giovedì 26 marzo 2009

Vénalité des Charges

Nei bei tempi dell'Ancien Régime gli uffici pubblici erano ricoperti da funzionari cui il Sovrano delegava una parte del proprio potere affinché sbrigassero in suo nome taluni affari.
Taluni incarichi, quale quello di collettore delle imposte, avevano un notevole riscontro economico, dato che gli esattori trattenevano parte delle imposte raccolte quale compenso per la propria attività; ma anche gli uffici che non consentivano di arricchirsi (non che ve ne fossero poi tanti, anche in questa categoria) avevano comunque un valore, ad esempio in quanto comportavano esenzioni fiscali, o costituivano gradini verso l'innalzamento nella scala sociale e strumenti per avvicinarsi alla nobiltà, se borghesi, o per aumentare il proprio prestigio.
Fu così che pian piano l'accesso alle cariche fu condizionato al pagamento di una tassa, il che non destò grande scandalo finché Francesco I, che come al solito aveva bisogno di soldi per pagare dei mercenari svizzeri, non pose in vendita dei posti di giudice al Parlamento di Parigi.
Era nata la venalità delle cariche, istituto fondamentale della storia francese che non solo sopravvisse indisturbato sino alla Rivoluzione, ma anzi ebbe notevoli evoluzioni con il tempo.
La prima notevole conseguenza fu il fatto che il funzionario, una volta pagata la tassa, aveva qualcosa di molto simile alla proprietà dell'ufficio: del resto chi comprerebbe una casa sapendo che il costruttore può riprendersela quando vuole? Ecco così che il Re stesso, a causa della venalità delle cariche, vide ridursi il suo potere di allontanare funzionari infedeli o inefficienti ai soli casi di colpa grave o tradimento.
Il secondo passaggio fu quello di considerare che, se la carica era una proprietà del funzionario, questi poteva anche rivenderla a terzi: e infatti così fu, seppure in forme molto meno crude di quelle che qui vi descrivo.
Con Enrico IV poi il giochino perse ogni barlume di dignità, e -sempre contro pagamento di una tassa annuale, detta Paulette- le cariche pubbliche divennero trasmissibili per eredità e per compravendita, esattamente come le carrozze o i poderi.

Quando ho letto (via Sofri) che Pippo Civati trova vergognoso che taluni parlamentari del PD non abbiano versato la tassa il contributo al Partito di euri 50.000, mi sono sovvenuti alla memoria i miei studi sul Parlamento di Parigi, e francamente a un primo esame ciò che mi è sembrato vergognoso non è stato il comportamento di chi non vuole versare la Paulette al partito, bensì il comportamento del Partito che ha imposto la tassa.

Poi ci ho pensato meglio, e devo ammettere che, dato che nell'attuale sistema i parlamentari non sono eletti dal popolo, bensì nominati dalle segreterie dei partiti, mi sembra del tutto accettabile il fatto che le stesse segreterie definiscano un listino prezzi per diventare parlamentare.
Potrei anche suggerire di organizzare delle aste su eBay, per massimizzare i ricavi: che ne dite?

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Non è una tariffa per essere eletti. Se non si vuole che la politica sia solo dei ricchi, chi viene eletto deve versare una parte di quanto riceve dal proprio incarico. Questo vale ad ogni livello: il consigliere comunale versa al circolo, il parlamentare ai livelli più alti. I regolamenti sono stati discussi e votati dalle assemblee di circolo, provinciali, regionali ciascuno per le proprie organizzazioni. Non mi sembra scandaloso, anzi mi sembra democratico, anche perché si diventa "eletti" anche grazie alla struttura del partito che ti supporta.

Anonimo ha detto...

A me sembra un po' scandaloso e ben poco democratico, invece. Il difetto non è nel sistema delle quote (contributi, tariffe) in sé, il difetto è nel sistema elettorale che le rende effettivamente delle vere e proprie "tasse" per essere eletti. Io ti scelgo tu mi paghi: finito.
Se scegliessero davvero gli elettori, allora sarebbe diverso e meno scandaloso; e garantirebbe davvero a tutti la possibilità di partecipare alla vita politica del paese, attivamente, come accadeva nella democrazia ateniese; ma in questo momento, allo stato dei fatti, semplicemente non funziona così.

Anonimo ha detto...

Non mi è chiara una cosa, i parlamentari del PD versano tutti la stessa quota quando vengono eletti? o è diversa e proporzionata ai mezzi di ciascuno? Perché nel primo caso, come ho sempre pensato che fosse, forse in buonafede, la vénalité c'entrerebbe ben poco, sarebbe una sorta di tassa sullo stipendio da parlamentare.

m.fisk ha detto...

Una tassa, dici?
Le tasse le impone lo Stato. Quelle imposte da altri io le chiamo tangenti.
E -a differenza del pizzo, che si paga per non aver le gambe spezzate- il bello delle tangenti, è che chi le paga lo fa perché mette in conto di rientrare dell'investimento, con gli interessi.
Il costruttore paga un milione per guadagnarne dieci con un appalto; l'imprenditore paga centomila per avere un finanziamento da tre milioni; il disperato paga 500 per avere uno straccio di lavoro in nero.
Chi paga 50.000, cosa si propone di ottenere?

Cicciocolla ha detto...

Non riesco a trovarci qualcosa di scandaloso. Se io fossi membro del Pd e credessi in quella specie di informe progetto sarei ben felice di devolvere al partito una parte della mia retribuzione da consigliere comunale, provinciale o quant'altro, a patto che sia una quota pari per tutti gli eletti allo stesso tipo di carica.
In sé il sistema non ha nulla di male, secondo me. E' un contributo a un'istituzione che si vuol vedere crescere.
PS:era mio anche il commento anonimo precedente, non avevo ben capito come si facesse ad inserire il nome...

 

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