mercoledì 4 febbraio 2009

Contro Sacconi (Appunti di diritto pubblico)

necessaria premessa: questo post è scritto un po' di getto ed utilizza espressioni semplici e colloquiali, come se fossimo al bar. Se quanto segue facesse parte di una tesina di uno studente al primo anno di giurisprudenza gli direi di darsi all'informatica; ma l'importante per me è solo par passare i concetti generali

Tutti sanno fin dalle elementari che nello Stato di diritto vige il principio di separazione dei poteri, anche se per molti questa sembra solo una vaga formula, e talvolta riesce difficile comprenderne appieno il significato.
In un ente politico (una comunità di persone legate a un territorio, che sia un consiglio di quartiere o un impero non conta) possono talvolta essere esercitate liberamente e indipendentemente alcune funzioni pubbliche apicali: e in questo caso siamo di fronte a un ente sovrano.
In particolare stiamo parlando:
  • della funzione legislativa, vale a dire lo stabilire norme (regole generali ed astratte) che regolino i rapporti tra i consociati;
  • della funzione esecutiva o amministrativa, vale a dire la concreta messa in atto di quanto disposto dalle norme;
  • della funzione giurisdizionale, vale a dire la risoluzione delle controversie originatesi nell'applicazione e nell'interpretazione delle norme

  • E così, per fare un esempio, il potere legislativo è quello che stabilisce che i bambini a sei anni debbano andare a scuola; il potere esecutivo bada a che vengano costruite le scuole, nonimati gli insegnanti, stabiliti i programmi di studio e via discorrendo; il potere giudiziario punisce i genitori che non mandano i figli a scuola, dirime le controversie riguardanti le graduatorie relative agli insegnanti di ruolo e decide se uno studente che asserisce di essere stato ingiustamente bocciato abbia ragione o torto.

    La separazione dei poteri non è ontologicamente necessaria: anzi si tratta di una conquista relativamente recente e tutto fuorché stabilmente acquisita. Nella Francia di Luigi XIV tutti i poteri appartenevano al Sovrano, e lo stesso valeva per la Francia di Luigi XVII (mi si passi la battuta), dove tutti i poteri erano concentrati nella Convenzione, o per la Germania hitleriana. Per quanto concerne l'Italia del 1922, basta l'incipit del Discorso del Bivacco per comprendere cosa ne pensasse il Capo del Governo, del Parlamento: "Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto"
    In altre parole: le tre funzioni sono sempre riconoscibili in un ente politico sovrano; ma non è per nulla scontato che esse facciano capo ad enti diversi tra loro: e quindi che siano separate.
    Sta di fatto che -malgrado taluno possa auspicare il ritorno ai fasti dell'ormai non più tanto recente passato- l'Italia del 2009 è uno Stato di Diritto, ed ha una Costituzione che statuisce il principio della separazione dei poteri.

    Per comprendere meglio tale principio, è importante sviluppare un paio di approfondimenti.
    Anzitutto, la tradizionale formula che si trova sui sussidiari (il legislativo fa le leggi; l'esecutivo applica la legge e il giudiziario punisce chi non rispetta la legge) è fuorviante: io perlomeno da piccolo non riuscivo proprio a comprendere la differenza tra esecutivo e giudiziario; e più grandicello ho scoperto anche che esistevano i tribunali civili dove non si punisce nessuno, bensì si applica la legge.
    In secondo luogo, va rilevato che non esiste una separazione piena ed assoluta. Il Governo ha il potere di emanare norme generali ed astratte, quali i Regolamenti, e quindi partecipa della funzione legislativa seppur in via subordinata al Parlamento (in quanto i Regolamenti sono posposti alla Legge nella gerarchia delle fonti). D'altro canto il Parlamento stesso, e per la precisione ciascuna delle due Camere, si amministra da sola, e quindi esercita nei confronti di sé stessa e dei suoi interlocutori anche il potere esecutivo e persino quello giudiziario.

    Una bella confusione, no? Che tuttavia può essere chiarita, se si pensa che l'esecutivo è un esecutore della legge, il suo braccio armato, mentre il giudiziario ne è l'interprete.
    Il giudiziario ti condanna a dieci anni, ma è l'esecutivo quello che manda i carabinieri ad arrestarti; il giudiziario riconosce che hai diritto a un risarcimento di 10.000 euri, ma è dall'esecutivo che dipende l'ufficiale giudiziario che pignora il conto del debitore. In estrema sintesi: l'esecutivo ha la forza, il giudiziario esercita un controllo sul suo uso. E con forza non si intende solo il carabiniere con la pistola: anche la concessione di un'autorizzazione ministeriale è forza, seppur di natura economica anziché bruta.

    L'esercizio del potere esecutivo richiede rapidità e coerenza nell'azione. Come sul campo di battaglia, occorre che le decisioni siano prese in maniera pronta e coerente, altrimenti si finisce come i comunardi parigini, che votavano per decidere dove piazzare i cannoni mentre le truppe di MacMahon avanzavano: ed è per questo che al Governo c'è una maggioranza (che si suppone concorde nelle decisioni) mentre in Parlamento ci sono tutte le forze politiche (sic!). Ma l'uso della forza senza controllo dà luogo all'assolutismo, all'arbitrio, alla dittatura. Ed ecco perché in uno stato di diritto il potere giudiziario è separato e l'esecutivo deve sottostare alla legge e rispettare l'interpretazione della legge che il potere giudiziario pronuncia.
    Se l'esecutivo potesse agire fuori del controllo del potere giudiziario non sarebbe più sottoposto alla legge. Se l'esecutivo potesse anche una sola volta stabilire che una sentenza è ingiusta, nulla gli impedirebbe di stabilirlo una seconda, una terza e così via. Da qui al discorso del 3 gennaio 1925 il passo sembra enorme, ma è solo questione di scala: è un problema quantitativo, non più qualitativo.

    L'indipendenza e l'autonomia della Magistratura sono elementi fondativi della nostra forma di Stato. Indipendenza ed autonomia che finora sono sempre state interpretate come guarentigie tese a far sì che il singolo giudice non si possa trovare costretto o sospinto, per pavidità o interesse di carriera, a prendere una decisione in un senso piuttosto che nell'altro al fine di compiacere il Governo. Ed è per questo che avanzamenti di carriera e punizioni disciplinari sono decisi dal CSM, non dal Ministro della Giustizia.
    Era ovvio, ma ora non lo è più: perché in passato abbiamo visto governanti che cercavano di indirizzare le decisioni dei giudici prima che fossero prese; abbiamo visto governanti criticare anche aspramente sentenze e promettere riforme contro le toghe verdi, rosse o blu. Ma non avevamo ancora visto governanti che, senza porsi minimamente il problema di andare contro la Costituzione, semplicemente se ne fregano di una sentenza passata in giudicato e agiscono esattamente al contrario rispetto a quanto stabilito dal potere giudiziario.

    Per quanto assurdo possa essere, il problema dell'indipendenza del potere giudiziario ha ora trovato una soluzione alla quale non si era ancora pensato: si lascia ai giudici la libertà di pronunciare la propria interpretazione della legge, dopodiché la si ignora o addirittura la si contrasta con azioni e parole.
    Un Ministro che agisce in modo contrario rispetto a quanto disposto da una sentenza definitiva viola il giuramento di rispettare la Costituzione e le leggi della Repubblica, e dovrebbe essere immediatamente rimosso dal proprio incarico: dal Capo del Governo stesso. E, qualora il Capo del Governo non vi provvedesse, l'opposizione parlamentare non dovrebbe perdere un minuto soltanto e chiederne la rimozione. Perché l'opposizione, in Parlamento, ci sta proprio per quello: per controllare il Governo, non per tentare di condividerne e indirizzarne l'operato.

    (segue qui)

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