflitto d'interessi!
Si sono riproposte, e non è certo un caso, le stese dinamiche che avevano impedito al Governo Prodi (che, pur risicata, una maggioranza ce l'aveva) di far approvare quelle due norme. Come si passa dal titolo del tema al suo svolgimento, difatti, la litigiosità dell'accozzagliadel Partito Democratico ha modo di esprimersi nelle sue forme migliori.
Da una parte un D'Alema che punta al proporzionale alla tedesca, dall'altra la Presidenta che afferma che il PD è vincolato a sostenere un «maggioritario uninominale possibilmente a doppio turno».

Non è che quest'ultimo tipo di legge elettorale non abbia illustri esempi all'estero, sia chiaro. Tuttavia almeno una cosa credo che vada detta, e con vigore.
Si imputa alla legge elettorale attuale di non consentire la scelta del parlamentare, che di fatto viene designato dalle segreterie di partito, rimanendo l'alea del risultato in capo a quella cinquantina di candidati che galleggiano negli elenchi tra coloro che sono assolutamente certi di ottenere il seggio e coloro che sono lì per mera presenza, dato che potrebbero entrare alle Camere solo ove il proprio partito facesse cappotto. L'elettore quindi con il suo voto di fatto designa dei personaggi di mezza tacca, né carne (i maggiorenti ben abbarbicati alle prime posizioni) né verdura (peones presenti solo per obbligo di militanza).
Orbene, non è che con l'uninominale le cose cambierebbero sensibilmente: mi piacerebbe che almeno questo fosse chiaro. Con l'uninominale infatti l'elettore si trova a dover scegliere tra quattro-cinque nomi, tutti designati dalle segreterie di partito; e con il doppio turno (non a caso tanto caro al PD) i nomi diventano solo due, tre al massimo in situazioni locali particolari, espressione diretta dei partiti maggiori.
Il che significa che, al posto della magra soddisfazione di poter scegliere tra una serie di elenchi di semisconosciuti, potrei scegliere tra due nomi. "Accipicchia, che vantaggio!", come mi dissi quella volta che dovetti scegliere tra quello che stava dall'altra parte (Michele Saponara della Casa della Libertà) e quello che stava dalla parte mia, a sinistra, e che era nientemeno che Vittorio Dotti, già capogruppo di Forza Italia, avvocato di Berlusconi e saltatore di quaglia causa litigio con il padrone per questione di femmina.
"Ma ci sono le primarie!", si dice. Le primarie, certo.
Chiariamo un punto anche sulle primarie. Ci sono due casi possibili: o vengono imposte per legge ai partiti, diventando un istituto di natura costituzionale che pertanto deve sottostare a una serie di garanzie e controlli (quali la garanzia della partecipazione dell'intero corpo elettorale, il controllo dei votanti e delle schede votate per evitare esclusioni o voti multipli, un sistema di scrutinio che garantisca la terzietà, etc. etc.), o rimangono istituti privatistici che ciascun partito è libero di organizzare come ritiene opportuno, aprendole o meno ai soli iscritti o alla popolazione intera e organizzando i seggi come meglio crede anche in considerazione del proprio bacino di elettori e, al limite, non organizzandole affatto.I casi sono solo questi due, dicevo: perché non è concepibile che una legge imponga ai partiti di fare le primarie e che i partiti stessi possano organizzarle con i gazebo e i fustini del bucato, lasciandosi la possibilità di buttare nel camino alla fine della giornata tutte le schede e facendo proclamare al segretario i nomi dei vincitori.  Se c'è un obbligo di legge, bisogna garantire che l'obbligo venga rispettato, e che non si faccia del mero teatro di strada: quindi ci vogliono dei controlli, e dei controlli terzi rispetto alla dirigenza del partito organizzatore.
Dato che i partiti sono associazioni privatistiche, seppur di rilevanza costituzionale, io dovendo scegliere la frittata men peggiore mi schiero senza alcun dubbio dalla parte delle primarie libere, che chi vuole le fa e chi non vuole non le fa: ciò sia per motivi costituzionali, sia per il fatto che le primarie per legge sono un'idea del coglione supremo.
Ma, anche ammettendo che l'idiota possa aver avuto un'idea buona nella sua vita, sarebbe in grado di spiegarmi in che cosa, queste primarie fatte in forza di legge si discosterebbero da elezioni vere e proprie? La risposta è una sola: in nulla.
E così il combinato effetto del sistema invocato dalla Presidenta (maggioritario uninominale a doppio turno) e delle primarie cogenti ideato dal Puffo Scemo ci porterebbe sapete a cosa? A un sistema elettorale a triplo turno.
Roba da farsi ridere in faccia dagli elettori dell'Appenzello Interno.

sabato 21 agosto 2010

Una repubblica presidenziale

Nei giorni scorsi abbiamo ferocemente criticato Repubblica per la campagna condotta a tambur battente sulle proprie pagine in relazione alla nuova normativa sulla definizione transattiva dei contenziosi fiscali giunti in Cassazione. Quelli di Repubblica hanno molta più pazienza di me e continuano a battere ogni giorno sullo stesso tasto, mentre io quel che avevo da dire l'ho già detto, per cui mi taccio.
Certo, questa insistenza, che non è stata ripresa da alcun altro organo d'informazione (e ciò per ammissione dello stesso giornale che conduce la battaglia), appare bizzarra: sembrerebbe quasi che il giornale di De Benedetti abbia dei propri conti in sospeso con la casa editrice che ora appartiene a Berlusconi; ma qui non samo andreottiani e non ci permettiamo di pensar male in quanto non sempre ci si indovina.

Per tranquillizzare i cinque lettori del blog, che potrebbero credere che anche io abbia una questione personale, ma con il quotidiano fondato da Scalfari, cambierò argomento e parlerò di un'altra questione che sta a cuore a Repubblica, tanto da avervi dedicato una corposa serie di articoli.
Come ben sapete, le truppe del PresConsMin da un po' di tempo affermano che in caso di rottura della maggioranza che attualmente sostiene il governo non si potrebbe che andare alle elezioni. La questione è stata avanzata da vari esponenti, variamente motivata e alcune volte ritrattata, anche a seguto degli interventi del Quirinale. Repubblica ha dedicato, come dicevo, ampio spazio ad articoli di illustri costituzionalisti che hanno spiegato con grande competenza perché la pretesa del PdL sia una fola che non sta né in cielo né in terra.
L'unico problema è che, a mio avviso, queste spiegazioni sono risultate un po' troppo tecniche, talché mentre appaiono del tutto chiare a una persona con una certa infarinatura di diritto costituzionale (e che perciostesso non ne avrebbe avuto bisogno), di contro possono risultare ostiche o fumose a chi nella vita si occupi di tutt'altro.
Secondo me è un peccato, dato che la spiegazione poteva essere fornita, a mio parere, anche in modo molto più semplice consentendo al grande pubblico di costruirsi meglio la propria opinione: per cui ci provo.
La tesi di Berlusconi e dei suoi portavoce è che con la nuova legge elettorale, che consente e anzi di fatto obbliga i partiti a costituire schieramenti e a designare un capo il cui nome viene indicato nella scheda elettorale, sia avvenuta una rivoluzione nella nostra "Costituzione materiale". Quest'ultimo termine per i costituzionalisti indica una parte di norme che non sono esplicitamente scritte nella Carta, ma sono andate ad integrarla in alcuni punti, per effetto della consuetudine e della prassi.
Dicono, i seguaci del PresConsMin, che per effetto della designazione di Berlusconi come capo dello schieramento che ha vinto le elezioni, il popolo gli abbia conferito il mandato di governare; e dato che la sovranità appartiene al popolo ai sensi dell'art. 1 della Costituzione (nientemeno!) nessun altro possa porre in essere alcunché in ispregio a tale indicazione: pertanto né Napolitano potrebbe conferire un incarico ad altri se non Berlusconi, né i parlamentari potrebbero votare la fiducia o la sfiducia, se non in conformità all'indicazione dello schieramento nelle file del quale sono stati eletti. Quest'ultimo punto poi sarebbe rafforzato dalla circostanza che i parlamentari attualmente non sono scelti dal popolo bensì di fatto nominati dalle segreterie degli schieramenti stessi, anche se la cosa viene fatta passare sotto silenzio perché il porcellum è già talmente inviso a gran parte dell'opinione pubblica da non costituire un valido appiglio dialettico.
Il discorso fila liscio ed è ben argomentato: ma è un mero sofisma, costruito da chi è abile a giocare con le parole ma che si può smontare facilmente una volta trovato il bandolo della matassa.

Bisogna sapere, anzitutto, che il concetto di "Costituzione materiale" esiste, ma si tratta di regole che possono integrare, ma non certo emendare o smentire, quelle della "Costituzione formale", vale a dire quanto sta scritto nero su bianco nel testo ufficiale.
Ora, nella nostra Costituzione ci sono ben due articoli che dicono l'uno che il Presidente della Repubblica sceglie il Presidente del Consiglio dei Ministri, e l'altro che i parlamentari esercitano la loro carica senza vincolo di mandato, cioè senza rispondere del proprio voto ad alcuno se non alla propria coscienza (e, in caso di ricandidatura, ai futuri elettori).
Ora, ammettiamo pure che con la nuova legge elettorale sia avvenuto un mutamento della forma costituzionale dello Stato, che ora sarebbe di fatto una Repubblica presidenziale, o anche solo che la legge in questione possa influire, sia pur minimamente, sulle prerogative del Presidente della Repubblica o sulla libertà del parlamentare eletto. Ebbene, ciò non è possibile.
La nostra infatti è una Costituzione rigida, vale a dire una Costituzione che non può essere modificata con una legge ordinaria; e dato che la legge elettorale è stata approvata in forma ordinaria, i casi possibili sono solo due: A) la legge elettorale non vìola la Costituzione (e pertanto quanto affermano i Berlusconiani è fuffa) oppure B) i Berlusconiani hanno ragione (e pertanto la legge elettorale vìola la Costituzione e, quindi, è incostituzionale).
E' questo un classico caso in cui tertium non datur: bisogna scegliere se stare dalla parte A) o dalla parte B), ma in ogni caso non si può stare dalla parte di Berlusconi.

Sarebbe bello poter dire che in conseguenza di quanto sopra indicato il porcellum è incostituzionale, ma, ahimè, ciò non è per nulla scontato: difatti uno dei principi del nostro ordinamento è che le norme vanno interpretate non isolatamente, bensì anche nel quadro sistematico delle altre norme, prima fra tutte la Costituzione. E, pertanto, se è possibile dare più interpretazioni di una legge, deve essere scelta tra queste quella che rispetta la Costituzione: solo qualora non vi sia alcuna scelta in tal senso possibile, infatti, una legge può essere dichiarata incostituzionale.
Ci teniamo il porcellum, dunque; ma possiamo rimandare al mittente la pretesa di Berlusconi e accoliti di avere, essi soli, il diritto di governare.

mercoledì 28 luglio 2010

Dio stramaledica la Serbia

Dunque in Serbia cominciano a fare sul serio: oltre alle autovetture Fiat cominceranno a produrre anche calze e collant. E già qualcuno parla di boicottaggio delle aziende che delocalizzano, lasciando intendere tra le righe che in fondo i cattivi soggetti sono due.
Sono infatti certo da annoverare tra i cattivi quegli imprenditori che, dopo essersi ingrassati di contributi pubblici (non crediate che li abbia presi solo la Fiat: anche a Gissi e nel mantovano nel ne sono arrivati a fiumi), chiudono baracca e burattini e se ne vanno via. Ma, sotto sotto, si lascia intendere che sia cattivo anche il governo serbo, che fa dumping sociale e fiscale, detassando gran parte degli utili e proponendo un quadro giuslavoristico che al confronto l'accordo di Pomigliano sembra una suite al Negresco.

Il fatto è che quegli imprenditori i soldi li hanno presi, sì, per fare gli investimenti che hanno fatto in Italia. Ma se siamo in uno stato di diritto, e nelle convenzioni agevolative non c'era alcuna clausola che li costringesse a restare lì per un tempo indefinito, oramai quei medesimi imprenditori possono fare quel che gli pare. Il problema non è loro, ma del quadro normativo che in varie forme perdura dai tempi del boom economico, che per concedere i contributi, belli grassi, costringeva l'imprenditore a creare posti di lavoro, ma non a mantenerli. E' immorale, certo, andarsene all'estero ora che le cose vanno male. Ma allora è altrettanto immorale decidere di comperare una Twingo al posto di una Panda, che costa un paio di mille euri in più. O la scarpa made in taiwan al posto di quella del calzaturificio vigevanese, che costa uno zero in più. O l'iPhone di ultimissima generazione al posto di un più sobrio Telit, che magari ha campo anche senza cerottini.

Quanto al lato serbo della faccenda, certo il governo di Belgrado ci è andato giù pesante, ci sta rubando posti di lavoro e ricchezza. Del resto non è la prima volta che succede: rammenterete forse che già nel 1999 abbiamo buttato un fracco di soldi per Belgrado o, per essere più precisi, su Belgrado. Certo, in quall'occasione i serbi non ci hanno rubato posti di lavoro, anzi ne abbiamo tolti un bel po' noi a loro.
Rammenterete anche che mentre il governo del mite D'Alema buttava su Belgrado soldi pubblici (seppur in forma non spendibile), contemporaneamente lo stesso governo organizzava la raccolta di soldi privati da mandare in forma spendibile, o perlomano mangiabile, alle stesse popolazioni che venivano gratificate delle nostre munizioni e del nostro prezioso (seppur impoverito) uranio. E molti di noi hanno pagato con le proprie tasse le bombe che hanno distrutto le case serbe, e con i bigliettini venduti al supermercato le tende per sostituire le case distrutte da quelle stesse bombe.
Comunque fin d'allora ci siamo portati avanti, previdenti: gran parte dei soldi della Missione Arcobaleno infatti restarono in Italia senza arrivare mai a destinazione: forse potremmo riutilizzarli ora per finanziare la cassa integrazione dei lavoratori dei calzifici; o perlomeno mandar loro le tende avanzate, per affrontare il prossimo inverno.

giovedì 8 luglio 2010

Atti persecutori

C'è in esame al Senato il DDL n. 1348, presentato dal Ministro per le Pari Opportunità (Carfagna) e dal Ministro per la Giustizia (Alfano), che si intitola «Misure contro gli atti persecutori».
Ill DDL all'art. 1 propone l'introduzione di un nuovo reato:
ART. 612-bis. – (Atti persecutori). –
Salvo che il fatto costituisca più grave
reato, è punito con la reclusione da sei
mesi a quattro anni chiunque, con con-
dotte reiterate, minaccia o molesta taluno
in modo da cagionare un perdurante e
grave stato di ansia o di paura ovvero da
ingenerare un fondato timore per l’inco-
lumità propria o di persona al medesimo
legata da relazione affettiva ovvero da
costringere lo stesso ad alterare le proprie
scelte o abitudini di vita.
Ora, non vi è chi non veda che la Carfagna e il suo degno compare Alfano, con la scusa di proteggere le donne dal fenomeno dello stalking, hanno in realtà scritto l'ennesima legge ad personam per compiacere il proprio datore di lavoro, Silvio Berlusconi.
E' infatti chiaro, a chiunque non abbia le fette di salame sugli occhi, che si tratta di una norma fatta apposta per mandare in galera tutti coloro che si fanno latori del Partito dell'Odio verso il nostro Presidente del Consiglio il quale a causa di ciò, come noto, vive momenti di grande ansia e teme per la propria incolumità, già provata dal recente attentato.
Carfagna, Alfano: vi ho smascherato! Siete dei servi di Berlusconi!



















Mi sto allenando: se riesco ad andare avanti così per un po', prima poi riesco a diventare capogruppo del PD in Commissione Giustizia, alla Camera. O perlomeno diventare giornalista del Fatto (che questa volta è forse meno colpevole di tante altre, dato che gli sproloqui della Ferranti sono stati ripresi, acriticamente, un po' da tutti i giornali).

lunedì 28 giugno 2010

Non c'è due senza tre

Il caso di Scajola, il ministro che non sa chi gli ha pagato la casa, era stato un bel capitombolo politico-mediatico per il governo Berlusconi: come hanno detto molti, gli italiani li puoi prendere per il culo su moltissime cose, ma non devi toccare la casa: un bene per il quale noi abbiamo un attaccamento senza eguali in Europa, come dimostra la rapporto tra proprietari e locatari, acquisito a prezzo di sacrifici che per la maggior parte di noi durano una vita.

C'è poi un'altra cosa alla quale gli italiani sono molto sensibili: le storture del sistema giudiziario.
Chiunque abbia mai avuto a che fare con un tribunale civile sa bene che ottenere giustizia quando si subisce un torto è quasi impossibile, dal momento che anche qualora le proprie ragioni siano riconosciute, il tempo necessario vanifica gli effetti della sentenza vittoriosa.
E chiunque sia incappato nelle maglie della giustizia penale, o conosca qualcuno che vi sia transitato, sa che si tratta di un enorme frullatore dal quale puoi uscire magari assolto, ma mai intero, bensì seriamente minato nello spirito e nel portafoglio.
Sembra un paradosso quello che dico, dal momento che Berlusconi è stato il primo a farsi le leggi a suo uso e consumo proprio per evitare i giudici penali: e non occasionalmente, anzi con costanza persino ammirevole in tutti questi anni.
Ma Berlusconi è un po' un'eccezione: è riuscito a ficcare nella testa dei suoi elettori il concetto che non sia lui che sfugge alla giustizia, bensì che la giustizia lo perseguiti per il bene che fa al Paese, e che quindi le sue azioni contro la magistratura e il sistema penale non siano altro che l'esercizio di un diritto naturale di legittima difesa.

Ora però arriva la questione di Brancher: un perfetto sconosciuto, che nella testa dell'elettore berlusconiano non evoca successo e speranze di prosperità (in effetti non evoca proprio un bel niente, diciamocelo).
Questo signor Nessuno, fatto ministro d'improvviso, non si sa per cosa, che dopo una settimana invoca il legittimo impedimento adducendo la panzana, subito sbugiardata dal Presidente della Repubblica, di dover organizzare un ministero inesistente, è un altro errore di comunicazione gravissimo da parte di Berlusconi e del suo entourage.
Lo stesso Brancher, anziché ritirarsi in un angolo e aspettare che la tempesta passi, riesce a peggiorare le cose di giorno in giorno. Tutta da godere l'intervista rilasciata al TG3 ieri sera (è trascritta su Repubblica, ma se volete ascoltarla dalla viva voce del protagonista la trovate qui, da 1:50 a 3:25). Una tale jattanza, per usare un termine caro al vecchio Giacinto, non può che alienare mazzi di consensi.

E' questo quindi il secondo grave capitombolo in poco tempo. A quando il terzo?

sabato 26 giugno 2010

Il legittimo impedimento e il colle più alto

L'amico .mau., citato anche da Mantellini, cita la nota del Quirinale sul caso Brancher commettendo, a mio parere, qualche approssimazione.
Il comunicato recita:
In rapporto a quanto si è letto su qualche quotidiano questa mattina a proposito del ricorso dell'on Aldo Brancher alla facoltà prevista per i ministri dalla legge sul legittimo impedimento, si rileva che non c'è nessun nuovo Ministero da organizzare in quanto l'on. Brancher è stato nominato semplicemente ministro senza portafoglio.
Si notano due cose: l'una, il fatto che il Quirinale lamenti di non essere stato informato direttamente dalla Presidenza del consiglio o dal Ministro stesso del fatto che si sarebbe invocato il legittimo impedimento, ma di averlo invece dovuto apprendere dai giornali (e qui non è questione di ironia, bensì di irritazione).
La più importante, tuttavia, è il fatto che nella nota non si dice che Brancher non avrebbe potuto invocare i legittimo impedimento.
Il concetto che viene espresso, letteralmente, è:
- leggendo i giornali abbiamo appreso delle notizie (esplicito);
- in particolare, il fatto che Brancher abbia addotto il legittimo impedimento (esplicito);
- a causa della necessità di organizzare il ministero (implicito);
- ma egli non ha alcun Ministero (esplicito).

La conclusione, badate bene, non è che Brancher non abbia la possibilità di invocare il legittimo impedimento, bensì che Brancher ha raccontato frottole.

mercoledì 9 giugno 2010

Non ne capisco abbastanza

Dunque, la Corte di giustizia europea dice in una sentenza secondo la quale "Mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE.".
Il Governo dice che la Corte ha detto che l'Italia deve innalzare l'età pensionabile per le donne a 65 anni. Il che è una fallacia logica, dato che la corte non si è riferita a tutte le donne, e ha detto che i trattamenti vanno parificati, ma non in che direzione.
Ora, a distanza di due anni, vien fuori che il disegno del Governo per ottemperare agli obblighi della sentenza è quello di innalzare l'età pensionabile per tutti a 70 anni.
Io il passaggio logico non lo capisco proprio. Voi sì?

lunedì 24 maggio 2010

Team Working

«Il nostro Paese vive di turismo e a settembre si possono avere migliori opportunità economiche per le vacanze». «Posticipare l’apertura dell’anno scolastico - ha aggiunto - potrebbe aiutare molte famiglie e dare anche un aiuto al settore turistico. Vedremo come il Parlamento deciderà in merito»
Il nostro più sincero plauso va oggi al ministro della pubblica istruzione, Mariastella Gelmini, che ha rilasciato la dichiarazione che vedete riportata sopra, in virgolettato tal quale presa dal sito del Corriere.
La Gelmini non è una di quelle ministre che si attaccano alla poltrona del proprio dicastero e si fanno solo gli affari propri, no: la ministra sa cosa sia il lavoro di gruppo, il team working, per usare un'espressione appresa nel Paese delle tre "I". E quindi non si è spesa in una difesa supina della scuola e dell'istruzione pubblica, come ci si sarebbe potuto attendere da un'altra ministra. No, la Gelmini sa quando è il momento di lottare e quando è il momento di cedere di fronte ad interessi superiori: e tra l'istruzione e il turismo ha privilegiato il turismo, pur se il relativo dicastero è diretto da una ministra dal colore di capelli diverso dal suo.
A seguire, possiamo suggerire di mettere sul piatto anche il mese di ottobre (che potrebbe essere utilmente sfruttato per mandare i bambini e i ragazzi negli ospedali pubblici a sostituire gli infermieri e i portantini); quello di novembre (i giovini potranno essere utilizzati per rimpiazzare i controllori e gli addetti al servizio su treni, autocorriere e battelli per la navigazione lacustre) e aprile (quando, passati i rigori invernali, gli studenti potranno essere adibiti alla riparazione delle buche nei manti stradali e all'edificazione di ponti e viadotti).
Si parla anche del maggio come mese ideale per l'utilizzo delle giovani generazioni in sostituzione delle guardie carcerarie, ma la cosa non è certa perché, essendo questo il mese mariano, sembra che la CEI voglia organizzare corsi full-time di chierichetto: staremo a vedere.

mercoledì 12 maggio 2010

West Wing reloaded

Per gli amanti di West Wing (oltre che per gli appassionati di diritto pubblico) la nomina di un giudice alla Corte Suprema degli Stati Uniti è sempre un evento.
E' quindi con particolare interesse che abbiamo appreso della nomina di Elena Kagan a tale carica da parte di Obama (certo, se avessimo letto la notizia sul Corriere avremmo saputo che la Kagan sarà il prossimo Procuratore Generale della Corte Suprema, il che è doppiamente sbagliato, sia per il fatto che l'indicativo non dovrebbe mai essere usato in questo caso, dato che la nomina dovrà passare il vaglio del Senato, sia per il fatto che il Procuratore Generale della Corte Suprema non esiste proprio. Ma forse il pezzo è stato scritto dalla Farkas).

Com'è, come non è, subito dopo la nomina è venuto fuori un cancan riguardante la presunta omosessualità della Kagan. Sulla retina italiana, fra gli altri, ne ha scritto Sofri, ne ha scritto il giornale di Sofri e ne ha scritto anche Scalfarotto, omosessuale dichiarato. Tutti questi opinionisti ritengono che la Kagan, una volta richiesta di dichiarare la propria identità sessuale, abbia il dovere di rispondere. Come scrive Scalfarotto, nascondersi sarebbe «una scelta intollerabile, secondo me, per chi invece è chiamato a decidere in nome di milioni di persone sui grandi temi della società e a schierarsi presto o tardi in questa guerra di trincea che lo tocca non solo come cittadino e policy maker ma come omosessuale».
Mi sembra che ci sia un grosso equivoco di fondo. Sgombriamo anzitutto il campo da un possibile fraintendimento: se la carica di Giudice della Corte Suprema fosse di natura squisitamente giudiziaria, il problema neppure si porrebbe: i giudici debbono rispondere solo della propria competenza tecnica, e di null'altro, essendo per definizione terzi rispetto a qualunque controversia. Ma la Corte Suprema è un organo di natura politica, non giudiziaria.
Ma comunque la Kagan ha tutto il diritto di dichiararsi o meno, come preferisce: e questo, anche nel caso in cui fosse veramente omosessuale, non potrebbe essere visto in alcun modo come un sintomo di vigliaccheria o di estraniamento dalla lotta.
Chi è chiamato a una carica pubblica di natura politica vi è chiamato per le proprie idee e per i propri progetti, non per il proprio comportamento. Gli elettori che votano Casini lo fanno perché propugna e promette di salvaguardare i valori della famiglia e della religione, non perché è divorziato. E si aspettano che lui, coerentemente con le proprie promesse, si batta per qual programma: non che lasci la seconda moglie e torni ad accasarsi con la prima.
Così pure al leghista del paesino del Triveneto non gliene frega niente che il sindaco si sia fatto beccare in macchina mentre si faceva penetrare da un viado: gli importa che prometta di cacciare i viados e che una volta eletto agisca di conseguenza.
Di contro, è oramai provato che Heydrich fosse di origine ebraica (mentre per quanto concerne Hitler si tratta allo stato di una mera leggenda), il che non gli ha impedito di organizzare lo sterminio di sei milioni di cosanguinei. E tutti conosciamo mille esempi di politici o predicatori che si sono scagliati volta a volta contro la droga, contro la promiscuità sessuale, contro la pedofilia, contro l'omosessualità, e sono stati poi beccati con cocaina, puttane, foto di lattanti o tra le braccia nerborute di bei maschioni.
Ed è proprio per questo che l'essere omosessuale (o negro, o ebreo, o medico) non ha niente a che vedere con l'avere una politica sull'omosessualità (o sulla negritudine, o sul sionismo, o sulla gestione della sanità pubblica).
Certo, è più probabile che un omosessuale possa avere maggiore attenzione alla difesa dei diritti dei propri simili e delle minoranze in genere: ma come abbiamo visto ciò non è scontato, e comunque il fatto di aver maggiore attenzione non vuol dire aver migliori proposte: e sono le idee e le proposte che vanno declinate, non le pratiche.

lunedì 3 maggio 2010

Forza Lazio, vota Antonio!

C'è un gran can can in giro per il fatto che ier sera la Lazio ha giocato un po', come dire, sottotono. E perché i tifosi laziali hanno esultato quando la loro rete è stata violata.
Si tratta di cose che dovrebbero essere trattate per quello che sono: questioni di tifoserie che riguardano ventidue mutandati che spingono palloni nelle reti, non come questioni di stato.
Sui socialcosi tuttavia gli animi si sono accesi, sono volati insulti, si sono rotte amicizie. Forse ciò è successo anche nella vita reale, per quanto non ne sono a conoscenza dato che ho la fortuna di non avere nella vita reale amici che rompono una relazione per questo tipo di motivi.

Stringi stringi, ciò che si imputa ai tifosi della Lazio è che hanno preferito veder perdere la propria squadra piuttosto che veder vincere lo scudetto ai romanisti.
Che tale comportamento sia giusto o sbagliato, morale o immorale, sportivo o antisportivo è questione che potrebbe dirimere Armando Massarenti sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore: ma egli purtroppo è milanista.
Io non sono in grado e quindi mi taccio, pur ammettendo che in quanto portatore sano di fede nerazzurra la cosa mi ha divertito. Non dico che mi abbia fatto piacere (tenuto conto anche del fatto che poi la Inter sarà accusata per i prossimi vent'anni di aver rubato uno scudetto): ma mi ha divertito.

C'è però una cosa che non posso accettare: che a censori dei tifosi laziali si ergano coloro che si dicono di sinistra e votano Grillo o Di Pietro.
Costoro, secondo i casi, votano un fascista o un protofascista, solo in nome del loro antiberlusconismo. Non votano per le loro idee: votano a favore di chi è più contrario al loro avversario. E mentre stigmatizzano questo comportamento in una questione sciocca e sbarazzina, come una partita di calcio, ergendosi dall'alto del loro moralismo a nuovi Catoni, non si fanno poi scrupolo di svendere il loro voto -che dovrebbe essere il momento più elevato del loro essere cittadini, e quindi uomini- al primo urlatore che passa o al primo scribacchino che travaglia un'idea di manette.
Io, anche se a volte non sembra, sono ferocemente contrario a Berlusconi e a ciò che rappresenta. Ma non verrei mai meno alle mie idee fondamentali per favorirne la sconfitta: di fronte all'alternativa tra altri cinque anni di Berlusconi o un partito di sinistra alleato con Fini, sceglierei cinque anni di Berlusconi.
Ma di fronte all'alternativa di una sconfitta in casa dalla Roma o di uno scudetto al Milan, sceglierei la sconfitta in casa. Perché ci sono cose serie e cose di giuoco; e quelle serie vanno prese sul serio mentre su quelle di giuoco si può giuocare.
Evidentemente però c'è chi crede che si debbano prendere sul serio i giochi e giocare con la cosa pubblica. E' un suo diritto: siamo o non siamo in democrazia?

lunedì 26 aprile 2010

Il compagno Fini

Già da tempo Gianfranco Fini è visto con un certo favore da gran parte dell'elettorato di centrosinistra. Tra gli elementi che hanno fatto breccia nel cuore di molti che un tempo lo consideravano semplicemente un fascista, possiamo ricordare: il suo senso dello Stato che si distingue dialetticamente dalla concezione berlusconiana dell'esercizio del potere come fonte di arricchimento o comunque di utilità personale; l'attenzione ai problemi dell'integrazione e della cittadinanza, con le proposte di consentire il voto amministrativo agli immigrati e semplificare il processo di naturalizzazione; il giusto rilievo dato al principio di laicità, ben espresso nel caso di Eluana Englaro e nella discussione delle proposte sul testamento biologico; le aperture in tema di omosessualità e riconoscimento delle coppie di fatto. E potremmo proseguire.
Dopo lo showdown di giovedì scorso alla Direzione Nazionale del PdL l'entusiasmo per questo politico, già delfino di Almirante, ha raggiunto vertici insospettabili fino a poche settimane fa: al punto che taluni, non troppo provocatoriamente, vedrebbero meglio lui al posto di Bersani quale leader del Partito Democratico o perlomeno ne preconizzano un ruolo di sponda.

In effetti non si tratta di una cosa nuova: ai tempi in cui si faceva politica nei licei, e magari ogni tanto ce le si dava di santa ragione, capitava spessissimo che su molte tematiche (chessò: il ruolo dell'Italia nella NATO, la lotta alla corruzione, la moralizzazione della vita pubblica, il supporto a movimenti autonomistici come in EIRE e in Palestina) le posizioni dei rossi e dei fasci fossero tra loro perfettamente sovrapponibili.
Tale comunanza di obiettivi tattici ingenerava una notevole confusione nel quattordicenne dell'epoca, che maturava la convinzione che quelli del Fronte della Gioventù fossero dei naturali alleati contro i ciellini e i repubblicani, e si chiedeva perché mai non ci si potesse mettere insieme per menare costoro, anziché menarsi tra uguali.
Interveniva allora la lezioncina che spiegava quali siano i valori della Destra e quali i valori della Sinistra, evidenziando che malgrado la comunanza di obiettivi tattici, le ideee stesse di società dei due fronti siano tra loro antitetiche; e come per avere una comprensione delle differenze occorra guardare ai grandi sistemi e non solo alla battaglia del giorno dopo.
Si imparava così che la dialettica tra Destra e Sinistra può declinarsi in una congerie di dicotomie: Doveri/Diritti; Egualitarismo/Liberismo; Individualismo/Collettivismo; Responsabilità individuale/Protezione sociale; Gerarchia/Libertà; Nazionalismo/Internazionalismo; Patriottismo/Multiculturalismo; Corporativismo/Conflitto tra classi (e mi scuserete se butto lì un po' di roba, troppo di fretta).
Orbene, di tutti questi valori non ve ne è uno solo che Gianfranco Fini abbia mostrato di aver abbandonato o anche solo messo in secondo piano.
Gianfranco Fini è, solidamente, un uomo di destra: uno che pensa che prima venga lo Stato e poi gli individui, che la Patria sia il primo bene; che lo Stato debba regolare ma non correggere i vizi del mercato; che la stratificazione sociale sia funzionale allo sviluppo e che i correttivi debbano intervenire solo nella misura in cui servano a limitare le tensioni sociali; che le Regole vadano seguite in quanto Regole.
Il problema sta a Sinistra: sta nel fatto che è la Sinistra italiana che in questi ultimi tre lustri ha perso la propria natura, trasformandosi in una mera associazione elettorale contro Berlusconi. Del resto il concetto stesso di Sinistra è sparito: si parla di Centrosinistra e non per caso, se pensiamo che gli unici governi riconducibili a quest'area sono stati diretti da un uomo che viene da una tradizione del tutto diversa: e difatti le istanze di sinistra, quali potrebbero essere l'appiattimento della curva di Lorenz o il rafforzamento della tutela dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro, non hanno avuto alcuno spazio.
Non parliamo poi di Veltroni, che per portare in Parlamento gli industriali del Nord-Est è riuscito persino a (re)inventarsi il Patto tra Produttori: vale a dire il principio fondamentale alla base della Carta del Lavoro. Carta del Lavoro che a sua volta non è del 1997 e non è figlia di Marco Biagi: è di Giuseppe Bottai, è del 1927 ed è stata uno dei documenti fondamentali dello Stato fascista.
Insomma: il problema identitario non pertiene a Gianfranco Fini, bensì alla sinistra. E finché la Sinistra si preoccuperà di Berlusconi, della metodologia terapeutica delle sue disfunzioni erettili e dello stato di purezza nel quale riceve il Corpo di Cristo; ebbene fino ad allora quella Sinistra non sarà mai in grado di capire perché Gianfranco Fini sia un avversario e non un potenziale alleato.
Fortuna che Fini lo capisce bene, almeno lui.

 

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