questo post è lungo e probabilmente *molto* tedioso; e oltretutto non si rivolge alla pancia di alcuno né distribuisce facile ironia: per cui se non siete dell'umore giusto saltatelo a pie' pari, suvvia; e se avete voglia di leggerlo, ma molta fretta, rimandate. Tanto resterà attuale ancora per qualche anno.Se n'è parlato tanto, della votazione sullo scudo fiscale, da tanti punti di vista; e forse è ora il caso di riflettere un pochino, a mente un po' più fresca, per fare un punto organico di quanto accaduto, sfatare qualche mito e trarre qualche conclusione.
La prima cosa da considerare è questa: nell'attuale assetto parlamentare, quale esce dal disastro istituzionale avviato quasi vent'anni fa da Mariotto Segni e via via sempre peggiorato nel corso del tempo, le assenze dei deputati d'opposizione non sono in grado di provocare il respingimento di alcun provvedimento.
Vi sono due spiegazioni a ciò: una banale, l'altra meno.
La spiegazione banale: nell'aula ci sono due schieramenti, la maggioranza e l'opposizione. I deputati non sono sempre presenti in aula, dato che l'attività parlamentare non consiste solo nell'andare a sedersi e schiacciare un bottone (altrimenti si potrebbe fare con il televoto, o addirittura si potrebbe sposare la proposta di Berlusconi di far votare solo i capigruppo): è per questo che è normale che vi siano assenze sia nei banchi della maggioranza che in quelli dell'opposizione.
Il capogruppo di maggioranza, o un suo delegato, ha il preciso compito di contare gli scranni e i deputati in transatlantico, e verificare che tempo per tempo il numero dei deputati di maggioranza sia maggiore (per l'appunto) rispetto al numero dei deputati di minoranza. Qualora così non fosse, o il margine di vantaggio dovesse pericolosamente assottigliarsi, si convocano all'istante i deputati assenti, in modo da ristabilire la supramazia numerica. considerato che alla Camera dei Deputati la coalizione di maggioranza ha un minimo di 340 seggi su 630 (e pertanto l'opposizione ha al più 290 deputati) vedete che il divario di 50 voti è più che sufficiente a far dormire sonni tranquilli al Governo.
L'assenza di uno, dieci o anche cento deputati d'opposizione è quindi del tutto ininfluente; mentre ovviamente è molto grave l'assenza ingiustificata di un numero di deputati di maggioranza superiore a cinquanta, salvo che i medesimi non siano in grado di accorrere per tempo alla chiamata del capogruppo: ma non è di questo caso che stiamo discutendo.
Dire quindi che lo scudo fiscale si sarebbe potuto bloccare, se fossero stati presenti i cinquanta deputati circa di opposizione che non hanno partecipato alla prima votazione sulle pregiudiziali di costituzionalità, è una colossale sciocchezza dacché, se costoro fossero stati presenti, nelle file della maggioranza sarebbero stati chiamati altri cinquanta deputati, con il medesimo risultato.
Questo meccanismo è perfettamente noto non solo ai cronisti parlamentari, ma anche a un qualsiasi studente del secondo anno di scienze politiche: il fatto è che la stampa ha montato un caso puramente demagogico, e a questo punto dobbiamo chiederci quali siano i motivi sottesi a ciò. Io non ho una risposta da fornire, anche perché non sono in grado di indicare con precisione da quale parte sia venuto lo scandalo: ben diverso infatti sarebbe se il caso fosse stato montato da Repubblica piuttosto che dal Giornale; per ora, quindi, dobbiamo (devo) sospendere il giudizio.
Ben diversa è la questione del secondo voto, quello definitivo sul provvedimento. Qui gli assenti erano solo ventinove, se non erro: ventinove voti che sarebbero stati del tutto ininfluenti, come nel caso precedente. C'è però una differenza, e marchiana! Nel secondo caso, infatti, i parlamentari d'opposizione venivano da una settimana in cui su tutti i giornali non s'era parlato altro che delle assenze in aula. Pertanto, con l'eccezione di quei due-tre (o cinque, o anche dieci) malati gravi, impossibilitati a muoversi, un minimo di rispetto dell'elettorato e di senso del proprio ruolo avrebbe dovuto spingere tutti gli eletti, a qualsiasi schieramento appartenessero, ad essere presenti alla votazione. Non sarebbe cambiato nulla, beninteso, ma il messaggio dato agli elettori sarebbe stato chiaro.
Alcuni eletti, dalla ciliciata alla figlioccia del Puffo Triste, hanno deciso di essere altrove: sapevano certo che la loro presenza in aula non avrebbe fatto respingere la legge, ma non hanno colto il significato politico della loro assenza. Circostanza gravissima per gente che pretende di fare il politico di professione, e che certo non riguarda il deputato Gaglione, che ha partecipato a meno del 10% delle votazioni e quindi, per usare un eufemismo, se ne strafrega.
Il fatto, però, è che il cardiologo Gaglione, quello che preferisce stare a Studio piuttosto che sedere in Aula, non è stato scelto dagli elettori, come ben sappiamo tutti; e questo ci porta ad affrontare la spiegazione non del tutto banale, che avevamo lasciato in sospeso.
C'era un tempo, quello della cosiddetta Prima Repubblica, in cui i partiti erano un discreto numero: una decina, più o meno, su base nazionale, oltre ad alcuni storici esponenti delle autonomie locali con un forte radicamento nelle regioni di confine.
La disciplina di partito era sentita: rigida per alcune formazioni e ferrea per altre. Rammento che mia madre comperava l'Unità, quando ancora non era diretta da Padellaro, e in prima pagina, in basso, compariva ogni settimana un boxino che diceva
Tutti i deputati e le deputate del PCI sono tenuti senza eccezione alcunaad esser presenti a Montecitorio martedì e mercoledì; e il grassetto non è mio. Per quanto ovvio, non era neppur pensabile che un deputato del PCI votasse diversamente da come disponeva il Partito.
Gli altri partiti non avevano lo stesso piglio militaresco, ma la sostanza non cambiava di molto: i deputati dei gruppi votavano compatti. Ben diversa la situazione disciplinare a livello di partito: le maggioranze erano formate formale dalle più disparate composizioni di rami e rametti (id est partiti e partitini), ciascuno dei quali aveva le proprie istanze da portare e i propri obiettivi da raggiungere; il che faceva sì che il voto favorevole a ciascun provvedimento venisse, sovente, contrattato.
Barbarie!!!, gridò a un tratto Mariotto Segni, e ci avviò, con il consenso del 90% dei miei concittadini, verso un moderno sistema maggioritario, dove le maggioranze di governo non sono a rischio né sottoposte al ricatto del primo gruppuscolo. Un sistema solidamente maggioritario e bipartitico, come quello della più grande democrazia del mondo, gli Stati Uniti d'America.
Poi è arrivato Veltroni*, che questa fola se la beveva, e ancora ce la ammannisce.
Il fatto, vedete, è che io il sistema politico degli Stati Uniti d'America l'avevo studiato, sapevo come funzionava e sapevo che non c'entrava una cippa con quello che ci ha propagandato Mariotto Segni e via via nel tempo, fino a Veltroni (il quale nella sua oligofrenia si è convinto che fosse sufficiente dare al suo partito il medesimo nome di quello di Kennedy per sostituire nottetempo la Costituzione firmata da Terracini con quella firmata da George Washington; o forse non si tratta di oligofrenia, ma di semplice malafede).
Potrei farvi un pippone lungo almeno quanto quello che precede, ma fortunatamente non ce n'è bisogno perché proprio l'altra sera mi sono visto, to'!, un altro episodio di West wing, e precisamente
S03E04: un vero puttanaio.
Il Presidente ha messo il veto ad una legge, e negli USA per superare il veto presidenziale ci vogliono due terzi dei voti delle camere. Il fatto è che il Presidente si accorge che questi due terzi ci sono, perché una certa parte di democratici voterà a favore della legge voluta dai repubblicani. come? E' inammissibile, tuonerebbe Mariotto. Ribaltone!!!
Ma in America le cose funzionano così; e non solo: perché finalmente si trova un deputato democratico che controlla quattro voti che sarebbero sufficienti a ribaltare l'esito della votazione, e che avvia con lo staff presidenziale una trattativa che al confronto un venditore di tappeti a Casablanca ha la stessa trasparenza di comportamento e stabilità di listino di un distributore automatico di preservativi fuori da una farmacia.
Né lo staff presidenziale è da meno, quanto a pelo sullo stomaco, dato che all'ennesima richiesta i due negoziatori mandano a quel paese il democratico (quello dello stesso partito del presidente!) e trovano un repubblicano al quale fanno le stesse offerte. e questi accetta di votare a favore del veto posto dal presidente repubblicano, ottenendo in cambio un vantaggio per le elezioni successive, vale a dire che i democratici gli schierino contro, al momento giusto, un avversario debole.
No, dico: capito come funzionano le cose in America? Dove c'è il bipartitismo, c'è pure una enorme autonomia dei singoli eletti: i partiti sono contenitori nei quali c'è un po' di tutto, e ciascun eletto si muove come crede. Tanto che al congresso non basta contare le sedie: bisogna anche sapere, provvedimento per provvedimento, come voterà ciascun deputato: il che è tutt'altro che scontato.
Anche noi abbiamo questo principio, all'art.67 della costituzione, che dice che i parlamentari sono eletti
senza vincolo di mandato. Peccato che da tutte le parti (PD o PDL, non cambia) l'imposizione nei fatti del vincolo di mandato sia cosa fatta, con il meccanismo delle liste bloccate e con la deresponsabilizzazione del ruolo del parlamentare, che viene visto non a caso come uno schiacciatore di bottoni.
Qualcuno si è forse domandato se la Madia, qualora fosse stata presente in Aula, avrebbe votato a favore o contro lo scudo fiscale? No, perché è scontato che ella avrebbe votato contro, in quanto eletta nel partito di minoranza. Tanto che gli unici casi in cui il problema del scegliere da quale parte votare si è posto sono stati quelli riguardanti scelte cosiddette "di coscienza", sia in questa che nella precedente legislatura, come tutti ben ricordiamo. Come se solo l'autorità della morale, o meglio della Chiesa, potesse giustificare lo scioglimento del vincolo di mandato partitico.
Siamo tornati alla Prima Repubblica, quindi? No, ahimé: perché questa disciplina ferrea si sposa con una legge ipermaggioritaria che conferisce ad una coalizione la maggioranza assoluta dei seggi (e se fosse stato per Mariotto, tale maggioranza sarebba andata a un solo partito!); ma la maggioranza non viene costruita in Parlamento, come una volta accadeva, bensì al momento della presentazione delle liste, il che significa
nelle segreterie dei partiti.
Il fatto che la coalizione sia predeterminata e sulla base di ciò premiata in caso di vittoria, rende assai difficile il suo scioglimento; e forse non hanno tutti i torti coloro che affermano che sarebbe dovere del Capo dello Stato sciogliere le Camere in caso di ribaltone, dal momento che parte dei deputati, quelli discendenti dal premio di maggioranza, devono la presenza in aula non al voto popolare bensì al premio discendente dalla vittoria della coalizione anziché del partito**.
Che abbiamo, dunque? Un Parlamento esautorato di qualunque potere e financo di qualunque dignità, in quanto privi di potere e di dignità sono i suoi componenti, mere estensioni della segreteria di partito, vere e proprie dita viventi. E delle segreterie di partito che non possono sfuggire alla coazione dello schieramento nel quale si sono infilate prima ancora della chiamata alle urne, e che sono costrette a recitare sempre il medesimo ruolo, incessantemente, come gli avari del quarto cerchio.
Chi tira le fila, dunque? Uno solo, il capo della coalizione vincente. O, più precisamente, chi tira le fila dell'organizzazione del partito di maggioranza, ed è in posizione tale da poter decidere incarichi e soprattutto determinare i nomi da inserire nelle liste elettorali e le relative posizioni nell'ordine di presentazione.
Se avete avuto la pazienza di seguirmi fin qui, mi chiedo, e vi chiedo: di fronte a questo squallido simulacro in cui si è ridotta la nostra democrazia, credete davvero che sia il caso di indignarsi perché la Melandri stava in Ispagna o la Madia dal dottore? Voi stessi, che vi indignate, vi rendete conto di quanto avete contribuito ad arrivare a questo punto? Certo, quando avete votato sì nel 1993 non vi aspettavate tutto ciò; e neppure quando avete inseguito le sirene del voto utile, lasciando in Parlamento un manipolo di entità le quali, tra le prime cose che hanno fatto, sono state ben attente ad autoperpetuarsi, garantendosi con le soglie di sbarramento che neppure alle elezioni europee le voci dissenzienti potessero farsi sentire.
Voci dissenzienti che peraltro hanno fatto di tutto per rovinarsi definitivamente, dal momento che sono riuscite, ciononostante, a presentarsi divise, mettendo in scena una rappresentazione canonica del dilemma del prigioniero, a dimostrazione del fatto che i matematici e gli economisti nella politica italiana sono troppo pochi.
Non crediate che io scagli pietre in quanto mi senta privo di peccati: io per primo, pur criticando i Segni, i Travagli, i di Pietri, gli utilitaristi del voto e compagnia cantante, non ho fatto proprio nulla per indirizzare le cose e le persone in altre direzioni: mi sono limitato a guardare e borbottare ogni tanto, come un vecchietto un po' tocco che si lamenta di questi giovinastri che girano per strada al giorno d'oggi.
*già: cito il nome, anche se porta sfiga, perché altrimenti comincio a somigliargli troppo
**si noti, tuttavia, che nell'attuale legislatura la vittoria della coalizione PdL-Lega è stata così schiacciante da rendere inutile il premio di maggioranza e quindi, paradossalmente, un ribaltone sarebbe politicamente accettabile.